| Onorevoli Deputati! -- La proposta di legge d'iniziativa
popolare per cambiare i tempi nasce dall'ascolto di tante
esperienze di vita delle donne e dall'elaborazione e ricerca
accumulata da gruppi di studiose. Sono quindi proposte nate da
un lavoro di ricerca, di studio, di incontro, di riflessione
tra donne sulla loro vita quotidiana.
Con tale proposta ci proponiamo di investire le
istituzioni, il Governo, la vita politica e sindacale con la
concretezza della vita quotidiana così drammaticamente
trascurata ed ignorata nell'agenda politica italiana.
Scegliere di coinvolgere il Parlamento in questo momento,
in una fase di crisi delle istituzioni e di restrizione degli
spazi per la battaglia democratica è una scelta consapevole e
motivata.
Siamo, infatti, convinte che non resti altro che uno spazio
marginale alle donne se non si assume come parte del progetto
di affermazione della libertà femminile la conquista di una
democrazia non condizionata da una ristretta cerchia di
corporazioni e dallo scambio di reciproche convenienze tra
centri di potere e settori forti della società. Chi ha
condotto in questi anni la danza del neoliberismo non ha solo
ripristinato la signoria del profitto ma ha svuotato i poteri
democratici e ridotto i personaggi capaci di condizionare la
scena politica. Contrastare questa tendenza è possibile solo
se i soggetti non corporativi interessati a una libertà piena,
come sono le donne, mettono in gioco tutta la loro forza. Non
per sacrificarla ad una causa superiore ma per farla diventare
vincente.
Certo, non crediamo che i modi di pensare ed i
comportamenti della sfera privata cambino per decreto ma
sappiamo che - se verrà approvata la nostra proposta - potrà
sostenere cambiamenti sociali ed individuali altrimenti
impossibili.
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Inoltre, abbiamo la convinzione che sia questo il momento
in cui le donne possono essere, in senso pieno, un soggetto
autonomo della politica che condiziona la scena politica
italiana partendo da sé, dalla propria esperienza. Lo stato
sociale, l'orario di lavoro, il potere degli enti locali,
diritti degli utenti: i conflitti aperti in tutti questi temi
mutano se viene imposta la questione del governo individuale
del tempo.
Con tale proposta suggeriamo un nuovo quadro di
compatibilità, un nuovo sistema di valori, nuovi stili di
vita, a partire da un'idea semplice: il tempo non è denaro ma
una risorsa.
Donne e uomini devono poter affermare la propria sovranità,
la propria libertà nell'uso del tempo.
Questo significa ridurre il dominio del profitto, la
supremazia dei beni materiali ridotti a merce, di spostare
risorse e poteri a favore dei tempi della cura, delle
relazioni interpersonali, del tempo libero, del tempo per sé;
promuovere insomma una vita umana più libera e solidale.
Quest'ambizione non può che avere come protagoniste le
donne: infatti, le grandi trasformazioni sociali e culturali
che coinvolgono il mondo di oggi hanno la loro radice nel
passaggio dal "tempo immutabile", naturalistico, di un ruolo
per esse predestinato, al tempo della scelta.
Oggi le donne scelgono di vivere molte esperienze ma si
scontrano però con un'organizzazione materiale e simbolica
della società ancora basata su una divisione dei ruoli sociali
in base al sesso, che nega un'esperienza di vita molteplice e
complessa.
Milioni di donne sono state infatti "mobilitate", in questi
anni, dalla loro nuova soggettività e non sono state aiutate
neppure dalle vecchie politiche "conciliative". Anzi, spesso,
sono state lasciate sole: lo Stato sociale è stato infatti uno
dei principali bersagli delle politiche neoliberiste oltre a
rivelare una sua crisi oggettiva; infatti uno Stato sociale
fondato sui diritti derivati dallo status professionale
o familiare si è rivelato inadatto sia rispetto alla nuova
collocazione sociale delle donne, sia rispetto ai mutamenti
democratici.
Si è tentato di rilanciare politiche familiste, predicando
l'essenziale ruolo familiare delle donne; si è tentato di
disincentivare la loro presenza nel lavoro di mercato e di
caricare nuovamente solo su di esse i compiti di
organizzazione e di cura, tra l'altro resi più complessi dal
disimpegno dei poteri pubblici; si è tentato di colpevolizzare
le donne accusando di egoismo le loro scelte rispetto alla
maternità ma anche rispetto al desiderio di lavoro, alla
voglia di presenza culturale e sociale.
Nonostante ciò le donne non si sono ripiegate sul ruolo
domestico, ma anzi, ribadendo con determinazione la scelta del
lavoro (anche quando non lo trovano, come in intere aree del
nostro paese) ed affermando una presenza sia nella produzione
che nell'area della riproduzione umana e sociale si sono fatte
carico di un doppio lavoro, di una fatica asimmetrica rispetto
agli uomini.
Donne che lavorano, che studiano, che non lavorano più, che
aspettano un lavoro.
Sono tutte donne che con semplici parole, "siamo affamate
di tempo", "abbiamo bisogno di tempo", esprimono il bisogno di
non essere espropriate del governo del proprio tempo, che
esprimono il desiderio di gestirlo, di non doverlo rincorrere
durante tutta la vita.
Sono tutte donne che oggi non vogliono più dover scegliere
tra carriera e maternità, fra affermazione nel lavoro ed
affetti.
