| l' a. dopo una rapida rassegna sulla evoluzione e sulla elaborazione
che il concetto di presupposizione ha ricevuto nella dottrina sia
italiana che straniera, rileva come l' utilizzazione del concetto da
parte dei nostri giudici trova il suo fondamento primario in un
antoformalismo che e' piu' un fatto istintivo che l' indice di una
effettiva presa di coscienza in merito al problema "presupposizione".
tale mancanza di consapevolezza, prosegue l' a., fa si' che la nostra
giurisprudenza continui ad affrontare il problema della
presupposizione in chiave soggettiva, muovendo ancora da un' unica
premessa: la volonta'. si afferma, infatti, in una recente sentenza
della cassazione (cassazione 10 aprile 1973, n. 1018) che "si ha
presupposizione soltanto quando una determinata situazione di fatto
avente carattere obiettivo, sia stata da entrambi i contraenti tenuta
presente, nonostante la mancanza di un esplicito riferimento ad
essa". si ignora cosi' il processo di oggettivazione del concetto di
presupposizione. non si comprende che la qualificazione giuridica di
un negozio dipende anche dai relativi presupposti, la cui funzione e'
appunto quella di determinare una certa situazione giuridica in seno
alla quale solamente sara' dato qualificare un fatto in un modo
anziche' in un altro, cio' che non e' apparso chiaro ai nostri
giudici, conclude l' a., e' che lo sviluppo della figura in esame e'
stato parallelo al crescere della categoria della causa ed all'
evoluzione del concetto di autonomia privata, che si e' venuta via
via svuotando dei suoi contenuti tipicamente volontaristici. propone,
quindi, di collegare la presupposizione con la causa. tale
collegamento, da un lato, scongiurera' il pericolo che la
presupposizione venga assimilata all' errore sui motivi, dall' altro
fara' si' che la causa cessi di svolgere una funzione-limite, di
clausola generale, rispetto all' autonomia dei privati.
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