| INDICE
Premessa
Attività della Commissione dal settembre 1994 al settembre
1995
Capitolo I.
Verifica della congruità degli strumenti legislativi vigenti
e dell'azione dei pubblici poteri nel contrasto al fenomeno
mafioso
1. L'azione dell'autorità giudiziaria
2. L'azione delle forze dell'ordine
3. La Direzione Investigativa Antimafia
4. Le misure di prevenzione patrimoniali
5. I collaboratori di giustizia
6. Le iniziative della Commissione parlamentare
antimafia
7. L'art. 41- bis, comma 2, dell'ordinamento
penitenziario.
Capitolo II
Mafia e Politica
1. Premessa
2. Mafia e Politica in Sicilia
3. 'Ndrangheta e politica in Calabria
4. Camorra e politica in Campania
5. Rapporti collusivi tra criminalità e politica in
Puglia
6. Una costante: lo stragismo mafioso
7. La presenza della criminalità organizzata negli enti
locali. La congruità della normativa sullo scioglimento dei
consigli co-munali
8. Il sistema dei controlli
9. La criminalità organizzata nel Centro-Nord.
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Capitolo III
Mafia ed Economia
1. La situazione economica generale
2. La penetrazione mafiosa nelle attività economiche.
L'imprenditoria mafiosa
3. Il fenomeno dell'usura: occasione di produzione e di
reinvestimento di capitali mafiosi
4. La diffusione del reato di estorsione
5. L'attività di contrasto alla penetrazione degli
interessi criminali nell'economia legale. Il sistema bancario
e l'attività di rici-claggio.
6. Gli strumenti legislativi nel contrasto al
riciclaggio.
7. Gli strumenti di analisi per le indagini
patrimoniali.
8. I nuovi indirizzi dell'economia ed il sistema delle
privatizzazioni e delle dismissioni del patrimonio pubblico
Conclusioni.
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RELAZIONE ANNUALE
Premessa
La presente relazione, dopo una necessaria premessa
relativa all'attività svolta, è articolata per tematiche
oggetto di esame da parte della Commissione parlamentare nel
corso di questo primo anno di legislatura, secondo lo schema
del programma datosi dalla Commissione stessa, strutturato
principalmente su tre grandi linee direttrici, che si possono
così sintetizzare: 1)Verifica della congruità degli strumenti
legislativi e della loro operatività, nonchè degli indirizzi
del Parlamento e dell'azione dei pubblici poteri nel contrasto
al fenomeno mafioso; 2)Evoluzione del fenomeno mafioso nelle
sue connessioni con il sistema politico centrale e locale;
3)Espansione del fenomeno mafioso nel sistema economico
nazionale e internazionale.
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ATTIVITA' DELLA COMMISSIONE
I
La Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno
della mafia e sulle altre associazioni criminali similari,
istituita con legge 30 giugno 1994, n.430, ha proceduto alla
propria costituzione il 13 settembre 1994, approvando il
successivo 21 ottobre il proprio regolamento interno.
Da allora la Commissione ha tenuto 67 sedute, delle quali
35 hanno riguardato audizioni. Nello stesso periodo si sono
tenute 42 riunioni dell'Ufficio di Presidenza allargato ai
rappresentanti dei gruppi.
Il 18 ottobre 1994 la Commissione ha approvato il proprio
programma di lavoro, unitamente ad un documento di indirizzo.
Tale programma individuava tre grandi linee direttrici di
azione, formulate nel modo seguente: 1)verifica
dell'attuazione della legge n.646 del 1982 sulle misure di
prevenzione e delle altre leggi dello Stato concernenti il
fenomeno mafioso, nonchè degli indirizzi del parlamento nella
medesima materia; 2)accertamento della congruità della vigente
normativa e dell'azione dei pubblici poteri, con conseguente
formulazione di proposte di carattere legislativo e
amministrativo; 3)accertamento e valutazione dell'evoluzione
del fenomeno mafioso e di tutte le sue connessioni, con
particolare riguardo da un lato ai rapporti tra mafia e
politica, dall'altro ai rapporti tra mafia ed economia.
Al fine di agevolare tale lavoro - come del resto
delineato nello stesso programma - la Commissione ha quindi
proceduto, lo stesso 18 ottobre, alla costituzione di quattro
gruppi da lavoro, che hanno tenuto complessivamente 22 sedute.
Il primo gruppo "Congruità degli strumenti legislativi e
strutture di contrasto della criminalità organizzata",
coordinato dapprima dal deputato Arlacchi e poi dal Presidente
Parenti, ha tenuto in totale 4 riunioni. Il secondo
"Criminalità organizzata e politica", coordinato dal
Presidente Parenti, ha tenuto in totale 5 riunioni. Il terzo,
"Criminalità organizzata ed economia", coordinato dal senatore
Ramponi, ha tenuto in totale 6 riunioni. Il quarto,
"Organizzazioni criminali omogenee e non omogenee nelle aree
del Centro-Nord", coordinato dapprima dal senatore Serena e
poi dal senatore Peruzzotti, ha tenuto in totale 7 riunioni,
procedendo anche, in tale ambito, all'audizione di diversi
prefetti e rappresentanti delle forze dell'ordine di alcune
province del Centro-Nord, vale a dire Como, Varese, Bologna,
Ravenna, Forlì, Venezia, Verona e Padova.
L'approfondimento dei temi enucleati nel programma di
lavoro è comunque avvenuto principalmente in sede di
Commissione plenaria, attraverso l'effettuazione di una
rilevante serie di audizioni. Si sono quindi avviati numerosi
contatti a livello istituzionale, che hanno condotto, in tempi
diversi, all'audizione del Ministro dell'interno e del
Ministro della giustizia del Governo Berlusconi, e
successivamente dello stesso Presidente del Consiglio
Berlusconi sulle prospettive generali della lotta alla
criminalità organizzata e sul coordinamento dei mezzi di
contrasto. Per quanto concerne il Governo Dini, sono stati
ascoltati il Ministro di Grazia e giustizia e il
Sottosegretario di Stato per l'Interno Luigi Rossi. Con
particolare riferimento al tema dei rapporti tra
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mafia ed economia, si è proceduto all'audizione anche del
Governatore e del Vicedirettore generale della Banca d'Italia,
mentre sulle prospettive dell'attività di contrasto sono stati
ascoltati, anche in diverse occasioni, i vertici delle forze
dell'ordine e degli organismi maggiormente impegnati nella
lotta alla criminalità organizzata. Particolare attenzione è
stata poi naturalmente portata all'attività della
magistratura, con l'audizione dei responsabili di numerose
Procure, oltre che di un membro del CSM e di dirigenti del
Ministero di Grazia e Giustizia.
Accanto a ciò si sono d'altra parte effettuate alcune
missioni esterne, in grado di consentire - oltre alla
testimonianza della diretta presenza della Commissione in zone
e in regioni di particolare importanza - anche l'acquisizione
"sul campo" di elementi preziosi per l'attività conoscitiva
della Commissione stessa. Si è ritenuto doveroso effettuare
missioni nelle regioni del Mezzogiorno maggiormente "a
rischio", in primo luogo per testimoniare l'attenzione e la
solidarietà dell'intera Commissione nei confronti di chi in
tali zone deve combattere, spesso in mezzo a grandi
difficoltà, organizzazioni criminali diffuse sul territorio in
modo pervasivo. Nel corso di queste missioni sono stati quindi
privilegiati, oltre ai contatti con i responsabili della
magistratura, in particolare delle DDA, e delle forze
dell'ordine, anche gli incontri con le associazioni della
società civile e con i rappresentanti degli enti locali, non
raramente vittime di atti di intimidazione a causa della loro
volontà di contrastare in modo incisivo la presenza delle
organizzazioni mafiose. In questo ambito vanno quindi
ricordate, sia pure con modalità di svolgimento diverse, la
missione in Sicilia (Gela, Niscemi, San Giuseppe Jato e
Corleone) del dicembre 1994, quelle in Calabria (Reggio
Calabria, Palmi, Locri, Catanzaro, Crotone e Vibo Valentia)
del gennaio e del marzo 1995, quella in Campania (Napoli,
Caserta e Salerno) del febbraio 1995 e quella in Puglia (Bari
e Lecce) del maggio 1995. Sono state poi effettuate missioni a
Reggio Calabria sul caso Cordopatri nel settembre 1994, nel
carcere di Spoleto nel gennaio 1995, in Liguria (Genova e
Sanremo) nell'aprile 1995 e in Sardegna (Cagliari) nel luglio
di quest'anno. In tutte queste missioni sono stati quindi
acquisiti elementi di sicuro interesse per l'attività
conoscitiva della Commissione stessa, alcuni emersi nelle
relazioni già approvate ed altri che emergeranno nelle
relazioni che dovranno essere approvate.