Sono tutte donne che si scontrano con una vera e propria
"tirannia" del tempo di lavoro, che considera inferiori
residuali gli altri tempi derivandone che ambiti e fasi
importanti della vita umana, come il tempo della maternità, il
tempo per gli altri, il tempo per sé, il tempo per lo studio,
oppure l'infanzia e la vecchiaia, vengono mortificati da
quest'organizzazione produttiva e sociale.
Ma non sono solo le donne a vivere un profondo disagio
verso questa concezione ed organizzazione del tempo basata sul
primato del tempo di lavoro, sulla
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fretta, sulla velocità del consumo. Da più culture e da più
soggetti si manifesta oggi un'intolleranza per il ritmo
frenetico dei nostri tempi: un'intolleranza che diventa anche
sfiducia nei confronti di una civiltà che ha troppo insistito
sull'efficienza, sull'importanza di produrre, svalutando nella
vita delle persone il tempo qualitativo, il tempo delle
imprese e delle avventure non monetizzabili.
L'idea che guida questa proposta di legge è molto semplice:
donne e uomini devono poter vivere in tutto l'arco della vita
una pluralità di tempi: lo studio, il lavoro, il tempo per gli
altri, il tempo per sé. Il ciclo della vita, in tutte le sue
stagioni - nascita, adolescenza, maturità, vecchiaia - deve
vedere riconosciuti i suoi tempi come esperienze di vita
piena, cui corrispondano diritti, risorse e poteri. Anche il
tempo quotidiano, nel suo giorno per giorno, deve rompere la
prevaricazione dell'orario di lavoro per dare pari espressione
alle molteplici dimensioni della vita umana, individuale e
sociale. E le città, nei loro spazi e nei loro tempi devono
accogliere la complessità della vita umana partendo dai
cambiamenti che in esse le donne hanno prodotto.
Nella proposta si parla di tempo invece che di orario in
quanto i due termini contengono una differenza profonda e
concreta: l'orario è una grandezza quantitativa, misurata e
stabilita della giornata, che regola una parte della vita. Il
tempo implica invece una dimensione soggettiva personale: è
una grandezza interna all'individuo; non è un dato che ci
trascende, aproblematico, vissuto come vincolo od opportunità
esterna, naturale, immodificabile, inevitabile. In questa
società, in questo Paese.
In questa società, il tempo ha assunto sempre più le
fattezze di un bene prezioso, da investire con oculatezza tra
impieghi alternativi corrispondenti alle varie espressioni
dell'esperienza umana e delle varie fasi della vita a tal
punto che viene conteso tra i vari attori sociali a partire
dai luoghi di lavoro, ma non solo, perfino nella cerchia di
amici ma soprattutto nell'ambito familiare.
Quindi parlare di tempo invece che di orari significa
criticare fortemente il modello maschile ed industriale che
conosciamo, l'organizzazione sociale e la concezione del tempo
ad esso collegata, basata pressoché esclusivamente sul lavoro
professionale a tempo pieno del lavoratore maschio.
Parlare di tempo e quindi anche di quello necessario per la
cura e la riproduzione biologica e sociale è l'angolo visuale
con il quale guardare criticamente all'organizzazione della
società fordista; è scoprire che così facendo, i privilegi
sociali maschili, tolgono irreparabilmente - alle donne - ogni
tempo per sé.
Le ragioni delle donne.
La ragione che ci spinge a ritenere quella del tempo una
grande questione politica e culturale dei nostri anni è
semplice: le donne hanno del tempo un'esperienza diversa da
quella degli uomini e però quest'ultima è quella intorno a cui
ruota il modo di pensare e di organizzarsi della società.
Ci siamo dette: questo fatto, che ha radici lontane ma
negli anni dell'emancipazione femminile si rivela in contrasto
con le scelte e i desideri delle donne, è davvero
ineluttabile? Crediamo di no e per questo con questa proposta
abbiamo voluto aprire non solo un dibattito ma l'avvio di un
cambiamento concreto.
Ma perché scegliere proprio il tempo come problema e
insieme come leva per affermare una maggiore libertà
femminile?
La prima ragione è dentro di noi, nella soggettività delle
donne: i processi di emancipazione, la voglia e l'esperienza
del lavoro, la maternità come scelta e non più come destino,
l'investimento su noi stesse e non più solo sugli altri non è
una strada dritta e facile. Non solo per i grandi ostacoli che
incontra nella società ma anche per i conflitti interiori che
porta con sé: quante volte "scegliere" resta un desiderio o
una possibilità incompiuta, quante
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volte diverse parti di noi stesse si scontrano tra loro oltre
che con la opportunità diseguali che la società offre.
La fatica di scegliere dipende dal fatto che la razionalità
e la signoria della mente non bastano, si inciampa subito nel
proprio corpo, nelle emozioni e nei sentimenti.
Rompere con la passività, scegliersi un destino, è un'opera
di invenzione per le donne, alle quali non risolve i problemi
fare come gli uomini. La differenza sta tutta qui.
