| Benche' il Trattato CEE nella sua preliminare indicazione (art. 3)
ponga sullo stesso piano, ai fini della realizzazione degli obiettivi
della Comunita', la rimozione degli ostacoli alla libera circolazione
sia delle persone che dei servizi e dei capitali, in realta' - per
quel che riguarda la politica monetaria ed economica degli Stati
membri - non va oltre la previsione di un loro mero coordinamento. Si
appalesa cosi', anche nella disciplina comunitaria oltre che in
quella che e' stata l' esperienza reale, una contraddizione fra la
previsione di un mercato comune delle merci e dei fattori della
produzione e la voluta non previsione di una politica economica e
monetaria comune, lasciata alla responsabilita' dei singoli Stati. Al
riguardo il legislatore comunitario si e' mostrato alquanto cauto
soprattutto nella disciplina dei movimenti dei capitali: l' art. 67
subordina l' abolizione delle restrizioni ai movimenti di capitali al
"buon" funzionamento del mercato comune; rimette, poi, agli Stati
membri il compito di svolgere tale opera. Successivamente l' A. passa
ad analizzare la disciplina dei movimenti dei capitali, focalizzata
sulle restrizioni dei cambi, vale a dire sulla politica monetaria
"esterna" degli Stati. In merito osserva come anche qui la disciplina
(fondamentalmente le due direttive del 1960 e del 1962) conferma la
logica cui si ispira l' intera disciplina comunitaria dei movimenti
dei capitali: la liberalizzazione riguarda solo le operazioni che
siano funzionali alla libera circolazione di merci, persone o servizi
e al diritto di stabilimento. Mentre agli Stati membri sono offerte,
pur sotto il controllo della Comunita', una serie di garanzie per
proteggersi dai turbamenti monetari creati dai movimenti
internazionali dei capitali. Cio' porta l' A. a concludere
affermativamente sull' esistenza di molte fessure nella disciplina
comunitaria della liberalizzazione dei capitali, che da' luogo alla
creazione di ampi spazi per le iniziative unilaterali degli Stati
membri.
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