| Onorevoli Colleghi! -- La presente proposta di legge nasce
dall'iniziativa, sviluppata dal 1989, dell'Assemblea nazionale
permanente per la sostituzione della legge 2 aprile 1968, n.
482, e per il diritto al lavoro, organismo interassociativo
che raccoglie l'adesione di una decina di associazioni
nazionali e regionali per la sostituzione della legge n. 482
del 1968 e l'integrazione lavorativa dei disabili.
L'Assemblea, ritenendo che un elemento essenziale per la
modifica dell'impostazione culturale, tecnica e sociale che
riguarda i cittadini disabili sia quello di consentire una
corretta valutazione delle loro possibilità e capacità, ha
elaborato un testo di legge che, come sottoscrittore della
presente proposta di legge, ho deciso di presentare in
Parlamento.
L'attuale legislazione riguardante gli accertamenti di
invalidità, sia legata ad un risarcimento (invalidità sul
lavoro, di
guerra, per servizio, eccetera) sia legata ad interventi
assistenziali (invalidi civili, sordomuti, eccetera) sia
legata ad un accertamento di idoneità (marittimi, varie
patenti di guida: automobilistica, aerea, eccetera) ha
ereditato l'impostazione teorica scaturita dopo la prima
guerra mondiale, in Italia e all'estero.
In Italia, dopo l'unità, il problema del trattamento dalle
persone colpite da minorazioni fisiche, psichiche o
sensoriali, era stato delegato quasi totalmente ad istituzioni
religiose private, le cosiddette IPAB (istituzioni pubbliche
di assistenza e beneficenza). Solo dopo la prima guerra
mondiale il gran numero di invalidi colpiti da minorazioni
durante la guerra pose il problema di un intervento dello
Stato. Una prima risposta affrontò il problema dal punto di
vista del risarcimento del danno: legge 10 agosto 1950, n.
648; legge 11 marzo 1926, n. 416; testo unico delle
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norme in materia di pensioni di guerra approvato con decreto
del Presidente della Repubblica 23 dicembre 1978, n. 915;
legge 6 ottobre 1986, n. 656, solo per citare alcune norme più
significative; avendo il militare o l'impiegato pubblico
(unici titolari del beneficio) subìto una minorazione durante
un servizio prestato allo Stato o alla patria, doveva essere
riconosciuto un risarcimento commisurato alla gravità della
lesione anatomica accertata. Furono così elaborate le prime
tabelle di valutazioni percentuali del danno anatomico subìto
legate a lesioni ed infermità che davano diritto a pensione
vitalizia o assegno temporaneo: veniva così introdotta per la
prima volta una categorializzazione degli aventi diritto non
basata sul tipo di minorazione funzionale. Inoltre l'elenco
delle minorazioni era esclusivamente medico e serviva ad
individuare quale parte del corpo umano fosse stata lesa,
prevedendo un risarcimento monetario equivalente al danno. In
tal modo veniva sancita l'impostazione teorica di spezzettare
il corpo umano in tante parti, perdendo di vista l'intero
individuo o cancellando il problema delle sue capacità
funzionali, dal momento che era presa in considerazione solo
la sua "malattia". Questa visione portò, come conseguenza
"scientifica", alla possibilità di definire astrattamente la
capacità "ottimale" del corpo umano, come capacità dell'uomo
astratto di essere al cento per cento delle proprie capacità
lavorative. Ogni lesione anatomica accertata dunque veniva
definita in termini percentuali. Quale funzione avesse
l'organo colpito in rapporto con tutta la persona veniva
completamente trascurato. Questa impostazione venne seguita
successivamente anche per gli infortuni sul lavoro (regio
decreto 17 agosto 1935, n. 1765, e successive modificazioni):
si basava anch'essa sullo spezzettamento del corpo umano,
sulla percentualizzazione delle capacità di lavoro, sul
risarcimento ad un danno anatomico-funzionale e sulla
creazione di una nuova categoria di beneficiari, gli invalidi
sul lavoro. In seguito l'elenco delle categorie beneficiarie
si estese, ma
sempre seguendo un criterio di individuazione basato sulla
causa che produceva la minorazione. Si dimenticava così la
reale gravità funzionale del danno accertato. Nacquero così
gli invalidi civili di guerra, gli equiparati (per esempio le
vittime del terrorismo), eccetera. Ogni postulante che voleva