Va infine detto che, essendosi palesata l'opportunità di
tale visita nel corso della missione in Puglia, il 25 luglio
1995 la Commissione si è recata in Albania, a Tirana, dove si
sono tenuti incontri con esponenti del locale Parlamento,
guidati dal Presidente Arbnori, e con rappresentanti del
Governo albanese, guidati dal Primo Ministro Meksi. Per quanto
concerne i rapporti con l'estero, vanno qui ricordati anche i
due incontri (8 marzo e 4 maggio 1995) avuti con due
delegazioni del Baden-Wurttemberg, una governativa e una
parlamentare, incontri nei quali sono stati discussi gli
argomenti di comune interesse a proposito della normativa e
degli strumenti di contrasto della criminalità organizzata,
con particolare riferimento alle questioni del riciclaggio e
del sequestro di beni.
Non può essere sottovalutata poi l'importanza della
documentazione complessivamente acquisita dalla Commissione,
consistente a
Pag. 140
tutt'oggi in circa 700 documenti, 200 esposti e in 57 esposti
anonimi, per la quale è stato proseguito il lavoro di
informatizzazione già avviato dalla precedente Commissione
antimafia. Tra la corrispondenza in arrivo e quella in
partenza sono stati protocollati complessivamente oltre 3300
atti, riguardanti tematiche di grande vastità, quali il
fenomeno dell'estorsione e dell'usura, l'attività delle
strutture pubbliche e private operanti in tale settore,
l'azione degli enti locali ai suoi diversi livelli, il
funzionamento delle strutture di contrasto della criminalità e
il mantenimento dell'ordine pubblico, il funzionamento degli
uffici giudiziari e penitenziari. Di fronte alle esigenze che
sono state rappresentate, la Commissione ha svolto un ruolo di
impulso e di sollecitazione nei confronti degli organi
istituzionalmente competenti.
All'interno della documentazione ricevuta, accanto alle
relazioni e agli atti provenienti dalle strutture e dagli
organi dell'Amministrazione statale, va comunque ricordata
l'importanza degli atti acquisiti dal settore giudiziario,
relativi sia a procedimenti giudiziari oramai definiti sia,
per la maggior parte, a procedimenti giudiziari tuttora in
corso.
II
Nel corso di questo periodo sono stati approvati alcuni
documenti e relazioni, che devono essere qui brevemente
ricordati.
Il 9 marzo 1995 è stato approvato, a conclusione
dell'attività svolta dal gruppo di lavoro su "Mafia ed
economia" e dopo l'effettuazione in Commissione plenaria di
alcune audizioni - quella del rappresentante del Ministero del
tesoro sull'attuazione della legge n. 197 del 1991, quella del
Commissario straordinario del Governo per il coordinamento
delle misure antiestorsione, quella dei responsabili di alcune
associazioni impegnate nella lotta all'usura - un documento
sull'usura, particolarmente rilevante se si considera il
contemporaneo iter parlamentare del progetto di legge su tale
argomento.
Il 29 marzo dello stesso anno è stato approvato, al
termine di una discussione svoltasi in Commissione plenaria,
un documento di indirizzo sulle prospettive della lotta alla
criminalità organizzata.
Il 21 giugno 1995 è stato approvato un documento sulla
situazione degli uffici giudiziari, dopo che su tale
argomento, a conclusione dell'attività condotta da un
informale gruppo ristretto di ricerca, erano stati ascoltati
in Commissione plenaria il Ministro di Grazia e giustizia,
alcuni dirigenti del Ministero di Grazia e Giustizia e un
membro del CSM.
Il 22 giugno 1995 - dopo che il 2 maggio era stata
approvata una questione pregiudiziale sulla precedente bozza
di relazione - è stato approvato un documento sulle
problematiche relative ai collaboratori di giustizia. Su tale
argomento occorre ricordare che in Commissione erano stati in
precedenza ascoltati il Direttore generale della Criminalpol e
il Direttore del Servizio centrale di protezione, i
rappresentanti di numerose Procure distrettuali, il Direttore
della Direzione generale Affari penali del Ministero di Grazia
e giustizia.
Il 4 luglio sono state approvate distinte relazioni sulla
missione
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svolta in Sicilia, nei comuni di Gela, Niscemi, San Giuseppe
Jato e Corleone.
Il 26 luglio, a conclusione di una prolungata discussione
in Commissione, è stato approvato un documento in materia di
riciclaggio, mentre in pari data è stata approvata la
relazione sul "Caso Cordopatri", dopo che la Commissione, in
data 26 settembre 1994, si era recata direttamente a Reggio
Calabria per approfondire la questione.
Sempre in tale data è stata infine approvata la relazione
sulla missione svolta il 6 aprile 1995 in Liguria, a Genova e
a Sanremo.
E' opportuno ricordare anche che nella seduta del 9
febbraio 1995 era iniziata la discussione della relazione
sull'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario, poi non
proseguita per l'approvazione di una pregiudiziale. Su tale
argomento erano stati ascoltati in Commissione plenaria il
Direttore generale del Dipartimento dell'amministrazione
penitenziaria e i presidenti di cinque Tribunali di
sorveglianza (Catanzaro, Napoli, Milano, Ancona e Perugia).
Sono state inoltre avviate, pur non essendo ancora
concluse, la discussione della relazione sulla situazione
della Campania e quella della relazione sul caso Mandalari. Su
quest'ultimo argomento va ricordato che la Commissione ha
proceduto a diverse audizioni, tra cui quella di alcuni
parlamentari e di alcuni dirigenti delle forze dell'ordine.
E' poi imminente il deposito delle relazioni sulla
missione in Puglia e sulle missioni in Calabria, il cui esame
potrà quindi essere avviato nelle prossime settimane.
E' opportuno conclusivamente ricordare che la Commissione
ha mantenuto una costante attenzione nei confronti
dell'evoluzione di alcuni pericolosi fenomeni criminali
verificatisi nel corso di quest'ultimo anno particolarmente in
Sicilia, come è testimoniato dalle audizioni svoltesi su
questi argomenti in tempi diversi, dal marzo al luglio, del
Sottosegretario agli interni Luigi Rossi, del Prefetto di
Palermo e dei vertici dell'Arma dei Carabinieri, della Polizia
e dello SCO, e della DIA.
