| Nell' occuparsi dell' attuazione in Italia delle norme comunitarie in
materia di liberalizzazione dei capitali, l' A. non puo' sottrarsi
all' impressione che la disciplina valutaria italiana sia stata e
venga emanata, oltre che applicata, come se il diritto comunitario
non esistesse. Analizzando il diritto comunitario per cio' che
riguarda il movimento dei capitali e dei pagamenti (artt. 67 ss.,
nonche' art. 106 del Trattato, oltre alle direttive emanate sulla
base dei predetti articoli), si osserva come il principio di
liberalizzazione in essi contenuto si accorda con il meccanismo di
autorizzazione alle operazioni da parte degli Stati membri. La
autorizzazione costituisce un vero e proprio diritto soggettivo in
capo al privato, un atto - cioe' - dovuto dall' amministrazione che
esclude l' esercizio di ogni suo potere di discrezionalita'. L'
autorizzazione riveste il carattere di semplice controllo formale,
che rileva a fini statistici. Con questo sistema contrasta, pero', la
legislazione valutaria italiana: la legge valutaria del 1956, benche'
anteriore all' istituzione della Comunita' Europea e quindi
inapplicabile nelle ipotesi di contrasto col diritto comunitario,
riceve ancora applicazione nei punti contrastanti coi principi
comunitari; le disposizioni successive (il deposito infruttifero del
50% imposto dal 1973, le sanzioni penali introdotte dal 1976) in
aperto contrasto con il principio di liberalizzazione, giustificabili
solo in quanto misure di salvaguardia - come tali eccezionali e di
"periodo limitato", invece che provvisorie hanno assunto il carattere
di definitivita'. In conclusione, per l' A. il sistema valutario
italiano - risentendo di vocazioni autarchiche che mal si conciliano
col ruolo di potenza industriale tra le prime che pretende l' Italia
di essere - fa di cio', che nel sistema comunitario e' considerato
un' emergenza, la regola, il regime ordinario. In altri termini, qui
il provvisorio diviene il definitivo.
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