Questo è evidentissimo a proposito della maternità. Avere
distinto sessualità e procreazione è stato decisivo. Eppure
scegliere se e quando diventare madri è più complicato: "La
maternità come fantasma, mito, come potenzialità, come schema
di rapporto con l'altro, è iscritta nell'identità della donna
in modo così intimo e delicato che appare difficile operare su
di essa scelte puramente razionali. La capacità riproduttiva
non è solo una caratteristica biologica... è elemento portante
e fondante della differenza sessuale. Quindi è essenzialmente
un carattere simbolico".
Il tempo e il senso profondo della maternità non trovano -
a volte nella nostra biografia e mai nei tempi sociali - il
riconoscimento della sua peculiarità. Imporre ai tempi sociali
di riconoscerlo significa dare voce al "tempo interiore" delle
donne, considerato per secoli opaco, insignificante, e farlo
agire nel tempo storico della nostra società. Non è solo nella
scelta procreativa, qualunque essa sia, che sta la
contraddizione tra il tempo interiore femminile e il tempo
"dominante". Il "disagio" nasce più in generale nel sentire
confinati desideri e capacità entro modalità di pensiero,
azione e relazione che non appartengono a una nostra autonoma
progettazione.
Affermare se stesse è difficile nelle strettoie di una
società che nella sua organizzazione materiale, nei suoi
lavori, nei suoi tempi e nei suoi simboli prevede il sesso
femminile come complementare e subalterno a quello maschile:
finisce che bisogna rinunciare a una parte di sé.
Noi l'abbiamo chiamato il "disagio dell'emancipazione":
ovvero l'esperienza che le donne fanno dei rapporti sociali,
determinati dal sesso maschile, come rapporti di potere che
tendono a svalorizzare l'elemento femminile. Noi non vogliamo
che l'emancipazione sia di fatto l'esperienza di una perdita
di parti importanti di sé.
Per questo qualità e interessi che la storia delle donne ci
ha consegnato - l'interesse per la comunicazione, la capacità
di relazione con gli altri, la conoscenza e l'esperienza della
cura delle persone - li vogliamo assumere come un patrimonio,
non più come un vincolo alla passività, e farle uscire
dall'ambito privato e gratuito per valorizzarle.
Non vogliamo riabilitare la "femminilità" tradizionale ma
riscrivere i rapporti sociali e di sesso in modo che le
esperienze, i pensieri, i modi di essere delle donne abbiano
peso e valore con tutto lo scompiglio simbolico, sociale e
strutturale che questo comporta. A partire dall'uso e dalla
gerarchia che danno ordine ai tempi della nostra vita.
C'è una seconda ragione che ci spinge a sollevare la
questioni del tempo, ed è più legata a quell'organizzazione
della società che vogliamo modificare.
La constatazione da cui partiamo è questa; nella società in
cui viviamo esiste una "divisione del lavoro" in base al sesso
di cui facciamo esperienza tutti ogni giorno. La cura degli
altri e il lavoro familiare è svolto dalle donne, anche quelle
che lavorano; e nel mondo del lavoro constatiamo che esiste
ancora una concentrazione delle donne in alcuni comparti
produttivi e una svalorizzazione, salariale e sociale, dei
lavori femminili (scuola, sanità, pubblica amministrazione,
tessile, etc.).
Non siamo più, è evidente, alla vecchia "divisione dei
ruoli" - le donne in famiglia, gli uomini al lavoro - ma a una
divisione dei lavori in cui alle donne spetta comunque, come
fosse naturale, di occuparsi delle persone (figli, anziani,
malati) e tra l'altro senza riconoscimenti;
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e di attestarsi nel mondo del lavoro "ufficiale" per lo più
in zone e posizioni cui si dà poco valore economico,
decisionale e di status.
Questo mentre le donne vogliono sempre più un lavoro,
investono molte energie e non sono più disposte a scegliere
tra lavoro, affetti, tempo per sé.
Ecco che il conflitto sul tempo emerge con prepotenza.
La divisione sessuale del lavoro infatti non è un semplice
principio organizzativo della società ma una intelaiatura
simbolica culturale robusta, che presuppone la subalternità
del femminile al maschile e concepisce solo così la differenza
di sesso; da questa divisione discende quindi non solo
un'organizzazione sociale ma anche una valutazione di ciò che
è importante e ciò che lo è meno; di ciò che è pubblico e ciò
che è privato; del tempo "dominante" (quello per il lavoro) e
quello nascosto (quello per la cura, per sé...).
In altre parole la scansione del tempo della vita e della
giornata e nella città che ci è proposta conferma questa
divisione per sesso e si modella sui bisogni maschili e sul
modello industriale che fa ruotare tutto intorno alla
produzione.
Questo è il motivo per cui le donne hanno sempre "fame" di
tempo: perché devono comporre nella vita e nella giornata più
lavori e più tempi.
Il problema allora non è "avere più tempo" per mettere
d'accordo tutto questo ma essere libere di progettarne un uso
più umano. Diventare padrone del proprio tempo.