essere riconosciuto beneficiario di una provvidenza assegnata
ad una determinata categoria veniva sottoposto ad un
accertamento di invalidità da parte di commissioni diverse che
utilizzavano criteri di valutazione diversi, più o meno
rigorosi. Qui nacquero le prime disparità di benefìci: a
parità di minorazioni venivano erogate provvidenze diverse a
seconda della causa che produceva il danno. Va aggiunto che la
stessa definizione di invalidità e quindi di invalido colpiva
l'avente diritto con un marchio indelebile di incapacità e
negatività. Un secondo filone legislativo da cui derivano gli
attuali criteri di accertamento dell'invalidità si occupò di
accertare l'idoneità allo svolgimento di determinate mansioni
lavorative (esempio: l'imbarco per i marittimi) o per
particolari abilità (patente di guida), brevetti di volo
(decreto ministeriale 9 gennaio 1938). Anche in questo caso
era l'elenco "delle infermità e delle imperfezioni" che
definiva l'idoneità alla mansione. Veniva ancora utilizzato un
elenco di patologie o di deficienze fisiche, scambiando
un'eventuale disabilità per gli esiti di una malattia o di un
trauma ignorando completamente - anche perché all'epoca
inesistente - il ricorso a soluzioni tecniche (protesi,
ortesi, eccetera) che limitassero il danno.
L'ultimo intervento legislativo si sviluppò sulla base del
riconoscimento dell'esistenza di persone minorate che non
fossero né invalidi di guerra, né per servizio, né per lavoro.
Si inventò così la categoria degli invalidi civili.
L'impostazione teorica di questa normativa, basata sulla
necessità di un intervento assistenziale a sostegno per fasce
sociali deboli - rafforzato successivamente dalle logiche
connesse a un modello di stato assistenziale - individuava
attraverso una percentualizzazione della
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diminuita capacità lavorativa, la gravità del danno anatomico
e il conseguente intervento economico (pensione, indennità di
accompagnamento, eccetera). Anche qui si confuse il danno
causato da trauma o da malattia (con un ampliamento
descrittorio delle patologie a cui veniva fatta corrispondere
una percentuale di diminuita capacità lavorativa, legge 30
marzo 1971, n. 118, di conversione del decreto-legge 30
gennaio 1971, n. 5, e legge 11 febbraio 1980, n. 18 e decreto
ministeriale 25 luglio 1980) con la capacità di svolgimento di
funzioni e di attività di lavoro. A questa impostazione
sostanzialmente medicalizzante vennero collegate sia le
pratiche di internato in istituto, sia interventi
previdenziali e assistenziali.
Il limite di invalidità al cento per cento - teoricamente
impossibile, ma praticamente accertato - rappresentò l'assurdo
teorico della percentualizzazione delle patologie che, con
questa definizione estrema e del tutto priva di significato,
dette effettivamente i numeri. L'accertamento dell'invalidità
così raggiunto sembrava aver conseguito il carattere
scientifico di "oggettività", perdendo però per strada la
corretta valutazione delle reali disabilità della persona
concreta. Questo criterio basato sulla patologizzazione
dell' handicap e sulla percentualizzazione delle capacità
funzionali, venne purtroppo usato sia per la definizione di
prestazioni mediche (riabilitazione, protesi, ricoveri
eccetera) sia per l'erogazione di interventi economici
(pensioni, indennità varie, eccetera), sia per l'accertamento
di benefìci sociali (integrazione lavorativa, barriere
architettoniche, eccetera). La confusione così divenne totale.
Il criterio della percentualizzazione - apparentemente
oggettivo - si dimostrò invece funesto: l'impostazione
assistenzialistica alla base dei motivi per cui venivano
richiesti accertamenti di invalidità civile produsse un
accrescimento incontrollato degli aventi diritto alle varie
prestazioni, favorito sia dalla compiacenza
politico-assistenziale delle commissioni mediche e dei
padrinati politici, sia dall'unicità di accesso ai benefìci
della legge consentiti
dall'unico criterio di accertamento basato sulle percentuali
di invalidità. L'incremento dei falsi invalidi veniva così
causato proprio dalla mancanza di distinzioni tra valutazioni
per il conseguimento di diritti a provvidenze sanitarie,
economiche e sociali.
