| L' estraneita' o l' incidenza della funzione giurisdizionale
costituiscono il discrimen su cui storicamente si e' sviluppato il
dibattito della dottrina sulla conciliazione. Da una parte una
visione "contrattualistica" tesa a ravvisare una indistinzione tra il
componimento di cui all' art. 185 c.p.c. e la transazione di cui all'
art. 1965 c.c.; dall' altra una posizione "giurisdizionalista",
diretta a sostenere la matrice contenziosa da cui scaturirebbe la
conciliazione. L' A., contestando entrambi gli itinerari
interpretativi, rileva come la conciliazione, non potendo essere
imposta alle parti in forza di una coercizione, non ha ancora toccato
i vertici della giurisdizione ed e' rimasta nell ' orbita del
negozio. Nell' accedere pertanto ad una lettura negoziale del
fenomeno (evidentemente in una linea diversa rispetto alla
tradizione), l' A. analizza le intrinseche peculiarita' dell'
istituto in esame per dimostrarne un' assoluta autonomia concettuale.
Significativa, in tal senso, appare la soluzione proposta alla vexata
quaestio della impugnabilita' della conciliazione. Esclusi i rimedi
di natura processuale, l' A. valuta negativamente anche l' ipotesi di
applicazione al componimento dei mezzi di impugnazione del contratto.
Si osserva, al contrario, come la presenza del giudice nell' ambito
conciliativo consenta di infondere in esso il carattere della
processualita' che significa esclusione di qualsiasi indagine sulla
volonta' dei contraenti. Il legislatore, in tale prospettiva, sembra
avere escluso ogni impugnativa per una fattispecie che, giovandosi
del controllo dell' organo giurisdizionale, realizza un fenomeno
idoneo a concludere la lite e quindi sottrarlo ad ogni mezzo di
attacco.
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