Questo implica scompigliare il modo di organizzare e
concepire il lavoro, il tempo, la convivenza sociale. Se le
donne lavorano molto ma incappano in un modello lavorativo che
è maschile, dove il tempo è rigido, e solo il tempo lavorativo
è riconosciuto importante; se prendersi cura degli altri non è
un lavoro interamente socializzabile coi servizi ed è sempre
più importante e richiede tempo (basta pensare ai problemi
dell'adolescenza, al rapporto con un numero sempre maggiore di
anziani) allora bisogna rimescolare le carte e decidere una
nuova gerarchia di ciò che è importante, di ciò che è pubblico
(e il lavoro di cura non è un fatto privato visto che è
decisivo e che le donne non vogliono accollarselo da sole), di
ciò che richiede tempo. Ciò non è affatto impossibile. Basta
riconoscere il lavoro di cura come "tempo sociale", da
prevedere anche nel ciclo lavorativo e da distribuire tra
uomini e donne; basta pensare ai cicli di vita non rigidamente
precostituiti dove prima viene lo studio, poi 30 anni di
lavoro ininterrotti e poi la pensione. Organizzare lo Stato
sociale e le politiche del lavoro in modo da garantire risorse
a sostegno delle scelte individuali e da rendere possibile
l'entrata o l'uscita dal sistema occupazionale in base a
bisogni familiari e di formazione per donne e uomini non
costerebbe più dell'attuale Stato sociale, molto ingiusto e
inefficace.
Il lavoro di cura deve diventare un diritto di donne e
uomini che non penalizza ma anzi arricchisce la società e il
tempo di cura deve essere considerato un "tempo sociale".
Ridurre l'orario di lavoro, riconoscere diritti
individuali, valorizzare il lavoro femminile dal punto di
vista salariale e sociale è il modo più serio per riconoscere
l'esistenza di una società femminile.
Essere realistici oggi vuol dire vedere ciò che accade
davvero: le donne non sono più disponibili a sprecare e
confinare ai margini qualità e capacità che la loro storia ha
sedimentato né sono più disposte a sostenere da sole e con
fatica un lavoro ordinatore dell'intera società quale quello
di cura.
Avere tempo per sé, per lo studio, per il lavoro, per la
cura degli altri: mettere insieme tutto questo secondo un
nuovo ordine implica un cambiamento ma rende più liberi tutti.
Supera una divisione tra attività privata e pubblica, consente
di lavorare meno, e, anzitutto, consente alle donne di essere
più libere, di vivere più vicine ai propri desideri e chiama
in causa anche gli uomini.
Diventare padrone e padroni del proprio tempo valorizzando
tutte le fasi della vita, allargare a tutti la responsabilità
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della cura degli altri, dare corpo ad un democrazia
della vita quotidiana implica il ripensamento di tante nostre
azioni considerate naturali o inevitabili; e comporta anche il
trasferimento di risorse e poteri verso i singoli individui in
cambio di una solidarietà più umana e partecipata. Tutto in
nome di una maggiore libertà che la società moderna può darci
se la inventiamo e la pretendiamo.
Illustrazione degli articoli.
"Siamo affamate di tempo; il tempo non ci basta mai; quasi
mai abbiamo tempo sufficiente per noi stesse, e questo perché
al lavoro, nella professione che abbiamo scelto, in un lavoro
stabile o in attività temporanee e occasionali che ci danno da
vivere - tutte noi aggiungiamo altri mille lavori per la casa,
per i bambini, per i nostri cari (mariti, fratelli, compagni
di vita, genitori); impieghiamo ore e ore nei lavori domestici
e nell'occuparci degli altri, a sbrigare pratiche negli
uffici, a parlare con gli insegnanti dei figli che stanno a
scuola, a far le file per fissare gli appuntamenti
all'ambulatorio e chi più ne ha più ne metta. Questo dicono
migliaia di donne".
Certo, una parte rilevante di questo lavoro deve farlo la
società. C'è bisogno di più asili nido (e quelli che ci sono
dovrebbero avere caratteristiche e orari più rispondenti alle
nostre esigenze), di scuole per l'infanzia a tempo pieno,
punti di incontro per i ragazzi fuori dell'orario scolastico,
centri anziani, soggiorni di vacanze, assistenza domiciliare.
C'è bisogno di tutte queste cose soprattutto in quelle parti
d'Italia - pensiamo al Mezzogiorno - dove mancano quasi del
tutto.
Ma per quanti servizi sociali esistano rimane una parte del
lavoro di cura che non può essere socializzato. Dobbiamo però
tener presente che le donne non chiedono di essere aiutate a
"conciliare" meglio i loro diversi lavori. Chiedono che tutti
i lavori, compresi "quelli delle donne", siano condivisi dagli
uomini (articoli 1, 14 e 15).
Più in generale siamo consapevoli che non bastano i servizi
sociali, ma un'impostazione radicalmente nuova in settori
fondamentali dell'intervento pubblico e dell'attività privata:
dall'ordinamento fiscale e tributario a quello della pubblica
amministrazione; dai programmi e testi scolastici
all'informazione, dalla previdenza alle normative
urbanistiche, ecc. Orientamenti nuovi che la proposta di legge
sui tempi può solo sollecitare, fornendo un'indicazione
programmatica (articolo 1).
Il tempo nell'arco della vita.
Oggi la vita di uomini e donne è condizionata da un
modello rigido. E' davvero così "naturale", che finché si è
giovani si sia impegnati nella scuola, nell'università o in
altre attività di formazione; che poi - se si ha la fortuna di
trovar lavoro - si lavori tutti i giorni, tutta la settimana,
per undici mesi, per 25 o 40 anni, fino al momento di andare
in pensione?
