| E' possibile sconfiggere la violenza nelle carceri? Max Aub ne
darebbe una risposta interlocutoria e strumentale allo stesso tempo,
apparentemente cinica, senza blandire pietismo o altri concetti
religiosi di benevolenza; si spoglierebbe di qualsiasi timidezza
della retorica sull' Uomo per guardare in faccia la realta' e
coglierne il suo contenuto simbolico. Ma l' interrogativo,
attualmente, piu' che una risposta ha bisogno di un' altra domanda:
e' possibile reinventare un carcere nel quale il momento culturale
sia il dominio o l' elemento propulsivo di tutte le attivita' di
trattamento? Soltanto partendo da un discorso del genere si puo'
spezzare quell' incessante sequela di atroci delitti, altrimenti si
corre il rischio di essere risucchiati nel vortice paranoico del
"dente per dente". Tutto cio' meditavo scrivendo il presente
articolo; meditazione ossessiva maturata progressivamente con l'
esperienza vissuta in un carcere di massima sicurezza, come operatore
penitenziario, in cui gli spiragli risocializzanti per alcuni versi
sono molto labili e sottili. Mi sono accorto che bisognava fare un
salto di qualita' partendo da zero (ardua impresa?), per scacciare
quell' approccio redenzionale-paternalistico, che e' poi l' altra
faccia della stessa medaglia della violenza, imbevuto di pensiero
negativo che blocca le menti a livello esteriore e non penetra la
materia perche' nulla deve mutare. Da qui l' adesione ad Eric Fromm,
che mette in dubbio l' impianto logico esistente, rimescola le carte
ed afferma: non e' vero, tutto puo' cambiare, niente e' definitivo ed
eterno.
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