III
Si ritiene infine di fornire qui un breve quadro delle
sedute in Commissione plenaria finora tenute:
1) 13 settembre 1994: costituzione dell'Ufficio di
presidenza;
2) 15 settembre 1994: esame del regolamento interno
della Commissione;
3) 19 settembre 1994: audizione del Ministro
dell'interno, on. Roberto MARONI, sullo stato della lotta alla
criminalità organizzata;
4) 19 settembre 1994: audizione del Ministro di Grazia
e giustizia, on. Alfredo BIONDI, sulla situazione
dell'ordinamento giudiziario e penitenziario;
5) 27 settembre 1994: audizione del prefetto Ferdinando
MASONE, Capo della polizia, sullo stato della lotta alla
criminalità;
6) 28 settembre 1994: audizione del dott. Bruno
SICLARI, Procuratore nazionale antimafia, sui rapporti tra
procure distrettuali antimafia e direzione nazionale antimafia
e sui rapporti tra procure distrettuali
Pag. 142
e procure ordinarie; audizione del Gen. Costantino
BERLENGHI, Comandante Generale della Guardia di finanza, sulle
infiltrazioni della criminalità nelle attività economiche e
sulla struttura di controllo dei movimenti finanziari;
7) 30 settembre 1994: audizione del Gen. Giovanni
VERDICCHIO, direttore della DIA, e del dottor Gianni DE
GENNARO, direttore della Criminalpol, sulle prospettive delle
attuali strutture di contrasto della criminalità e sul
coordinamento con l'azione dell'autorità giudiziaria, sui
risultati dell'attività investigativa e sull'attualità del
sistema di analisi della criminalità;
8) 4 ottobre 1994: audizione del Gen. Luigi FEDERICI,
comandante generale dell'Arma dei Carabinieri, sullo stato
della lotta alla criminalità;
9) 4 ottobre 1994: audizione del Gen. Gaetano MARINO,
direttore del SISDE, e del Gen. Sergio SIRACUSA, direttore del
SISMI, sul ruolo dei servizi nella lotta alla criminalità
organizzata;
10) 5 ottobre 1994: rinvio dell'esame del regolamento
interno della Commissione;
11) 7 ottobre 1994: audizione del Governatore della
Banca d'Italia, dott. Antonio FAZIO, sulla normativa italiana
ed estera relativa al settore finanziario e bancario, con
particolare riferimento al fenomeno del riciclaggio;
12) 11 ottobre 1994: esame del regolamento interno
della Commissione;
13) 18 ottobre 1994: esame ed approvazione del
programma dei lavori della Commissione, unitamente ad un
documento di indirizzo;
14) 21 ottobre 1994: seguito dell'esame ed approvazione
del regolamento interno della Commissione;
15) 21 ottobre 1994: audizione del Presidente del
Consiglio, on. Silvio BERLUSCONI, sulle linee programmatiche
dell'azione del Governo nella lotta alla criminalità
organizzata;
16) 26 ottobre 1994: audizione del dott. Alessandro
MARGARA, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze,
sull'applicazione dell'art. 41-bis;
17) 28 ottobre 1994: seguito dell'audizione del
Presidente del Consiglio, on. Silvio BERLUSCONI;
18) 28 ottobre 1994: audizione del dott. Adalberto
CAPRIOTTI, direttore generale del D.A.P., sull'applicazione
dell'art. 41-bis;
19) 3 novembre 1994: audizione della dott.ssa Antonella
Giuliana MAGNAVITA, magistrato presso il Tribunale di
sorveglianza di Catanzaro, del dottor Salvatore IOVINO,
Presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli, e del
dottor Antonio MACI, Presidente del Tribunale di Sorveglianza
di Milano, sull'applicazione dell'art. 41-bis;
20) 4 novembre 1994: seguito dell'audizione del
Presidente del Consiglio, on. Silvio BERLUSCONI;
21) 4 novembre 1995: audizione del dott. Marcello
GALASSI, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Ancona, e
del dottor Piero POGGI, Presidente del Tribunale di
Sorveglianza di Perugia, sull'applicazione dell'art.
41-bis;
22) 8 novembre 1994: audizione del dottor Gianni De
GENNARO, direttore generale della Criminalpol e del generale
Francesco
Pag. 143
VALENTINI, direttore del servizio centrale di protezione, sui
sistemi di protezione dei collaboratori di giustizia;
23) 15 novembre 1994: audizione del dottor Giancarlo
CASELLI, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di
Palermo e del dottor Guido LO FORTE, Procuratore Aggiunto
della Repubblica di Palermo, sui collaboratori di giustizia e
sulla loro gestione;
24) 30 novembre 1994: comunicazioni del Presidente;
25) 1 dicembre 1994: comunicazioni del Presidente;
26) 7 dicembre 1994: audizione del dottor Maurizio
STRIZZI e del dottor Umberto CELOTTO, dirigenti superiori del
MInistero del tesoro, sull'attuazione della legge n.197 del
1991;
27) 15 dicembre 1994: audizione del Prefetto Giorgio
MUSIO, Commissario straordinario del Governo per il
coordinamento delle misure antiracket, sui fenomeni
dell'estorsione e dell'usura;
28) 10 gennaio 1995: audizione del dottor Bruno
SICLARI, Procuratore Nazionale Antimafia; del dottor Piero
Luigi VIGNA, Procuratore della Repubblica di Firenze; del
dottor Giovanni TINEBRA, Procuratore della Repubblica di
Caltanissetta; del dottor Francesco Paolo GIORDANO,
Procuratore della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di
Caltanissetta; del dottor Gian Carlo CASELLI, Procuratore
della Repubblica di Palermo; del dottor Antonio INGROIA,
Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di
Palermo;del dottor Marcello MADDALENA, Procuratore della
Repubblica aggiunto presso il Tribunale di Torino; del dottor
Franco MARZACHI', Procuratore della Repubblica aggiunto presso
il Tribunale di Torino; del dottor Guido LO FORTE, Procuratore
della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di Palermo; del
dottor Manlio MINALE, Procuratore della Repubblica aggiunto
presso il Tribunale di Milano; del dottor Paolo MANCUSO,
Procuratore della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di
Napoli e del dottor Loris D'AMBROSIO, direttore della
Direzione generale affari penali del Ministero di Grazia e
Giustizia, sul regolamento per la gestione dei collaboratori
di giustizia;
29) 10 gennaio 1995: audizione del dottor Piero Luigi
VIGNA, Procuratore della Repubblica di Firenze, sulla
situazione della criminalità organizzata di tipo tradizionale
e non tradizionale nell'Italia centrale;
30) 17 gennaio 1995: comunicazioni del Presidente sulla
acquisizione degli atti processuali del caso Mandalari;
31) 18 gennaio 1995: audizione del prefetto Pietro
SOGGIU, sul problema delle tossicodipendenze;
32) 1 febbraio 1995: audizione del dottor Alessandro
PANSA, dirigente del nucleo centrale criminalità economica e
informatica dello SCO della Polizia di Stato e del dottor
Luigi SAVINA, dirigente della squadra mobile di Palermo,sul
caso Mandalari;
33) 2 febbraio 1995: audizione del deputato Giovanni
MICCICHE', del senatore Filiberto SCALONE e del senatore
Michele FIEROTTI, sul caso Mandalari;
34) 9 febbraio 1995: discussione della relazione
sull'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario ed
approvazione di una questione pregiudiziale;
35) 14 febbraio 1995: comunicazioni del Presidente in
ordine
Pag. 144
alla richiesta di convocazione straordinaria della
Commissione ai sensi dell'articolo 9, comma 3, del regolamento
interno;
36) 21 febbraio 1995: comunicazione del Presidente
sulla pubblicazione delle richieste di smentite e precisazioni
a relazioni approvate dalla Commissione nella XI legislatura;
comunicazioni del Presidente si sensi dell'articolo 8, comma
1, del regolamento interno della Commissione, sul calendario
dei lavori;
37) 21 febbraio 1995: audizione della dottoressa Donata
MONTI, coordinatrice del Cartello "Insieme contro l'usura",
del dottor Roberto GIANNOLI, responsabile del credito
nazionale Confartigianato, del dottor Franco CRUCIANI,
coordinatore di Fedart-Fidi e del dottor Pasquale BUSA',
coordinatore nazionale di SOS Impresa, sul fenomeno
dell'usura;
38) 28 febbraio 1995: discussione del documento sulle
problematiche dell'attività di contrasto al fenomeno
dell'usura;
39) 8 marzo 1995: seguito della discussione del
documento sulle problematiche dell'attività di contrasto al
fenomeno dell'usura;
40) 9 marzo 1995: seguito della discussione ed
approvazione del documento sulle problematiche dell'attività
di contrasto al fenomeno dell'usura;
41) 15 marzo 1995: audizione del Sottosegretario di
Stato per l'Interno, Prefetto Luigi ROSSI, sugli avvenimenti
recentemente verificatisi in Sicilia;