Cominciamo a pensare di no, ad accorgerci che questo
modello, in realtà, è pensato e fatto dagli uomini o per gli
uomini e che a noi non va bene. Quante donne nel passato e
ancora oggi abbandonano il lavoro al momento della nascita dei
figli e lo ricercano, spesso invano, quando i figli sono
cresciuti? Quante donne pur di non lasciare il lavoro o
l'impegno culturale si sobbarcano volutamente una vita di vere
e proprie acrobazie? Quante donne se vogliono vincere un
concorso pubblico, progredire nella carriera o concludere una
ricerca scientifica, affermarsi nella professione di avvocato
o di medico, nella magistratura, magari nella vita politica,
sono ridotte a scegliere di non avere figli o a rinviare la
maternità ad un'età più avanzata, biologicamente meno feconda
o più rischiosa sia per la gravidanza che per il nascituro?
Questo è un esempio che dimostra quanto il modello di
organizzazione della società e del lavoro sia maschile:
violenta addirittura "l'orologio biologico" della donna.
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Come meravigliarsi allora che ci siano donne che rifiutano
di vivere come i maschi, o non se la sentono di sobbarcarsi la
fatica della "doppia presenza"? Che preferiscono essere solo
casalinghe anche se questa "scelta" costa sia in termini di
reddito che in autonomia personale? E tra l'altro anche queste
donne, anche quelle che sono "contente di fare le casalinghe"
sono penalizzate per il fatto che vengono considerate come
"nullafacenti". Tutto questo è deciso dagli uomini e quindi si
può cambiare: il tempo della vita si può scandire in un modo
più consono a tutte le complesse esigenze della persona perché
ciò che va bene per noi può rendere migliore la vita di tutti,
anche la vita degli uomini.
Sappiamo che proporci questo è compiere una vera e propria
rivoluzione culturale: i padri lavoratori dovrebbero
cominciare a diventare dei lavoratori padri; le imprese devono
pensare a un'organizzazione del lavoro che non sia modellata
esclusivamente sulle esigenze della produttività e del
profitto e plasmata su un'ipotesi di lavorare a totale
disposizione dell'azienda e senza altro obbligo che quello di
lavorare e guadagnare; lo Stato deve adeguare la destinazione
delle risorse finanziarie e degli interventi in modo che siano
riconosciuti il tempo del lavoro di cura, ma anche i diritti
autonomi dei bambini, degli anziani, delle donne e deve
costruire i servizi sociali necessari.
La proposta di legge individua quindi una politica
(chiamata "nuovo ciclo di vita") che combina momenti di lavoro
già durante il periodo scolastico, e prevede momenti di
formazione e studio, congedi parentali e familiari e per
motivi personali nell'arco della vita lavorativa.
Ogni persona (uomo o donna) deve avere la possibilità di
distaccarsi temporaneamente dal lavoro per ricominciare a
studiare, per stare a giocare con un figlio, per fare
compagnia a un familiare anziano o malato, per riqualificarsi
o anche solo perché vuol riflettere sulla propria vita. E che
possa farlo mantenendo il posto di lavoro, senza decurtazioni
rilevanti del suo reddito, senza perdere i diritti sanitari e
previdenziali, senza compromettere la sua carriera (articolo
2).
A tal fine si propone che ogni lavoratore e lavoratrice
abbia diritto al congedo parentale per occuparsi dei propri
figli: un periodo di congedo dal lavoro che può arrivare fino
a un massimo di 12 mesi ed è utilizzabile, tutto insieme o
frazionato, entro il compimento dell'undicesimo anno di età
del bambino. Nel caso che il figlio sia portatore di
handicap o che ci sia, nella famiglia, un solo genitore,
la durata massima del congedo è elevata a 24 mesi (articolo
3).
Ci sono però anche emergenze nella vita: figli, che passano
una crisi adolescenziale; un anziano, un malato grave, un
lutto etc., cioè tutte quelle situazioni che richiedono una
particolare presenza affettiva a chi resta. Per questo si
propone di istituire anche un congedo per motivi familiari:
cioè, il diritto di assentarsi dal lavoro per periodi di non
oltre 30 giorni ogni due anni di lavoro prestato (articolo
4).
Sia il congedo parentale che il congedo per motivi
familiari vogliono essere una forma di riconoscimento del
fatto che il tempo della cura è un tempo socialmente utile,
produttivo (quanto quello di mercato). Per questo si propone
che durante questi congedi si abbia diritto ad un reddito, che
una parte di tale reddito sia pagato dallo Stato. In pratica,
durante i congedi parentali o per motivi familiari, i
lavoratori e le lavoratrici dovrebbero percepire un reddito
minimo garantito pari al 50 per cento della retribuzione media
nazionale (articolo 11).
Inoltre essi dovrebbero aver diritto, se vogliono, di
integrare tale reddito minimo fino al 100 per cento della
propria precedente retribuzione, prelevando una parte della
propria futura liquidazione (indennità di fine rapporto)
(articolo 8).
Se il tempo per la cura ha un valore per tutta la società,
allora il diritto a prestare cura deve essere riconosciuto
anche agli uomini e alle donne che non hanno un rapporto di
lavoro dipendente (disoccupati e disoccupate, studentesse,
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casalinghe) o a quelli e quelle che svolgono lavoro autonomo
(artigiani e artigiane, esercenti, coltivatori e coltivatrici,
professionisti e professioniste) (articolo 5).
