| Onorevoli Deputati! -- I sottoscrittori della
presente proposta ritengono che, in un momento politico come
quello attuale in cui è d'obbligo ripensare gli strumenti
della rappresentanza democratica, sia indispensabile ripensare
anche gli istituti della democrazia sindacale ed industriale.
Non può, infatti, esserci democrazia nel sistema politico
senza democrazia nella rappresentanza di interessi e, in
particolare, nella rappresentanza sindacale; non può esserci
democrazia nel Paese, senza democrazia all'interno dei luoghi
di lavoro.
L'attuale assetto normativo è largamente insoddisfacente:
nei decenni trascorsi dall'introduzione nella nostra
Costituzione del principio di democraticità interna alle
associazioni sindacali (articolo
39), e segnatamente nell'ultimo quindicennio, si è aperta e
approfondita la contraddizione tra influenza di fatto e di
diritto dell'azione sindacale sull'insieme dei lavoratori
subordinati, da un lato, e, dall'altro, carenza, non solo di
diritto ma anche di prassi, di strumenti idonei a misurare il
loro consenso ai metodi e ai contenuti di quella azione.
Infatti, se in epoche precedenti la carenza di norme legali
era supplita da prassi idonee a verificare nei fatti quel
consenso, queste prassi sono progressivamente venute meno
proprio mentre, parallelamente, un crescente numero di norme
di legge ha attribuito alla contrattazione collettiva il
potere di derogare agli standard di trattamento ivi
previsti (ad esempio,
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si veda l'articolo 5 della legge 9 dicembre 1977, n.
903, in tema di lavoro notturno delle donne). Inoltre numerose
norme di legge o contrattuali - soprattutto, ma non solo,
nella gestione dei problemi particolarmente delicati delle
crisi d'impresa - hanno subordinato l'esercizio di poteri del
datore di lavoro alla consultazione delle organizzazioni
sindacali (significativi esempi sono nella legge 23 luglio
1991, n. 223) o al loro consenso (per esempio, i cosiddetti
"contratti di solidarietà" di cui all'articolo 2 della legge
19 dicembre 1984, n. 863, di conversione del decretolegge 30
ottobre 1984, n. 726). Infine, ma non certo in ordine di
importanza, va ricordata la prassi degli accordi tripartiti di
concertazione con i quali le grandi confederazioni sindacali
storiche, in rappresentanza dei lavoratori, concertano con il
Governo e con gli imprenditori le grandi linee della politica
economica e dispongono dell'intero assetto - nella struttura e
nei contenuti - del sistema contrattuale.
Dunque, di fronte a questa espansione dell'influenza
sindacale sulle condizioni di vita e di lavoro di tutti i
lavoratori, iscritti e non iscritti, il venir meno delle
prassi sopra ricordate rende improcrastinabile un intervento
legislativo che consenta la verifica del consenso dei
rapprentati all'operato dei rappresentanti. Senza la
possibilità reale di questa verifica, infatti, ogni discorso
di democrazia sindacale è scritto sull'acqua.
E' fermo convincimento dei sottoscrittori di questa
proposta che non possa pensarsi di affrontare seriamente il
problema rinviandone nuovamente la soluzione alle prassi
intersindacali o, anche, a norme contrattuali: infatti solo la
legge ha la forza di imporsi, in primo luogo, al datore di
lavoro non tenuto all'applicazione della contrattazione
collettiva di diritto comune e, in secondo luogo, a
quell'organizzazione sindacale che per ragioni strategiche o
contingenti abbia interesse a sottrarsi alla verifica del
consenso. L'esperienza di questi ultimi anni dimostra
ampiamente questo assunto.
I contenuti della proposta ruotano intorno ai seguenti
temi:
a) centralità del consiglio unitario elettivo e
tutela della libertà di associazione sindacale nei luoghi di
lavoro;
b) necessaria ratifica da parte dei rappresentati
dell'operato dei rappresentanti;
c) trasformazione del requisito della maggiore
rappresentatività in quello della rappresentatività
effettiva;
d) unificazione delle regole della rappresentanza tra
lavoro privato e pubblico.
L'articolo 1 della proposta, modificando l'articolo 19
della legge 20 maggio 1970, n. 300, fa del consiglio unitario
elettivo il perno della rappresentanza dei lavoratori sui
luoghi di lavoro. L'iniziativa della sua costituzione può
essere presa da un gruppo di lavoratori la cui consistenza
numerica è tenuta bassa per non porre ostacoli formali alla
sua proposizione; tale potere di iniziativa è anche attribuito
a soggetti sindacali esterni, per far fronte all'ipotesi che
il timore di rappresaglie impedisca ai lavoratori di
assumerla. I limiti numerici dell'unità produttiva sono quelli
dello Statuto dei lavoratori, anche per le imprese
agricole.
L'articolo 2 propone regole per una soluzione rapida ed
efficace del contenzioso sulle elezioni, utilizzando lo
strumento dell'articolo 28 dello Statuto dei lavoratori (legge
n. 300 del 1970).
L'articolo 3 definisce i poteri e i compiti del consiglio:
ad esso spetta gran parte dei diritti sindacali e il potere di
stipulare contratti aziendali con efficacia generale.
L'articolo 4 prevede la formazione di consigli nelle unità
produttive inferiori, completando l'estensione dello Statuto
dei lavoratori alle piccole unità produttive già iniziata, ma
limitatamente ai licenziamenti, con la legge 11 maggio 1990,
n. 108. In tal modo si sana una antica ingiustizia e, forse,
una illegittimità costituzionale - quella della inesistenza di
una tutela dell'attività sindacale nelle imprese minori -
adattando la normativa di principio
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alla diversa realtà. Deve tenersi presente che la
soluzione è mutuata dalla contrattazione collettiva, di cui ne
rafforza ed estende i contenuti.
