| Nell' ambito del diritto del lavoro, come in tutto il diritto
privato, non esiste un principio d' ordine generale che imponga la
parita' di trattamento a parita' di condizioni. L' esigenza di una
siffatta regola e' sempre piu' avvertita; sorge, cosi', a diversi
livelli - giurisprudenziale, dottrinale e legislativo - una tendenza
alla sua introduzione nel nostro ordinamento. Manifestazioni di
questa tendenza sono, tra l' altro, le leggi, sempre piu' numerose,
che vietano particolari motivi di discriminazione (sesso, eta',
religione, attivita' sindacali, etc.). Particolare importanza,
rispetto al fine di colmare la suddetta lacuna legislativa, hanno due
recenti sentenze delle Sezioni Unite della SupreCorte. Queste hanno
riconosciuto in termini generali l' esistenza nell' ambito del
rapporto di lavoro privato di poteri preminenti e, correlativamente,
di interessi legittimi (tra i quali, in particolare, di un interesse
protetto alla parita' di trattamento). Conseguentemente il datore di
lavoro nell' esercizio dei suoi poteri discrezionali (ne' liberi, ne'
del tutto vincolati) deve ottemperare a regole d' azione, il cui
contenuto e' stato individuato dalla Suprema Corte attraverso il
rinvio ad altre norme gia' estenti nell' ordinamento, in particolare
all' art. 2106 c.c., all'rt. 7 l. 300/70, alla contrattazione
collettiva, all' art. 1175 c.c.. Il concreto rispetto delle suddette
regole puo', dunque, essere oggetto di controllo giurisdizionale ad
opera del giudice ordinario.
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