Si propone perciò che tutti i cittadini e le cittadine che
non hanno un lavoro dipendente e quindi anche coloro che
svolgono un lavoro autonomo (ivi compresi gli immigrati e le
immigrate extracomunitari che risiedono nel nostro paese)
abbiano diritto, per dedicarsi alla cura parentale, al reddito
minimo garantito erogato dallo Stato nella stessa misura dei
lavoratori e delle lavoratrici dipendenti per un periodo di
tempo corrispondente al congedo parentale, cioè per un massimo
di 12 mesi da utilizzarsi entro il compimento dell'undicesimo
anno di età del bambino (articolo 12 - tempo parentale).
Sappiamo bene che non basterà certo una legge a
redistribuire tra i sessi il lavoro di cura: quanti uomini
chiederanno i congedi parentali o familiari? Occorre - lo
abbiamo detto - una rivoluzione culturale. La proposta di
legge intende agevolarla introducendo azioni positive per i
soli uomini che si impegnano nel lavoro di cura, garantendo
loro un reddito minimo più alto e prevedendo che le regioni
organizzino appositi corsi per uomini per insegnare ad esempio
ad allevare un bambino o ad assistere un malato e (perché no?)
a stirare le camicie (articoli 15 e 16).
Un ruolo decisivo potrebbe essere svolto dalla scuola
(articolo 16). Ma si potrebbe fare anche altro. A tal fine si
propone di utilizzare la leva militare e il servizio civile.
Ai ragazzi di leva si potrebbe far prestare un certo numero di
mesi (tre) in "attività di cura" - dagli asili nido alle
attività ricreative e di socializzazione dei minori,
all'assistenza domiciliare agli anziani, etc. - mettendoli a
disposizione dei comuni, delle USL e delle associazioni
riconosciute che operano in questo campo (articolo 14).
Un ciclo di vita diverso dall'attuale vuol dire però
soprattutto poter usare il tempo per sé senza dover aspettare
il tempo della pensione. Ci sono momenti in cui il lavoro,
l'ambiente in cui lo si svolge, diventano insopportabili. C'è
chi può scoprire a un tratto di aver scelto, o, più spesso,
"trovato" un lavoro che non corrisponde più alle proprie
attitudini e aspirazioni. E, comunque, se il tempo è mio, e,
mia la vita, perché non devo avere il tempo per vedere il
mondo e per fare mille altre cose? Ma vuol anche dire tempo
per la formazione, la riqualificazione e lo studio. Esistono
già, diritti alla qualificazione conquistati nei contratti o
dalle leggi. Talora è il datore di lavoro che ha bisogno di
qualificare i suoi dipendenti per esigenze di rinnovamento
tecnologico. Ma in questo caso si tratta di una prestazione
lavorativa e come tale deve continuare ad essere considerata e
retribuita. Ci sono però lavori senza sbocco; ci sono lavori
anche gratificanti che, col passar degli anni, possono
diventare estenuanti.
Per questo la proposta di legge prevede che i lavoratori e
le lavoratrici, dopo aver prestato la loro opera per almeno
sette anni di lavoro (come i docenti universitari) abbiano
diritto a un anno di congedo (articolo 12).
In sostanza è un'aspettativa che si deve poter chiedere
senza specificare i motivi per cui la si richiede, ma senza
perdere il diritto al mantenimento del posto di lavoro. Non
una concessione del datore di lavoro, ma un diritto.
Ma, questo tempo si dovrà restituire, ritardando l'età
della pensione, lavorando cioè un anno in più per ogni anno di
congedo personale goduto, lavorando insomma più a lungo quando
si è più anziani per avere più tempo per sé quando si è più
giovani (articolo 9).
Poiché questo è un tempo per sé, è anche a carico di chi lo
chiede: non si può pretendere dallo Stato o dal datore di
lavoro (che dovrà provvedere ad assumere un altro lavoratore
in sostituzione di quello che si assenta) di retribuire chi si
avvale di detto congedo (articolo 6).
E tuttavia un tempo per sé senza reddito non servirebbe a
nulla. Durante questi congedi il lavoratore e la lavoratrice
possono, secondo la presente proposta,
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attingere alla liquidazione, o ricevere una somma (da
restituire pagando anche l'interesse) dal proprio istituto
previdenziale o, infine, anticipare la pensione già maturata
(articolo 6 e articolo 10).
Al fine di riconoscere il valore sociale della maternità,
la proposta di legge prevede il riconoscimento ai fini
previdenziali dei periodi di maternità, anche se verificatisi
in assenza di rapporto di lavoro (articolo 13).
Il tempo nel lavoro.
Legislatori, datori di lavoro, sindacalisti pensano solo
sempre a tre tempi: l'orario di lavoro, il tempo di riposo, il
tempo "libero". Per decenni l'obiettivo dei lavoratori è stato
quello di ottenere 8 ore di lavoro, 8 di riposo e 8 di tempo
libero. Non è mai esistito il tempo "della cura". Ed è per
questo che le donne non hanno tempo libero: il "tempo libero"
delle donne è pieno di un altro lavoro.
E' ora che in ogni vita, in ogni giornata ci sia tempo per
tutto; lo vogliamo per noi, ma anche per gli uomini.
E' per questo che si propone che l'orario legale (quello
fissato per legge) di lavoro sia ridotto a un massimo di 35
ore alla settimana per tutti i lavoratori e lavoratrici
pubblici e privati (articolo 17).
