| L' A. rilevato che assai di frequente nel nostro ordinamento, la
legge fa dipendere la possibilita' di far valere un diritto in
giudizio dall' avvenuta decorrenza di un certo termine, constata che
questo fenomeno fa sorgere il problema dell' accoglibilita' o meno
della domanda proposta prima della decorrenza del termine, essendo
poi tale decorrenza sopravvenuta in pendenza di giudizio. Con
riguardo a questo problema, l' A. prende in esame una serie di
specifiche previsioni legislative (termine per la proposizione della
domanda di risarcimento alla compagnia assicuratrice dei sinistri
della strada; termine per la proposizione delladomanda di divorzio;
termine per esercitare la c.d. azione di necessita' nelle locazioni
urbane, ecc.) ponendo in evidenza, in ciascuna di esse, la ratio
della prefissione del termine, la portata letterale della
proposizione normativa, la soluzione che, per ciascuna di quelle
previsioni, e' conseguita dalla dottrina e dalla giurisprudenza e
soprattutto il metodo col quale le singole soluzioni sono conseguite.
Al riguardo, constata che nei casi in cui la lettera della norma non
suggerisce la soluzione con sufficiente univocita', talora la
dottrina e la giurisprudenza fanno dipendere la soluzione stessa
dalla presenza o meno, nella singola previsione legislativa, dei
caratteri delle "condizioni dell' azione" o dei "presupposti
processuali" o di altre categorie concettuali come le cc.dd.
"condizioni di proponibilita'" o le "condizioni di procedibilita'";
mentre il piu' delle volte, il riferimento a tali categorie e'
compiuto a posteriori con portata classificatoria e la soluzione
viene fatta dipendere dalla reale (o presunta) intenzione del
legislatore. Posta in evidenza la labilita' di quest' ultimo criterio
anche perche' troppo spesso la proposizione normativa costituisce il
risultato di compromessi, l' A. si domanda fino a che punto un
impiego sistematicamente corretto dalle suddette categorie
concettuali puo' rendere possibili soluzioni piu' coerenti e fondate
su basi meno opinabili. A questo scopo l' A. si sofferma innanzi
tutto sulla categoria delle condizioni dell' azione, rilevando come
la portata di questa nozione sia mutata nel passaggio della
prevalente dottrina dalla nozione c.d. concreta dell' azione alla
nozione c.d. astratta e che, conseguentemente, l' impiego di questa
categoria non e' ora utile per la soluzione del problema, mentre e'
utile il riscontro dell' appartenenza del requisito temporale alla
fattispecie sostanziale piuttosto che a quella processuale. L' A.
prende quindi in esame la categoria dei presupposti processuali e
constata che questa, in quanto configurata in correlazione con la
funzionalita' del processo, puo' essere utilizzabile, rispetto al
problema in argomento, con portata solo orientativa perche', da un
lato, l' appartenenza del requisito temporale alla fattispecie
processuale si risolve in un riferimento alla categoria dei
presupposti processuali, mentre, dall' altro lato, questa categoria
include anche ipotesi nelle quali il requisito puo' utilmente
sopravvenire in pendenza di giudizio. L' A. rileva infine che le
categorie delle "condizioni di procedibilita'" e delle "condizioni di
proponibilita'" non presentano caratteri sufficientemente univoci per
fondare soluzioni correnti. Al lume delle conclusioni raggiunte l' A.
indica infine le spiegazioni che ritiene piu' corrette sotto il
profilo sistematico e piu' coerenti per la soluzione dei problemi di
cui alle previsioni legislative prese in esame.
| |