Se, come si diceva innanzi, il perno dell'autotutela
sindacale nei luoghi di lavoro è posto nei consigli,
altrettanto essenziale è parso salvaguardare la libertà di
associazione. Innanzi tutto questo è un obbligo costituzionale
derivante dall'articolo 39 della Costituzione; ma è anche una
scelta opportuna per assicurare dinamismo al canale della
rappresentanza consiliare: solo l'esistenza di associazioni
libere può dare le garanzie necessarie per il ricambio degli
eletti.
L'opportunità della scelta è apprezzabile anche in una
diversa prospettiva, non certo secondaria: l'evoluzione del
sistema produttivo ha prodotto la creazione o il rafforzamento
di aree professionali i cui interessi sono riconducibili
all'interno di un'azione unitaria solo attraverso una
difficile azione politica. L'esistente assetto giuridico con
le posizioni di privilegio attribuite alle confederazioni
maggiormente rappresentative, lungi dal costituire strumento
idoneo a favorire questo processo di riunificazione, lo rende
difficoltoso in quanto ciascuno di questi gruppi, essendo
ostacolato nel suo stesso diritto all'esistenza come gruppo
organizzato, tende a trovare la propria identità nel conflitto
con le grandi confederazioni storiche. D'altro canto, queste
confederazioni, sentendosi minacciate dall'esistenza dei nuovi
soggetti sindacali, si arroccano nei propri privilegi.
Per spezzare un simile circolo vizioso è necessario sul
piano della legge garantire a tutte le associazioni il diritto
ad agire all'interno dei luoghi di lavoro, lasciando il
necessario spazio ad un'azione tutta politica di
ricomposizione.
Per questi motivi, l'articolo 5 della presente proposta,
sviluppando i princìpi posti dall'articolo 39 della
Costituzione e dall'articolo 14 della legge n. 300 del 1970,
attribuisce alle associazioni sindacali una parte (minore,
rispetto a quella spettante al consiglio) dei diritti
sindacali. Sono favorite le associazioni che abbiano una
effettiva rappresentatività sull'insieme dei lavoratori della
unità produttiva, ma anche le associazioni che siano
sufficientemente rappresentative di un particolare gruppo
professionale o le associazioni aderenti alle grandi
organizzazioni godono di alcuni diritti che non rappresentano
un particolare costo per il datore di lavoro.
Garantita, nei modi precisati nel precedente paragrafo, una
corretta formazione delle rappresentanze, occorre garantire i
rappresentati da eventuali - e sempre possibili - abusi del
mandato conferito. Questo problema viene risolto dal comma 5
dell'articolo 3 e dall'articolo 7 che subordinano l'efficacia
dei contratti collettivi conclusi rispettivamente, dal
consiglio a livello aziendale e dalle organizzazioni sindacali
agli altri livelli, all'approvazione da parte degli
interessati mediante referendum. La disciplina è,
ovviamente, diversa a seconda del livello al quale viene
stipulato l'accordo.
Come si ricordava sopra numerosissime norme di legge
attribuiscono al sindacato maggiormente rappresentativo poteri
e diritti indipendenti da una verifica del consenso
effettivamente ottenuto tra i lavoratori interessati. Ciò è
dovuto non solo all'indeterminatezza del requisito della
maggiore rappresentatività, ma anche al fatto che, di regola,
tale requisito è costruito su una platea di lavoratori più
ampia di quella destinataria degli effetti giuridici del
potere attribuito dalla norma (per esempio l'articolo 2 della
citata legge n. 863 del 1984 attribuisce il potere di
stipulare contratti di solidarietà i cui effetti - ovviamente
- ricadono sui lavoratori di una determinata unità produttiva,
ai sindacati aderenti alle confederazioni maggiormente
rappresentative sul piano nazionale; tale requisito, dunque,
non è desunto dai lavoratori destinatari degli effetti
giuridici del contratto, ma neanche dai lavoratori della
categoria cui appartengono questi ultimi, bensì da tutti i
lavoratori subordinati operanti in Italia).
Per ovviare a questo l'articolo 9 della proposta dispone la
sostituzione, in ogni norma ove ricorra, del requisito della
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maggiore rappresentatività con quello della rappresentatività
effettiva misurata, sulla base di indici esattamente
quantificabili (in alternativa, una percentuale di iscritti
sul totale dei lavoratori sindacalizzati oppure una
percentuale di voti ottenuti sul totale dei voti espressi
nelle elezioni per i consigli), sui lavoratori delle unità
produttive nelle quali devono prodursi gli effetti giuridici
dell'attività prevista e disciplinata dalle norme in
questione.
Corollario di questa impostazione è l'abrogazione
dell'articolo 47 del decreto legislativo
3 febbraio 1993, n. 29, che attribuisce alle
confederazioni maggiormente rappresentative il potere di
concordare i requisiti della maggiore rappresentatività ai
fini della contrattazione collettiva del lavoro pubblico.
Infine, l'articolo 10 della proposta, definendo l'unità
produttiva anche con riferimento al decreto legislativo n. 29
del 1993, unifica le norme sulla rappresentanza nel lavoro
privato e pubblico, nella convinzione che, in materia, ogni
distinzione sia ingiustificata.
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