| L' A. cerca di dimostrare, sulla base di un' approfondita disamina
storiografica, che, almeno fino al 1870, vi fu, in Italia, una
notevole incertezza sul problema della modificabilita', o meno, dello
Statuto Albertino da parte del legislatore ordinario. Su un piano
piu' generale, egli cerca altresi' di dimostrare, a seguito di una
rilettura critica dei fondamentali contributi di Bryce, che le
Costituzioni scritte che non prevedono un procedimento speciale di
revisione costituzionale sarebbero "naturalmente" (ancorche' non
"essenzialmente") "rigide"; per contro sarebbero politicamente assai
fragili, proprio perche' non sono previsti in esse meccanismi di
adeguamento del testo alle mutate domande politico-sociali. La
spiegazione del perche' lo Statuto Albertino, le Carte francesi del
1814 e del 1830, le Costituzioni spagnole del 1834, del 1837, del
1845 e del 1876 non furono, in definitiva, considerate "rigide",
avrebbe percio' un fondamento politico, e non giuridico. Ed infatti
l' asserita immodificabilita' di tali Costituzioni scritte da parte
del legislatore ordinario implicava che, per eventuali modifiche, ci
si sarebbe dovuti rivolgere ad apposite assemblee "costituenti", le
quali pero', in quell' epoca, erano tenute come possibile causa di
rivoluzioni. Di qui il diffuso e aprioristico rifiuto della tesi che
tali Costituzioni fossero rigide; e di qui, conseguentemente, la loro
"trasformazione" in (o, comunque, la loro qualificazione come)
Costituzioni flessibili. Ed infatti, creatasi artificiosamente una
"lacuna" relativamente alla norma costituzionale che implicitamente
vietava la modificazione di tali Costituzioni da parte delle leggi
ordinarie, ben si poteva ritenere (e in effetti da taluni si ritenne)
che tale lacuna fosse stata colmata con l' introduzione nell'
ordinamento, in via consuetudinaria, di una norma sulla produzione
giuridica che consentiva la modificazione dello Statuto da parte di
leggi ordinarie.
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