42) 15 marzo 1995: audizione del dottor Achille SERRA,
Prefetto di Palermo, del generale Mario NUNZELLA, comandante
del ROS dell'Arma dei Carabinieri, del dottor Gennaro MONACO,
direttore dello SCO della Polizia di Stato, e del generale
Giovanni VERDICCHIO, direttore della DIA, sulla situazione
esistente in Sicilia;
43) 16 marzo 1995: rinvio delle comunicazioni del
Presidente sullo stato attuale e sulle prospettive dell'azione
di contrasto alla criminalità organizzata;
44) 17 marzo 1995: audizione del generale Mario
NUNZELLA, Comandante del ROS dell'Arma dei Carabinieri, sulle
questioni attinenti al suicidio del mar. Lombardo;
45) 21 marzo 1995: comunicazioni del Presidente sullo
stato attuale e sulle prospettive dell'azione di contrasto
alla criminalità organizzata;
46) 29 marzo 1995: discussione ed approvazione di un
documento sullo stato attuale e sulle prospettive dell'azione
di contrasto alla criminalità organizzata; discussione della
relazione sul regolamento dei collaboratori di giustizia;
47) comunicazioni del Presidente;
48) 2 maggio 1995: seguito della discussione della
relazione sul regolamento dei collaboratori di giustizia ed
approvazione di una questione pregiudiziale; discussione della
relazione sul caso Mandalari;
49) 9 maggio 1995: audizione del dottor Saverio Felice
MANNINO, membro del Consiglio Superiore della Magistratura,
del dottor Carlo Adriano TESTI, direttore generale, del dottor
Giuseppe FALCONE, capo della segreteria, e del dottor Roberto
PARZIALE, magistrato addetto alla segreteria
dell'organizzazione giudiziaria e degli affari generali del
Ministero di Grazia e Giustizia, sulla situazione degli uffici
giudiziari;
Pag. 145
50) 10 maggio 1995: audizione del dottor Filippo
MANCUSO, Ministro di Grazia e Giustizia, sulla situazione
degli uffici giudiziari;
51) 13 giugno 1995: audizione del generale Francesco
VALENTINI, direttore del Servizio centrale di protezione dei
collaboratori di giustizia, sulla tutela dei collaboratori di
giustizia;
52) 14 giugno 1995: votazione per l'elezione suppletiva
di un segretario;
53) 20 giugno 1995: discussione del documento Bargone
ed altri sulle problematiche relative ai collaboratori di
giustizia; discussione del documento sulla situazione degli
uffici giudiziari;
54) 21 giugno 1995: elezione suppletiva di un
segretario; seguito della discussione ed approvazione del
documento sulla situazione degli uffici giudiziari;
discussione del documento sulle misure di prevenzione
patrimoniali;
55) 22 giugno 1995: seguito della discussione ed
approvazione del documento Bargone ed altri sulle
problematiche relative ai collaboratori di giustizia;
57) 4 luglio 1995: seguito della discussione del
documento sulle misure di prevenzione patrimoniali; seguito
della discussione ed approvazione della relazione sulla
missione nei comuni di Niscemi, San Giuseppe Jato, Corleone e
Gela;
58) 5 luglio 1995: discussione della relazione sulla
missione in Liguria;
59) 11 luglio 1995: audizione dell'onorevole Silvio
LIOTTA, sul "caso Mandalari";
60) 12 luglio 1995: audizione del senatore Enrico LA
LOGGIA, sul "caso Mandalari";
61) 18 luglio 1995: audizione del Prefetto Ferdinando
MASONE, capo della Polizia, e del generale Giovanni
VERDICCHIO, direttore della DIA, sulle prospettive dell'azione
di contrasto alla criminalità organizzata in seguito
all'arresto di Leoluca Bagarella;
62) 19 luglio 1995: Commemorazione della strage di Via
D'Amelio; seguito della discussione della relazione sulla
missione in Liguria; seguito della discussione del documento
sulle misure di prevenzione patrimoniali; discussione della
relazione sul caso Cordopatri;
63) 26 luglio 1995: seguito della discussione ed
approvazione della relazione sulla missione in Liguria;
seguito della discussione ed approvazione della relazione sul
caso Cordopatri; seguito della discussione ed approvazione del
documento sulle misure di prevenzione patrimoniali;
64) 27 luglio 1995: discussione della relazione sulla
situazione della Campania;
65) 28 luglio 1995: audizione del dottor Piero Luigi
VIGNA, Procuratore della Repubblica di Firenze, sulle indagini
relative alle stragi dell'estate 1993;
66) 1 agosto 1995: seguito della discussione della
relazione sulla Campania;
67) 2 agosto 1995: seguito della discussione della
relazione sulla Campania.
Pag. 146
Prospetto riassuntivo
... (omissis) ...
Documenti approvati dalla Commissione:
1) 9 marzo 1995: Documento sulle problematiche
dell'attività di contrasto al fenomeno dell'usura (rel: sen.
Ramponi)
2) 29 marzo 1995: Documento sullo stato e sulle
prospettive dell'azione di contrasto alla criminalità
organizzata (rel: on. Bargone)
3) 21 giugno 1995: Documento sulla situazione degli
uffici giudiziari (rel: sen. Imposimato)
4) 22 giugno 1995: Documento sulle problematiche
relative ai collaboratori di giustizia (rel: on. Bargone)
5) 4 luglio 1995: Relazione sulla missione svolta nei
comuni di Gela, Niscemi, San Giuseppe Jato e Corleone (rel:
sen. Ramponi)
6) 26 luglio 1995: Relazione sul caso Cordopatri (rel:
on. Vendola)
7) 26 luglio 1995: Relazione sulla missione svolta in
Liguria (rel: on. Tarditi)
8) 26 luglio 1995: Documento relativo alle indagini in
materia di riciclaggio (rel: sen. Ramponi).
Documentazione pervenuta:
Documenti ......................... 686
Esposti ........................... 183
Anonimi ........................... 57
Totale ............................ 926
Totale corrispondenza (arrivo-partenza) 3.315
Pag. 147
CAPITOLO I
VERIFICA DELLA CONGRUITA' DEGLI STRUMENTI LEGISLATIVI VIGENTI
E DELL'AZIONE DEI PUBBLICI POTERI NEL CONTRASTO AL FENOMENO
MAFIOSO
1. L'azione dell'autorità giudiziaria
1.1 La Commissione deve constatare sul piano giudiziario
che lusinghieri, importanti risultati contro la criminalità
organizzata di stampo mafioso sono stati ottenuti, grazie ad
una continuo incremento dell'azione sviluppata principalmente
dalle Direzioni distrettuali antimafia.
Rispetto ad esse, la Direzione Nazionale Antimafia,
ancora in fase di evoluzione verso uno standard operativo a
règime, a causa dei tempi necessari alla definizione in tutti
i suoi complessi aspetti della banca dati centrale alla cui
costituzione è da tempo direttamente impegnata, oltre a
potenziarne il ruolo con diffuse applicazioni di suoi
magistrati, ha continuato a svolgere quella funzione di
coordinamento, di impulso e di rafforzamento assegnatole dagli
art. 371-bis c.p.p. e 110-bis R.D. 30 gennaio 1941 n.12.
Sulla base delle ordinanze di custodia cautelare emesse
dai G.I.P. distrettuali nei confronti di un gran numero di
indagati, parte delle quali hanno già trovato positiva
conferma nelle relative sentenze intervenute nei vari gradi di
giudizio, può affermarsi il conseguimento di risultati fino a
pochi anni fa irraggiungibili. Sono state infatti delineate
nuove organizzazioni mafiose; sono state approfondite le
articolazioni interne di quelle già inquisite; sono state
scoperte profonde ingerenze dei sodalizi di stampo mafioso nel
tessuto socio-economico e politico.
L'efficacia ed il coordinamento dell'azione giudiziaria
ed investigativa, attraverso il reticolo costituito sul
territorio nazionale dalle Direzioni distrettuali antimafia e
dai Servizi centrali delle forze dell'ordine, sono valsi
altresì a delineare l'imponente presenza della criminalità
organizzata nel settore dell'usura, ed a conseguire
importantissimi risultati nel settore del traffico degli
stupefacenti e delle armi. Emerge così uno spaccato delle
associazioni di stampo mafioso ormai diffuse sull'intero
territorio nazionale con consistenza e struttura
imprenditoriale, sia per gli interessi economici di
elevatissimo valore trattati, sia per il coinvolgimento
numerico assai alto dei soggetti - vuoi organici vuoi
indirettamente complici - dediti in maniera organizzata a tali
delinquenziali attività.
La scoperta di un reticolo criminale così radicato,
diffuso ed allarmante, con effetti perversi in grado di
inquinare la vita civile del Paese, rappresenta un fenomeno
che la Commissione deve segnalare in tutta la sua potenziale
pericolosità; una realtà alla quale solo in questi ultimi anni
è stato possibile accedere e contrapporre, di conseguenza,
quell'azione risanatrice che lo Stato ha decisamente
imboccato.