Gli interventi legislativi successivi per combattere il
fenomeno dei "falsi invalidi", lungi dall'affrontare il
problema dei criteri di accertamento, si basarono prima sul
tentativo di ripetere a campione le visite di accertamento
(legge 12 giugno 1984, n. 222); essendo però le stesse
commissioni a fare le visite con gli stessi tabellari
percentuali il provvedimento non sortì alcun esito
significativo; poi sull'idea di affidare le competenze di
accertamento ad altre commissioni mediche, ritenute meno
influenzabili di quelle delle unità sanitarie locali
(decreto-legge 30 maggio 1988, n. 173, convertito, con
modificazioni, dalla legge 26 luglio 1988, n. 291), creando
nella sostanza una grande confusione ed un lungo blocco delle
certificazioni di invalidità. Il non intervenire sui criteri
di valutazione degli aventi diritto vanificò la gran parte di
questi interventi di bonifica, il cui spirito del resto era
non tanto quello di valutare correttamente i disabili, quanto
quello di risparmiare sulla spesa previdenziale e
assistenziale.
Pertanto l'attuale legislazione ha prodotto ambiguità
nell'accertamento dei diritti (previdenziali, assistenziali e
sociali), disparità di trattamento a parità di minorazione
(tra invalidi di guerra, per servizio, sul lavoro e invalidi
civili), confusione tra accertamento della minorazione e
accertamento della disabilità, mancanza di un corretto
intervento terapeutico-riabilitativo all'atto dell'emergenza
per la prima volta del problema handicap.
La necessità di modificare gli attuali criteri di
accertamento dell'invalidità è stata evidenziata dalla recente
legge-quadro sull' handicap, che ha introdotto criteri
valutativi di tipo qualitativo (per esempio la definizione
handicappato in situazione
di gravità), anziché unicamente i tradizionali criteri
percentuali.
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Questi nuovi criteri di accertamento, da cui scaturiscono
diritti e benefìci, anche con implicazioni economiche, entrano
in contraddizione con la precedente legislazione in materia.
Non a caso il decretolegge n. 320 del 1992, decaduto e più
volte reiterato, fino a giungere al decreto-legge 27 agosto
1993, n. 324, convertito, con modificazioni, dalla legge 27
ottobre 1993, n. 423, sono stati emanati d'urgenza per sanare
una delle contraddizioni più evidenti relativa alle
certificazioni per l'integrazione scolastica degli alunni
handicappati.
Ad una analisi attenta, la legge n. 104 del 1992, invece di
creare una nuova categoria di disabili - come era avvenuto
finora ogni volta che si interveniva nell'ambito degli
accertamenti di invalidità - ha recepito l'indicazione più
volte sostenuta dalle associazioni di criteri qualitativi di
valutazione. Così, invece di valutare gli aventi diritto sulla
base delle percentuali di invalidità, le persone handicappate
beneficiarie degli interventi della legge-quadro vengono
individuate sulla base delle conseguenze che una minorazione
produce come "difficoltà di apprendimento, di relazione e di
integrazione lavorativa (...in una misura) tale da determinare
un processo di svantaggio sociale o di emarginazione"
(articolo 3, comma 1) e "qualora la minorazione, singola o
plurima, abbia ridotto l'autonomia personale, correlata
all'età, in modo da rendere necessario un intervento
assistenziale permanente continuativo e globale nella sfera
individuale o in quella di relazione, la situazione assume
connotazione di gravità" (articolo 3, comma 3). Egualmente in
altri punti della legge n. 104 del 1992, come quello sul
lavoro (articolo 19: "ai fini dell'avviamento al lavoro, la
valutazione della persona handicappata tiene conto della
capacità lavorativa e relazionale dell'individuo e non solo
della minorazione fisica o psichica"), vengono introdotti
criteri di valutazione che vanno ben al di là di quello
esclusivamente clinico dei tabellari percentuali.
Non a caso le commissioni delle unità sanitarie locali
competenti per gli accertamenti
di invalidità, ai sensi della legge n. 295 del 1990,
vengono integrate con nuove figure professionali non mediche
(vedi articoli 4 e 19 della legge n. 104 del 1992).
