| l' a. si chiede se sia concepibile l' equita' nel processo del
lavoro, in particolare si riferisce non alla equita' integrativa ma a
quella formativa, o dispositiva, che autorizza il giudice ad una
pronuncia costitutiva, e che si riflette nell' intera decisione. in
pratica si tratta di stabilire se sia applicabile al processo del
lavoro l' art. 114 codice di procedura civile che prevede il giudizio
equitativo volontario. l' a. rileva che autorevole dottrina si e'
schierata decisamente per l' inapplicabilita', ricordando che il
legislatore ha escluso espressamente l' arbitrato di equita' in
materia di lavoro, e sottolineando che il giudizio di equita'
previsto dall' art. 114 e' subordinato alla disponibilita' del
diritto di cui si chiede la tutela. l' a. non crede che queste
motivazioni siano esaurienti ai fini della esclusione dell' equita'.
innanzitutto afferma che non puo' dedursi l' indisponibilita'
assoluta dei diritti dei prestatori di lavoro dal testo dell' art.
2113 codice civile. secondo l' a. tale norma prevede una sorta di
indisponibilita' relativa che ha un suo livello di guardia costituito
dall' esigenza che l' atto dispositivo conciliativo, per essere
valido, debba esser compiuto alla presenza di una particolare
commissione o del giudice togato. praticamente il legislatore vuole
soltanto impedire la conciliazione privata, cosi' come, vietando l'
arbitrato di equita', vuole escludere la possibilita' di un giudizio
di equita' privato. sulla base di queste premesse l' a. ritiene che
sia del tutto ammissibile, nell' ambito del processo del lavoro, un
giudizio equitativo compiuto, su richiesta delle parti, dal giudice
statale. l' a. conclude constatando che il giudizio di equita' ben
risponde a quelle esigenze di celerita' e di accertamento della
verita' sostanziale che il processo del lavoro deve soddisfare.
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