Pag. 148
L'utilità degli accertamenti condotti dalle Direzioni
distrettuali antimafia va apprezzata in tutto il suo valore
anche per l'attenzione con la quale esse hanno saputo seguire
l'evoluzione e le metamorfosi del fenomeno mafioso. Si sono
saputi sviluppare interventi in ogni direzione mirando non
soltanto alle attività delinquenziali tradizionali di simili
sodali, quali il traffico di sostanze stupefacenti, le
estorsioni, il settore delle pubbliche commesse, ma anche
orientandosi verso nuove aree economiche, quali il riciclaggio
di rifiuti solidi urbani, le frodi comunitarie, su cui la
criminalità organizzata ormai punta in maniera evidente.
1.2 L'impulso ed il coordinamento
Il forte impulso dato negli ultimi anni alle
investigazioni contro la criminalità organizzata di stampo
mafioso, reso possibile soprattutto dalla normativa sui
collaboratori di giustizia oltre che dalla creazione di
strutture specializzate e dall'affinamento di strumenti
processuali di indagine, ha incrementato l'avvio di numerose
indagini preliminari che hanno impegnato ed impegnano al
massimo le capacità funzionali delle D.D.A., per le quali si
pone un rafforzamento di organici.
La Commissione, nel corso dei suoi lavori, si è
ripetutamente interessata a questa allarmante situazione, che
rischia - in una prospettiva purtroppo non lontana - di
vanificare l'enorme impegno in termini di uomini e di risorse
profuso dallo Stato nello sviluppo di un'azione coraggiosa ed
efficace contro la mafia.
Nell'audizione del 10.5.1995 il Ministro di Grazia e
Giustizia ha informato la Commissione che, per difficoltà di
ordine economico, non si prevede la possibilità di sopperire a
tali urgenze con nuovi aumenti di organici, rispetto ai quali
sarebbe comunque agevole un rilievo di intempestività, dati i
tempi necessari per esaurire i relativi concorsi, e parimenti
- rispetto alla attuale emergenza - sono destinati a rivelarsi
i risultati della apposita Commissione ministeriale incaricata
di studiare la revisione generale delle piante organiche degli
Uffici giudiziari.
Il Consiglio Superiore della Magistratura, a sua volta,
ha informato di aver privilegiato, nei trasferimenti, la
copertura di quelle sedi non solo gravate da carichi di lavoro
maggiori, ma caratterizzate da una più pesante presenza della
criminalità organizzata. L'analisi dei termini concreti
conseguiti all'apprezzabile attenzione riposta, non appare
perciò sufficiente a fronteggiare la emergenza della
situazione.
Per questo, la Commissione, ha approvato un documento,
nel quale propone al Governo ed al Parlamento correttivi
normativi urgenti, anche di natura economica, in grado di
incentivare sia la permanenza di magistrati di prima nomina
presso le sedi meridionali, notoriamente affette da un
ricambio di organico che ne riduce la efficienza, sia la
disponibilità ad essere ivi applicati.
L'istituto dell'applicazione su disponibilità, proprio
perchè caratterizzato da una elasticità e da una immediatezza
in grado di superare gli aspetti negativi della rigidità degli
organici degli uffici giudiziari, può costituire uno
strumento, per quanto provvisorio e non risolutivo
Pag. 149
della problematica, utile a fronteggiare gli allarmanti
scenari processuali che si delineano.
1.3 Sotto altro profilo l'istituto della applicazione è
stato richiesto dai Procuratori ordinari della Repubblica -
nel corso di diverse audizioni durante le missioni svolte sul
territorio -, per ridistribuire la competenza in materia di
"reati di mafia" (art. 51, 3^ comma bis c.p.p.) fra tutte le
Procure della Repubblica, secondo il sistema previgente al
D.L. n.345/1991. Le richieste sono state fondate sul rilievo
che la concentrazione delle indagini preliminari presso la
Procura distrettuale, la quale a sua volta si avvale della
DIA, dei Servizi Centrali e interprovinciali, finisce per
escludere le Forze dell'ordine presenti in sede locale che, di
riflesso, demotivate, o comunque non coinvolte in termini di
operativo impiego adeguato, hanno finito per perdere contatto
con l'andamento e l'evoluzione della criminalità organizzata
locale, ponendosi in una posizione - in senso traslato, ma
aderente alla realtà degli effetti seguiti - di "distacco per
incompetenza" rispetto al fenomeno.
A loro volta, le Procure della Repubblica ordinarie,
nella trattazione degli affari penali di pertinenza, hanno
apertamente riferito di non avere avuto ragione di
approfondire determinati aspetti - ancorchè collaterali, ma
non per questo secondari - proprio perchè legati a reati
rientranti nel novero di quelli aggravati dal cd. "fine di
mafiosità" e come tali non di loro competenza.
Le conseguenze pratiche della segnalata situazione non
sono di segno positivo.
Manca una disposizione che realizzi un "interscambio", o
per meglio dire, che assicuri non solo la concentrazione di
dati conoscitivi, circa i reati di cui all'art. 51, 3^ comma
bis c.p.p., ma anche la loro continua alimentazione,
analogamente a quanto disposto dall'art. 3 del D.L. n.345/1991
in materia di attribuzione alla D.I.A. rispetto agli altri
organi di Polizia.
Manca inoltre, sul piano normativo attuale, uno strumento
giuridico che possa realizzare una funzione di raccordo tra le
D.D.A. e le procure ordinarie, necessaria ad integrare, in una
visione generale, tutte le notizie comunque acquisite
dall'Autorità giudiziaria inquirente a proposito di delitti di
stampo mafioso.
Il relativo coordinamento resta così affidato ancora oggi
alla iniziativa dei singoli magistrati, alla conoscenza ed ai
buoni rapporti tra i titolari di indagini: insomma ad uno
spontaneismo sicuramente apprezzabile, ma sul quale non si può
sicuramente fare conto nell'ambito di un serio programma che
consideri i dati, le notizie e le informazioni come una
materia "unitaria", come un momento assolutamente necessario
ed imprescindibile per lo sviluppo di un'azione di contrasto
contro la mafia svolta sull'intero territorio nazionale. E'
proprio quest'ultimo dato, ossia il carattere espansivo
assunto dal fenomeno mafioso, a qualificare ulteriormente
detta esigenza ed a proporla quindi al legislatore in termini
di urgenza e necessità non differibili.
Nella prospettiva sarebbe opportuno che presso ciascuna
Procura distrettuale fosse applicato, con impegno naturalmente
rapportato anche
Pag. 150
alle esigenze dell'ufficio di provenienza, almeno un
magistrato per ciascuna Procura della Repubblica istituita
presso i Tribunali che insistono nel distretto.
Una configurazione del genere, ove assumesse quel
carattere continuo e generalizzato che la Commissione auspica,
consentirebbe di conseguire due importanti risultati.
Assicurerebbe, da un lato, la continuità dello stesso
rappresentante della Pubblica accusa dalla fase delle indagini
preliminari alla fase dibattimentale, nei processi di
criminalità organizzata celebrati in Tribunali diversi da
quelli sedi di D.D.A., e dall'altro una reciproca
valorizzazione dei dati e delle notizie di interesse
funzionale nell'ambito delle rispettive competenze e una più
articolata azione investigativa sul territorio.
2. L'azione delle Forze dell'ordine
2.1 Deve convenirsi, alla stregua di inconfutabili
diffuse conferme, che i crescenti risultati conseguiti dalla
Magistratura e dalle Forze dell'ordine contro le associazioni
a delinquere di stampo mafioso sono dovuti in parte
determinante al contributo offerto dai collaboratori di
giustizia. La crescita geometrica di questi ultimi, rivelatasi
fondamentale per la conoscenza del fenomeno criminale, anche
in relazione alle dinamiche maturate al suo interno, ha
comportato - come effetto indotto - un mutamento del costume
processuale e, prima ancora, di quello investigativo.
La funzione degli organi inquirenti, intesi in senso
lato, rischia sempre di più di svilupparsi ormai in conformità
a schemi di indagine costruiti secondo un metodo "deduttivo" e
non "induttivo".