La proposta prevede, inoltre, che i contratti di lavoro
devono essere definiti pensando ad orari di lavoro giornaliero
che lascino tempo non solo per il tempo libero, ma anche per
la cura, nonché orari tali (flessibilità, articolazione) che
consentano di conciliare le esigenze della produzione e
dell'erogazione dei servizi con quelle della vita privata
(articolo 18).
Occorre evitare che gli orari "reali" siano poi diversi da
quelli fissati nella legge e nei contratti: bisogna che il
lavoro straordinario torni ad essere veramente
"straordinario", non la regola, ma l'eccezione. Nella proposta
di legge si stabilisce perciò che sia volontario, che non
superi due ore al giorno e otto ore alla settimana e che i
sindacati lo contrattino coi datori di lavoro, facendo salve
le esigenze individuali. E ciascuno deve poter essere libero
di decidere se prestare lavoro straordinario o meno e se
ricevere compensi monetari o recuperarlo in tempo (articolo 20
e 21).
Viene inoltre proposto per tutte e tutti, sia nelle piccole
che nelle grandi aziende, pubbliche o private, di avere
diritto ad almeno quattro settimane di ferie pagate; ma anche
di poter scegliere quando poter andare in ferie almeno per due
settimane (articolo 19).
Sappiamo che possiamo lavorare di giorno e riposare, amare
e divertirci di notte solo se qualcuno lavora di notte:
pensiamo ai treni, agli ospedali, ai ristoranti, ai panifici,
ai giornali, etc. Si tratta di servizi di pubblica utilità; ma
non vogliamo che si faccia di notte ciò che si può fare di
giorno, specialmente quando si tratta di merci. In ogni caso
riteniamo giusto almeno mantenere il diritto per le
lavoratrici dell'industria a non lavorare la notte. E quando
si fanno le eccezioni (attraverso gli accordi sindacali) la
singola lavoratrice deve aver diritto di rifiutare di prestar
lavoro la notte.
Comunque anche per chi non può non lavorare la notte, la
proposta di legge prevede il diritto ad alternare lavoro di
notte e lavoro di giorno; il diritto ad un intervallo di tempo
tra un turno di notte e l'altro. E per chi lavora di notte (e
di domenica e nei giorni festivi) ogni 8 ore di lavoro il
diritto a un recupero di tempo (non lavorato) del 20 per
cento, perché lavorare di notte è comunque più faticoso che
lavorare di giorno (articolo 23).
Molti lavori sono faticosi, pesanti, logoranti: chi li fa
deve poter avere più tempo per riposare, sia nell'orario
giornaliero e settimanale che nelle ferie, oltreché il diritto
ad anticipare l'età della pensione (articolo 24).
E' ovvio che la legge vuol garantire una base di diritti e
non vuol dire che non si possano stabilire condizioni migliori
negli accordi sindacali (articoli 18, 19, 20, 21, e 24).
Tutte queste proposte servono a liberare tempo ma servono
anche a creare
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nuovo lavoro per tante ragazze che lo cercano, per tante che
sono ancora casalinghe per forza.
Ci possono essere altre soluzioni, lo sappiamo. C'e, chi
propone il part-time o il job-sharing. E può darsi
che qualcuno lo preferisca e lo voglia scegliere. E in questo
caso, il problema è che esso sia volontario e non imposto e
che anche a queste forme di lavoro siano garantite adeguata
protezione previdenziale e tutela sindacale.
A noi non sembra però una buona soluzione. In quei Paesi
dove esiste ed è diffuso, sono soprattutto le donne a
praticarlo; esso diventa così un modo per "conciliare" il
lavoro della donna con le attività familiari e domestiche; un
mezzo per non redistribuire i lavori tra i sessi e riconoscere
il valore sociale del tempo della cura, un mezzo per non fare
i servizi sociali. E' per questo che, secondo noi, la via
maestra sta nel ridurre l'orario di lavoro per tutti, uomini e
donne sostenendo questa scelta anche con una ulteriore
fiscalizzazione degli oneri sociali (articolo 22).
La proposta di legge non intende ridurre il ruolo, il
potere del sindacato. Anzi. Tutti gli articoli sottolineano
l'ampio potere di contrattazione che noi vogliamo
riconoscergli; di più di quello oggi previsto. La nostra
proposta muove dall'esigenza di disporre di una nuova
legislazione in tema di orario di lavoro essendo quella
esistente oramai datata (1923) e dall'esigenza di garantire
una base minima di diritti e di poteri anche a quei lavoratori
ed a quelle lavoratrici privi di tutela sindacale.
Inoltre pensiamo di dover proporre un nuovo equilibrio tra
diritti individuali e diritti collettivi, indicando alle parti
in campo (datori di lavoro e sindacato) che ci sono diritti
individuali indisponibili anche alla contrattazione
collettiva.
Il tempo delle città.
I tempi delle città sembrano fatti per farci dispetto.
