| Il lavoro analizza una decisione del Tribunale di Pisa, che ha
applicato per analogia l' art. 48 c.p. ad una ipotesi di errore sulla
legge penale (in relazione ad un delitto), determinato dall' inganno
della P.A., escludendo cosi' la sussistenza del dolo nel soggetto
tratto in errore. Dopo aver rilevato le analogie che il caso presenta
rispetto alle situazioni normalmente ricondotte, nell' ambito
contravvenzionale, alla c.d. "buona fede", e dopo aver
schematicamente tratteggiato le insufficienze e le ambiguita' di tale
scusante sostanzialmente preterlegale, si osserva come la soluzione
adottata non possa essere condivisa. Infatti, l' art. 5 c.p. sancisce
l' irrilevanza dell' errore sulla legge penale a prescindere dalla
sua causa: le peculiarita' concrete che questa puo' presentare non
possono quindi determinare una "lacuna" rispetto alla disciplina
onnicomprensiva che l' art. 5 c.p. detta. Ma quand' anche si volesse
riconoscere la presenza di una lacuna, l' integrazione dovrebbe
uniformarsi alla ratio dell' art. 48 c.p., che, per l' ipotesi dell'
inganno, si limita a richiamare quanto stabilito dall' art. 47 a
proposito dell' errore sul fatto, senza modificarne la sfera di
applicazione. Un meccanismo analogo, riferito all' art. 5 c.p.,
condurrebbe pertanto ugualmente ad affermare l' irrilevanza dell'
errore su legge penale, ancorche' determinato dall' altrui inganno.
La sentenza, per quanto non condivisibile, costituisce tuttavia una
significativa testimonianza del disagio provocato nella
giurisprudenza di merito dalla necessita' di applicare una regola
quale quella dell' art. 5 c.p., resa ancor piu' rigida dall'
interpretazione del Supremo Collegio.
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