| L' interrogativo del sottotitolo e' meramente retorico. L' istituto
del lavoro all' esterno non solo non e' nuovo nel penitenziario, ma
anzi sorge con lo stesso penitenziario moderno: l' esigenza della
manodopera per lavori piu' gravi e pesanti spinse la societa' a
ricorrere a quella dei detenuti, per opere di bonifica e di strutture
pubbliche nei secoli scorsi; la nascente industria, con il suo basso
grado di tecnologia, richiedeva stabili braccia a buon mercato, che
le carceri potevano offrire in abbondanza. Questi settori (l'
agricolo e l' industriale) sono stati considerati sempre poco
qualificanti rispetto al terziario (servizi e professioni liberali).
Il legislatore nella riforma del 1975 ha ripreso l' istituto del
lavoro all' esterno con i suoi limiti e con il suo retaggio storico,
che oggi non e' piu' rispondente, ne' applicabile ad una societa'
piu' complessa e dinamica. L' A. , compiuta un' analisi storica e
giuridica dell' istituto, afferma che il provvedimento di ammissione
e' un atto meramente amministrativo, che si inserisce nel programma
di trattamento, approvato dal magistrato di sorveglianza. Questa
ammissione non e' assolutamente modificativa dello "staus" di
detenzione, come invece avviene nel regime di semiliberta'. In
considerazione della grande importanza che ha nel programma di
trattamento e per il reinserimento sociale del detenuto, L' A. ne
auspica una maggiore applicazione e un ampliamento dello stesso art.
21, anche ad altri settori, come i servizi e le professioni liberali,
per rendere la stessa riforma penitenziaria piu' rispondente al
dettato costituzionale.
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