In pratica la ricerca del colpevole non avviene più
generalmente partendo dalla "generica" del reato e sviluppando
fino in fondo gli spunti da essa proposti, ma ponendo in
essere investigazioni dirette, a posteriori, a riscontrare le
indicazioni fornite in proposito dal o dai collaboratori di
giustizia. Le investigazioni delle Forze dell'ordine, in tal
modo, non "evolvono" verso la autonoma scoperta del colpevole,
ma si impostano come una "verifica" a posteriori di un
accusa-denuncia, con il rischio, non trascurabile, di indurre
ad una disincentivazione della capacità investigativa di
iniziativa delle Forze dell'ordine, appiattendola su moduli di
accertamento burocratici e meno qualificante sotto il profilo
tecnico.
2.2 Il coordinamento: lo stato attuale - nella
prospettiva di un rafforzamento
Oltre al Comitato Nazionale per l'Ordine e la Sicurezza
pubblica, organo ausiliario di alta consulenza del Ministro
dell'Interno, al quale - tra l'altro - è demandato il compito
di esprimersi sui "piani per l'attribuzione delle competenze
funzionali e territoriali" e "sulle pianificazioni della
dislocazione e del coordinamento delle Forze di polizia,
funzione preminente assume - nella prospettiva in esame - il
Consiglio Generale per la lotta alla criminalità organizzata,
anch'esso sotto la presidenza dello stesso Ministro
dell'Interno, composto dal Capo della Polizia - direttore
generale della pubblica sicurezza, dai Comandanti generali
dell'Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di
Pag. 151
Finanza, dai direttori del SISDE e del SISMI. Alle relative
riunioni partecipa anche il Direttore della DIA che riferisce
sul funzionamento dei servizi posti alla sue dipendenze e sui
risultati conseguiti.
Il Consiglio Generale per la lotta alla criminalità
organizzata assomma funzioni di impulso attraverso la
titolarità dei poteri di direttiva, di controllo e di
coordinamento, al fine di definire ed adeguare gli indirizzi
per le linee di prevenzione e anticrimine e per le attività
investigative, "determinando una ripartizione dei compiti tra
le forze di polizia per aree, settori di attività e tipologia
dei fenomeni criminali, tenuto conto dei servizi affidati ai
relativi uffici ed alle strutture - con particolare
riferimento a quelle interforze - operanti a livello centrale
e periferico" (v. art.1 della L. n.410 del 1991).
Concorre inoltre alla determinazione delle direttive per
lo svolgimento delle attività di coordinamento esercitate dai
Prefetti dei capoluoghi di regione, ed individua le risorse, i
mezzi e le attrezzature necessarie agli uffici ed ai reparti
impiegati nell'azione antimafia, fissando "i criteri per
razionalizzarne l'impiego".
Allo scopo di realizzare un interscambio informativo più
intenso, di pervenire ad una ripartizione di obiettivi tra le
forze di polizia e la DIA, e di istituire un sistema integrato
interforze, a livello periferico e centrale finalizzato alla
stesura ed all'aggiornamento delle "mappe delle famiglie
criminali", sono stati adottati dal Consiglio una serie di
decreti.
Il D.M. 22 gennaio 1992
Con il D.M. 22 gennaio 1992 si è stabilito che, in
attuazione del principio della reciprocità informativa, tutti
gli uffici devono scambiarsi le notizie acquisite nel corso
della attività conoscitiva ed operativa, anche attraverso una
opportuna canalizzazione delle stesse negli archivi e negli
schedari della Banca - Dati Interforze, nel rispetto del
segreto di indagine. E' poi sancita la istituzione di un
sistema integrato interforze finalizzato alla attuazione della
mappa delle famiglie criminali, organismo quest'ultimo
denominato G.I.I.C. (Gruppo Integrato Interforze Centrale),
attuato effettivamente attraverso il D.M. 15 luglio 1993.
Attraverso la stesso provvedimento è poi avvenuta la
ripartizione tra le forze dell'ordine in materia di proposte
per l'applicazione delle misure di prevenzione personali e
patrimoniali, in base al principio della "concentrazione di
informazioni" in un determinato organismo di polizia. Si sono
inoltre fissati specifici criteri di intervento con
determinazione di priorità tra le forze di polizia e la DIA
nei settori: dei sequestri di persona; della ricerca dei
latitanti; degli appalti di opere pubbliche; dei controlli da
esercitare nei confronti di soggetti pericolosi (sottoposti a
misure di prevenzione ovvero ammessi a particolari trattamenti
previsti dall'ordinamento penitenziario).
Il D.M. 12 febbraio 1992
Con il D.M. 12 febbraio 1992, sono stati specificati i
criteri per la dislocazione sul territorio dei presidi di
polizia, allo scopo di migliorare l'impiego delle risorse e di
rafforzare il coordinamento operativo delle forze di polizia.
Si è così determinato di assicurare una distribuzione
Pag. 152
differenziata sul territorio in base al principio per
cui la Polizia di Stato privilegerà il rafforzamento della
propria presenza nei centri capoluogo di provincia e l'Arma
dei Carabinieri nelle altre località, mentre per quanto
concerne la Guardia di finanza la sua dislocazione
territoriale dovrà corrispondere alle specifiche finalità
istituzionali del Corpo.
Con quest'ultimo decreto sono state tra l'altro definite
le modalità per l'attuazione delle interconnessioni tra le
sale operative delle Forze di polizia e per lo scambio
reciproco di informazioni in tempo reale.
Il D.M. 21.2.1992
Con il D.M. 21 febbraio 1992, infine, sono state fissate
le linee di prevenzione anticrimine per le attività
investigative della DIA con conseguente individuazione degli
obiettivi strategici.
Nella prospettiva di rafforzare il raccordo dell'attività
di investigazione preventiva, il Ministro dell'Interno ha
attribuito al Capo della Polizia - direttore generale della
Pubblica sicurezza - l'incarico di porre in essere "ogni
iniziativa volta a verificare la puntuale attuazione delle
direttive al riguardo" (Direttiva del Ministro dell'Interno
del 4 aprile 1995).
Organi di raccordo a livello internazionale
Nel settore delle attività internazionali, l'intervento
delle forze di polizia è stato regolamentato, quanto alla
funzione di raccordo, attraverso la "Segreteria Permanente e
per i Comitati di collaborazione" che, costituita presso il
Gabinetto del Ministro per l'Interno, cura gli aspetti
politico - gestionali della collaborazione internazionale,
dell'Ufficio di Coordinamento e Pianificazione e della
Direzione Centrale della Polizia Criminale. In questo stesso
quadro si colloca l'attività della Divisione SIRENE, a
composizione interforze, costituita nell'ambito della
Direzione Centrale della Polizia Criminale, in esecuzione
della Convenzione di Schengen e per le realizzazioni
conseguenti agli accordi di Maastricht ed alla cooperazione
Europol.
3. La Direzione Investigativa Antimafia
3.1 Alla DIA, come è noto, la legge n. 410 del 1991
affida il compito di assicurare lo svolgimento in forma
coordinata delle attività di investigazione preventiva e di
effettuare indagini di polizia giudiziaria relative
esclusivamente a delitti di associazione mafiosa o comunque
ricollegabili all'associazione medesima (in sostanza, ogni
forma di manifestazione mafiosa ivi compreso il fenomeno delle
estorsioni).
Di particolare importanza si manifesta l'indicazione
dell'art.3.3 della Legge n. 410 del 1991 che, sancendo
l'operatività della DIA in stretto collegamento con gli uffici
e le strutture delle forze di polizia esistenti a livello
centrale e periferico, prevede in tale ottica la istituzione
della figura del Vice Direttore Generale della Pubblica
Sicurezza - Direttore Generale della Polizia Criminale.
Proprio allo scopo di dare maggiore incisività al collegamento
tra la DIA e le Forze di Polizia, è stata istituita con D.M.
8.10.1992 una Commissione permanente,
Pag. 153
da convocarsi a cura del vicedirettore generale della
Pubblica Sicurezza, con lo scopo di affrontare tutte le
problematiche " afferenti l'attribuzione di specifiche
indagini ".
