| l' a., dopo aver individuato i casi in cui puo' verificarsi in
concreto la "mora accipiendi" nel rapporto di lavoro subordinato,
mette in luce la diffidenza tra mora del creditore in generale, la
cui disciplina si fonda sulla permanenza dell' obbligo in capo al
debitore, e mora del creditore nel rapporto di lavoro ove, viceversa,
il prestatore ottiene la liberazione col semplice trascorrere del
tempo senza che a tal fine egli debba svolgere una particolare
attivita'. viene poi affrontato il problema degli effetti che la mora
credendi produce nel rapporto di lavoro. a tal proposito l' a., dopo
aver criticato la tesi secondo cui il datore sarebbe tenuto al
risarcimento del danno (equivalente all' intera retribuzione che al
prestatore sarebbe spettata per il periodo non lavorato), afferma che
durante la mora permane l' obbligo della retribuzione in capo al
datore di lavoro. nel rapporto di lavoro, infatti, la mora si
presenta, nella sua dimensione rilevante, come continuo rifiuto della
prestazione di lavoro, si' che non avrebbe alcun significato parlare
di impossibilita' della prestazione. infatti essendo la prestazione
continuativa, l' obbligo di eseguirla non verrebbe mai meno di fronte
alla persistente mancanza di cooperazione creditoria. concludendo l'
a. nega che l' art. 18 dello statuto dei lavoratori faccia
riferimento ad una situazione di "mora credendi".
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