Per molte quando escono dal lavoro, tutto è chiuso: posta,
banca, USL, uffici comunali, spesso persino i negozi. E' mai
possibile che per pagare un conto corrente o parlare con gli
insegnanti del proprio figlio, per ottenere il visto dell'USL
o l'appuntamento per un'analisi, si debba (quando ce lo danno)
prendere un permesso dal lavoro? Forse si pensa ancora che
ogni lavoratore abbia alle spalle qualcuna - una moglie, una
madre, una sorella - che mentre lui è al lavoro può occuparsi
di tutto il resto. Ma possibile che non ci si renda conto che
tante di noi, e siamo sempre più numerose, studiano, lavorano,
esercitano una professione?
Ed è possibile che anche la casalinga debba essere sempre a
disposizione dell'orario della scuola, di quello del marito,
di quello del medico, di tutti gli orari degli altri?
Sappiamo anche noi che quegli orari di servizio
corrispondono spesso all'orario di lavoro di altri lavoratori
e lavoratrici, e soprattutto di lavoratrici: ma anche loro
avranno gli stessi problemi quando devono rivolgersi a un
ufficio diverso da quello in cui lavorano... o no?
Ci siamo domandate chi decide, questi orari e questi tempi
di lavoro. Abbiamo scoperto che non c'è nessun coordinamento;
alla scuola pensa il provveditore (forse il Ministro); ai
negozi il prefetto; alle banche, le amministrazioni degli
istituti di credito; agli uffici statali, lo Stato; agli orari
negli ospedali, il direttore sanitario; a quelli degli
autobus, dei tram, della metropolitana, le aziende di
trasporto; e via all'infinito, quando va bene, decidono dopo
trattative coi lavoratori dipendenti: così, per esempio, il
calendario degli asili-nido è nel contratto dei dipendenti
degli enti locali. Insomma non c'è un orario della città,
fatto per chi ci vive.
E anche questo, se ci fermiamo a riflettere, non è un caso,
non è solo disorganizzazione o incompetenza. Risponde a un
modello preciso, quello di una città pensata dai maschi, di
una città fatta per chi produce. Una città in cui le donne, i
loro lavori, sono invisibili, cancellati.
E' utile per tutti ridisegnare i tempi delle città.
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La proposta di legge prevede che sia affidato al comune il
potere di ordinare e coordinare tutti gli orari della città,
mediante un "piano regolatore dei tempi" (un primo risultato
in questa direzione si è avuto con l'approvazione della legge
sulle autonomie locali) (articolo 25).
Ad elaborare questo piano saranno chiamati tutti gli
interessati: amministratrici, imprese, sindacati, lavoratori
autonomi, associazioni ed utenti attraverso l'istituzione di
una consulta permanente sul tempo (articolo 25, comma 6). Per
le aree sovracomunali (metropolitane, comprensoriali) il
potere ed il compito di coordinare ed ordinare gli orari
devono essere esercitate d'intesa dai comuni interessati
(articolo 26).
Affinché si tenga conto che nella vita quotidiana delle
città esiste anche il tempo della cura, la proposta prevede
insieme che le associazioni e le organizzazioni miste chiamate
a far parte della consulta siano rappresentate da delegazioni
di entrambi i sessi (articolo 25, comma 6), che vi siano
ulteriori forme di consultazione delle donne singole e
associate (articolo 27, comma 1), e che le donne elette nei
consigli comunali debbano esprimere un parere obbligatorio sul
piano regolatore dei tempi (articolo 27, comma 2).
Si prevede, inoltre, che chi deve usare il tempo ed i
servizi, cioè gli utenti, abbia voce in capitolo: quindi per
quelle parti degli accordi collettivi tra datori di lavoro e
lavoratrici, che incidono sulla organizzazione dei servizi e
sugli orari, essi devono essere considerati una terza parte
contraente che partecipa alla trattativa con pari dignità
(articolo 28).
In ogni caso, gli orari dei servizi non dovranno coincidere
con gli orari di lavoro e almeno i servizi di maggior uso
dovranno essere aperti, per esempio, per due giorni alla
settimana nelle ore che per la maggioranza dei cittadini non
sono lavorative (articolo 25, comma 7).
E ancora, poiché si parla di autonomia impositiva dei
comuni, cioè del fatto che per migliorare e estendere i
servizi i comuni possano imporre delle tasse, una parte di
queste tasse potrebbe esser pagata in tempo anziché in denaro.
Ci spieghiamo meglio: si tratta di chiedere ai cittadini di
dedicare un po' di tempo e di lavoro volontario per integrare
e rendere flessibili i servizi resi alle persone dagli enti
locali (articolo 30).
Ma c'è anche il tempo che ci viene rubato: è tutto quello
che si spreca nel rimbalzo di una pratica da un ufficio
all'altro, in bolli e controbolli, firme e controfirme, nei
tempi lunghissimi della pubblica amministrazione che rendono
spesso estenuante l'attesa di una "carta" che serve a
esercitare un nostro diritto.
Non si potrebbe fare almeno un piccolo passo? Anticipare,
per esempio, una parte della riforma dell'ordinamento delle
autonomie locali? La proposta di legge prevede di autorizzare
i comuni a derogare le norme vigenti per rendere più semplici
e rapide le procedure amministrative (articolo 31).
Ed infine le regioni dovranno adeguare la propria
legislazione sulla base dei princìpi e degli obiettivi della
presente proposta di legge (articolo 29).
E' prevista l'istituzione della voce "Riforma dei tempi
sociali" a carico del capitolo 6856 dello stato di previsione
della spesa del Ministero del tesoro per l'anno 1993 e
seguenti (articolo 32).
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