Per quanto concerne le indagini di polizia giudiziaria,
il ruolo centrale della DIA, nell'azione di contrasto alla
criminalità organizzata, è stato poi concretamente confermato
da una direttiva emanata dal Procuratore Nazionale Antimafia,
in data 10 maggio 1993, con la quale sono state tracciate le
linee generali di impiego e di coordinamento di tale
organismo, dei Servizi centrali e delle articolazioni
territoriali delle forze di polizia . In tale provvedimento,
si fa obbligo a tutti gli ufficiali ed agenti di p.g. dei
Servizi Centrali ed Interprovinciali delle Forze di polizia,
di informare costantemente il personale investigativo della
DIA, incaricato di effettuare indagini collegate, di tutti gli
elementi investigativi ed informativi di cui sono venuti
comunque in possesso e di svolgere congiuntamente gli
accertamenti e le attività investigative eventualmente
richiesti.
Sul piano delle analisi la Commissione deve osservare che
sostanzialmente positive sono state le valutazioni espresse
dai responsabilità della DIA e dei Servizi centrali in merito
alla operatività del coordinamento rispetto al quale, anche
durante le missioni compiute nei distretti finora visitati, i
dirigenti locali delle forze dell'ordine non hanno mosso
rilievi negativi.
E' tuttavia rispetto alla linee di una futura politica
del coordinamento delle forze di polizia che si sono delineate
considerazioni e prospettive non sempre collimanti. Alla
esigenza manifestata dal Capo della Polizia di procedere
" ad un ulteriore affinamento dell'azione di raccordo delle
risorse disponibili ", attraverso il consolidamento delle
funzioni attribuite all'Autorità centrale della P.S. ed alla
rispettiva struttura di supporto, (ossia al Dipartimento in
tutte le sue articolazioni tecniche), i Generali comandanti
dell'Arma dei Carabinieri e della Guardia di finanza hanno
espresso l'avviso che l'attuale impianto - avuto riguardo al
livello di articolate attribuzioni funzionali raggiunto -
" conserva ampi margini di manovra per realizzare l'impiego
sinergico delle forze in campo, ove siano applicate
rigorosamente le disposizioni emanate per il suo
funzionamento " (v. nota del Comandante della G.d.F. n.
153902 del 2.5.1995, p. 29 doc. 476). Hanno inoltre rilevato
che debba essere "esclusa l'ipotesi di dar vita ad ulteriori
forme od a nuove strutture di coordinamento" e che "qualora si
volesse comunque modificare il descritto attuale assetto del
coordinamento", andrebbe evitata " l'attribuzione ad un
medesimo organo, il Capo della Polizia, della duplice funzione
di coordinatore (nella sua veste di Direttore generale della
Pubblica sicurezza) e di coordinato (come vertice della
Polizia di Stato) " - (v. nota del Comando generale
dell'Arma dei Carabinieri, II Reparto S.M., protocollato il
2.5.1995. n.478).
3.2 Prospettiva di un rafforzamento
La Commissione non può prescindere dalla constatazione
che, da un lato, la molteplicità delle Forze di polizia
chiamate a compiti di sicurezza e di ordine pubblico,
dall'altro la mancanza di una differente, chiara definizione
delle rispettive competenze, segnatamente per quanto riguarda
le investigazioni preventive in materia di criminalità
Pag. 154
organizzata, con una potenzialità di convergente ma autonoma
azione, rendono indispensabile il ricorso alla funzione del
coordinamento, inteso quale strumento giuridico in grado di
regolare i rapporti tra autorità diverse in posizione di
reciproca parità.
Tuttavia, va salvaguardata l'esigenza che il
coordinamento non venga esteso oltre il perimetro di quanto
deve formarne oggetto, al fine di evitare una surrettizia
attività integratrice delle forze dell'ordine di può ampio
spessore, che rischierebbe di compromettere indirettamente,
nella sostanza, l'autonomia delle forze collegate, rispetto ai
residui settori di competenza diversi da quelli oggetto di
coordinamento legislativo. Si addiverrebbe altrimenti in
pratica ad una unificazione strisciante, obiettivo fors'anche
opportunamente perseguibile, ma con altri mezzi e per altre
vie istituzionali.
Nel rispetto di quest'ultima notazione, secondo la
Commissione - che ha demandato al suo interno ad apposito
gruppo l'approfondimento di tale delicata materia - i punti
cardine di un rafforzamento di tale delicata azione di
raccordo vanno individuati in particolare:
in una sempre più incisiva e meditata ripartizione
delle funzioni di prevenzione per aree, settori di attività e
tipologie di reati da affidare alle singole forze, sia con
riguardo alla evoluzione della dislocazione sul territorio
delle rispettive risorse, sia con riferimento alla natura dei
conseguenti interventi che tali dislocazioni finiranno
prevedibilmente per implicare nei fatti.
nello sviluppo, sempre più completo, tempestivo ed
integrato di una banca dati interforze, che selezioni un'ampia
massa di dati in conformità ad attente analisi, che consentano
di anticipare i nuovi elementi conoscitivi, che, rispetto
all'evoluzione metodologica di intervento, possano presentare
interesse investigativo futuro;
nel più razionale impiego, e non già nell'aumento,
degli organismi deputati al controllo dell'azione di
coordinamento. Quest'ultimo risulta già caratterizzato, sotto
diversi profili che interessano la competenza, da un
consistente numero di strutture, delle quali sarebbe peraltro
auspicabile la complessiva revisione, nell'ottica di una
concentrazione che eviti rischi di dispersione delle energie
complessivamente disponibili.
Nodale sotto questo aspetto si configura il ruolo
affidato dalla legge al Consiglio generale per la lotta alla
criminalità organizzata, in base alle competenze succintamente
sopra ricordate. Di esso va rafforzato in modo particolare e
concreto il compito di "verificare periodicamente i risultati
conseguiti in relazione agli obiettivi strategici delineati e
alle direttive impartite, proponendo, ove occorra, l'adozione
dei provvedimenti atti a rimuovere carenze e disfunzioni e ad
accertare responsabilità e inadempienze" (art. 1.1 lett. e)
D.L. N. 355/91, conv. nella L. 410/91).
Prima di modificare nuovamente il quadro normativo, è
pertanto essenziale, in tale prospettiva, che sia rafforzata
quest'ultima funzione di controllo, per cogliere se siano
state rispettate le diverse attribuzioni, quali le positività
e le negatività; se abbia avuto corso la diversa allocazione
delle forze sul territorio e quali ne siano state le
conseguenze; come si sia sviluppato il rapporto tra i servizi
centrali e la
Pag. 155
D.I.A.; se e in quale misura abbia funzionato la
centralizzazione informatica delle notizie. Del resto non va
dimenticato che la importanza della funzione di verifica è già
stata tempestivamente colta dal Ministro dell'Interno che ha
avvertito l'esigenza di affidare a questo riguardo incarichi
specifici al Capo della Polizia con la già citata
Direttiva.
A fronte di questa impostazione di ordine generale ed ai
risultati dell'azione svolta dagli organi di cui ai punti
predetti, è necessario che la Commissione prosegua
nell'approfondimento, con un'ampiezza di fonti cui non possono
restare estranei gli Uffici requirenti, nella consapevolezza
della valenza del momento operativo, quale parametro di
controllo concreto di incertezze e disfunzioni nell'ambito di
una sinergica azione di contrasto più incisiva della
criminalità organizzata.
Si tratta di una linea di opportunità tanto più
imprescindibile in quanto specifici rilievi critici sono stati
riferiti in modo eloquente alla Commissione da importanti
uffici giudiziari, avendo il Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale di Napoli annotato quanto segue (v. doc.
299 Procura Napoli ): " 4- I rapporti tra le forze
dell'ordine per quanto concerne il coordinamento risultano
senz'altro buoni allorchè ci si muove all'interno delle
indagini delegate - in cui è ormai frequente che nello stesso
procedimento, o addirittura nell'indagine sullo stesso fatto
vengano assegnati compiti specifici, assecondando le
rispettive competenze, alle diverse forze di polizia. Al
contrario, le indagini di iniziativa sono condotte
isolatamente da ciascuna Arma allorchè affrontino temi
investigativi su cui è noto l'interessamento di altre ").