In questo modo il legislatore è intervenuto individuando la
necessità di introdurre criteri di valutazione basati sulla
individuazione di diritti, di bisogni e di capacità e
potenzialità funzionali presenti in handicappati, ravvisando
l'impossibilità a misurare l' handicap con parametri
esclusivamente clinici e quantitativi. D'altra parte lo stesso
decreto-ministeriale 5 febbraio 1992, che ha emanato la nuova
tabella indicativa delle percentuali di invalidità, quando si
è posto il problema di accertare le potenzialità lavorative,
ha dovuto riferirsi a criteri, per quanto ancora generici e
superficiali, certo non percentuali.
In pratica così già sono operanti benefìci di legge, anche
a carattere economico o che comunque comportano oneri di spesa
pubblica, goduti in base ad accertamenti non percentualizzati.
In questo modo l'obiezione più volte sollevata dai ministeri
competenti per difendere il criterio di valutazione basato
sulle percentuali - una soglia certa ed oggettiva per valutare
gli aventi diritto - è superata sia per le agevolazioni di cui
all'articolo 33 della legge n. 104 del 1992 sia per
l'assegnazione degli insegnanti di sostegno per gli alunni
handicappati (decreto-legge n. 324 del 1993).
La proposta di legge qui presentata si basa su una corretta
lettura della classificazione più recente OMS, che individua
una valutazione medica per l'accertamento delle minorazioni
(patologie, esiti di malattie, eccetera), una valutazione
funzionale per l'accertamento delle conseguenti disabilità
(legate alle funzioni anatomico-funzionali del corpo) e una
valutazione sociale per l'accertamento dell' handicap
(cioè di come determinate disabilità interagiscono con
l'ambiente fisico e sociale di vita (articoli 1 e 2).
Per esempio un poliomelitico agli arti inferiori è affetto
da paralisi alle gambe (minorazione), e impossibilitato, senza
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ausili, a salire le scale (disabilità) ed è svantaggiato
nell'uso dei mezzi di trasporto il cui accesso è possibile
solo superando alcuni gradini (handicap). Le commissioni
multidisciplinari, che la proposta prevede siano create presso
ogni unità sanitaria locale, novità che supera le attuali
commissioni di accertamento esclusivamente medico, valutano
sia le minorazioni sia le disabilità, sia gli impedimenti
sociali e strutturali che producono situazioni di handicap
(articolo 2).
Un'altra importante novità è il superamento delle
categorializzazioni ereditate dalle legislazioni corporative
settoriali: infatti la valutazione proposta non si basa più
sulle cause che hanno prodotto minorazione - superando così le
categorie di invalidi di guerra, per servizio sul lavoro,
eccetera - quanto sulla reale condizione psico-fisica dei
soggetti richiedenti, garantendo un uguale trattamento ed
uguale tipo di minorazione. E' prevista anche l'istituzione di
un registro degli esperti che rende più facile il reperimento
di figure professionali rappresentanti l'utenza qualificando
in maniera seria il lavoro delle commissioni pluridisciplinari
(articolo 3).
Il problema dell'individuazione di una "soglia"
oggettivamente definita per individuare gli aventi diritto è
risolta con l'accertamento di una determinata patologia.
Questo accertamento però diventa solo una parte della
fotografia delle persone disabili, dei loro problemi di
integrazione e delle loro potenzialità funzionali e possibili.
In questo modo viene restituita integralmente, con criteri
scientifici, la totalità della persona alla dimensione della
sua complessiva vita di società. E' evidente che
l'impostazione teorica e pratica proposta modifica
profondamente i tradizionali metodi di valutazione dei
disabili. Molte saranno le resistenze corporative, accademiche
e burocratiche che incontrerà la proposta, che è l'unica
impostazione corretta che rispetti le esigenze dei disabili e
consenta di arrestare il fenomeno delle false invalidità. Data
la complessità della materia, è stata prevista una delega al
Governo (articolo 7) per l'emanazione di un testo unico che
raccordi le diverse normative in modo da ordinare
amministrativamente le procedure e le competenze finalmente
unificate. E' previsto infine un articolo che salvaguardi i
procedimenti di accertamenti già in istruttoria (articolo
10).
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