Del resto, a dimostrazione che non si tratti di un fenomeno
isolato, la Commissione fa presente quanto in proposito
osservato anche dal Procuratore della Repubblica di Salerno in
occasione della missione compiuta dalla Commissione il giorno
8 febbraio c.a.: " i rapporti tra le forze dell'ordine in
sede investigativa non sempre consentono un perfetto
coordinamento ", anche se non ha mancato di aggiungere che
" le difficoltà sono in ogni occasione superate senza
detrimento della relativa indagine
(1) V. nota della Procura della Repubblica presso il
Tribunale di Salerno, pervenuta alla Commissione
parlamentare antimafia il 9.2.1995 prot. n.1507.>".
4. Le misure di prevenzione patrimoniali
4.1 Unitamente alle sanzioni penali, le misure di
prevenzione completano il quadro degli strumenti giuridici ai
quali il Legislatore affida la più incisiva azione di
contrasto nei confronti della criminalità organizzata di
stampo mafioso.
A differenza del processo penale, fondato sulla prova, le
misure di prevenzione si muovono nell'area più sfumata del
sospetto e tendono a rimuovere situazioni di potenziale
pericolo con l'adozione di provvedimenti specifici, di natura
personale rispetto a soggetti che, per un complesso di
circostanze individuate dalla legge, appaiono poter
compromettere le esigenze di tutela della collettività. Oltre
che sul piano personale, esse incidono su quello patrimoniale,
essendo prevista la confisca di quei beni in ordine ai quali
la persona sottoposta a misura
Pag. 156
di prevenzione personale ai sensi della legge n. 575 del 1965
e successive modifiche, non fornisca adeguati ragguagli sulla
legittimità della loro provenienza.
E' su quest'ultimo genere di misure di prevenzione che la
Commissione deve richiamare l'attenzione del Governo e del
Parlamento in considerazione del particolare rilievo che tali
strumenti hanno assunto nel quadro dell'azione di contrasto
contro la mafia.
E' infatti facilmente intuibile che in un contesto
investigativo e giudiziario, nel quale le indagini dirette ad
individuare e sottoporre a confisca i proventi illeciti dei
sodalizi criminali nella fase del reinvestimento e dunque del
riciclaggio, segnano risultati non ancora fortemente
significativi per le difficoltà che incontra la relativa
azione soprattutto a livello internazionale e, più in
generale, sotto il profilo probatorio penale, le misure di
prevenzione patrimoniali, per la loro configurazione
giuridica, si pongono attualmente quale co-primario, incisivo
strumento per privare la criminalità organizzata degli
illeciti profitti accumulati.
4.2 Dati a livello nazionale aggregati per grandi aree
geografiche
I risultati conseguiti dalle forze dell'ordine e
dall'autorità giudiziaria attraverso lo strumento delle misure
di prevenzione patrimoniale sono di tutto rispetto in termini
di valore.
Il sequestro di tali beni, momento propedeutico alla
eventuale confisca, ammonta in tutta Italia, negli anni
compresi tra il 1982 ed il 1993, a L.3.918.217.000.000 così
ripartiti: - nel nord Italia: 277.626 (milioni); - nel centro
Italia 222.758 (milioni); - nel sud Italia: 3.417.833
(milioni).
Le confische, nello stesso periodo, ammontano ad un
totale di L.697.760 (milioni), così ripartire nel nord Italia:
82.735 (milioni); - nel centro Italia: 30.272 (milioni); - nel
sud Italia: 584.753 (milioni).
Per contro, i dissequestri ammontano nello stesso periodo
a lire 1.187.631 (milioni), così ripartiti: nel nord Italia:
126.754 (milioni); - nel centro Italia: 16.363 (milioni); -
nel sud Italia: 1.044.514 (milioni);
Nel 1994, i valori sequestrati in base alla legge n.575
del 1965 ammontano in termini di milioni a L.1.782.062, di cui
26.737 al nord, 571.260 al centro e 1.184.065 al sud.; quelli
confiscati assommano, in milioni, a L.107.143, di cui: 6.710
al nord, 10.480 al centro e 89.953 al sud. Nel primo semestre
del 1995, infine, per effetto abbinato della legge n. 575 cit.
e dell'art.12-sexies della L. n.501/1994 sono stati
sequestrati beni per un valore complessivo di 2.374.818
(milioni); quelli confiscati nello stesso periodo ammontano a
L.65.610 (milioni).
4.3 Dati relativi all'anno 1994 aggregati per talune
regioni meridionali
Per quanto concerne l'Italia meridionale ove si è
concentrata la maggior entità in termini di sequestri,
dissequestri e confische, nell'anno 1994, risulta che:
in Calabria, i sequestri ammontano a 61.433 (milioni) e
le confische a L.7.067 (milioni);
Pag. 157
in Campania, i sequestri ammontano a L.47.900 (milioni)
e le confische a L.29.900 (milioni);
in Puglia, i sequestri ammontano a L.59.518 ( milioni)
e le confische a L.19.222 (milioni);
in Sicilia, i sequestri ammontano a L.1.015.214
(milioni) e le confische a L.33.764 (milioni) (v. doc. Min.
int. n.42 e aggiornamento al giugno 1995).
Riepilogando, con riguardo agli ultimi 5 anni, per
effetto della legge n. 575 del 1965 e succ. mod., avuto
riguardo all'intero territorio nazionale, sono stati
sottoposti a vincolo giudiziario beni stimati per i seguenti
ammontari:
anno 1990 beni sequestrati: 76.107.000.000 beni
confiscati: 37.112.000.000
anno 1991 beni sequestrati: 165.612.000.000 beni
confiscati: 56.203.000.000
anno 1992 beni sequestrati: 810.587.000.000 beni
confiscati: 38.895.000.000
anno 1993 beni sequestrati: 886.557.000.000 beni
confiscati: 92.188.000.000
anno 1994 beni sequestrati: 1.782.062.000.000 beni
confiscati: 107.143.000.000
Relativamente a detto quinquennio, tale complesso di beni
ha dunque formato oggetto di confisca per un ammontare,
secondo studi del Ministero dell'Interno, di 331.941.000.000,
anche se le cifre indicate esprimono valori in termini di
stima e, come tali, suscettibili di variare rispetto ai prezzi
commerciali.
Per debito di completezza va inoltre segnalato che i
termini sviluppati non sono in realtà "omogenei", nel senso
che statisticamente essi non raffrontano i risultati
all'interno di ciascuna procedura, ma accomunano, fino ad ora
complessivamente su base annua, i beni sequestrati,
dissequestrati e confiscati senza distinguere tra procedure in
corso e procedure definite; sicchè rispetto ad essi appare
ineludibile per una più chiara lettura l'esigenza di fissarne
con norme regolamentari la raccolta.
La positività comunque dei dati complessivi è di per sè
tale da esonerare da ogni commento, mentre deve essere ancora
focalizzata, nella sua valenza negativa, la ridotta
percentuale che, pure a fronte dell'imponente valore di beni
confiscati, separa questi ultimi dall'ammontare di quelli
sequestrati. Varie possono essere le cause. Fra queste, di
certo, primeggia la stessa complessità dell' oggetto del
processo di prevenzione patrimoniale, soprattutto per quanto
attiene alla individuazione dei beni potenzialmente passibili
di confisca e alla prova della loro appartenenza reale e della
loro provenienza.
E' dal 1982, grazie cioè alla approvazione della legge
denominata Rognoni-La Torre (legge n.646 del 1982) che
l'azione di contrasto delle forze dell'ordine contro la mafia
si è finalmente indirizzata, in maniera molto più penetrante,
all'individuazione ed al sequestro dei patrimoni mafiosi.
Pag. 158
Si è trattato di un passaggio necessario, di grande
significato, il quale però, sul piano gestionale e del
reimpiego dei beni sequestrati e confiscati, ha richiesto
sforzi di adattamento alle strutture pubbliche, e risoluzioni
di tematiche giuridiche, delle quali costituiscono prova le
diverse leggi che si sono via via succedute per operare i
necessari adeguamenti della originaria legge n.575 del
1965.
A prescindere da un'ulteriore verifica della Commissione
in merito alla adeguatezza dell'attuale impianto legislativo,
inteso a contrastare il mantenimento ed il reimpiego di
capitali criminali attraverso il duplice binario rappresentato
dal processo penale e dal processo di prevenzione, è possibile
comunque, sulla base delle indicazioni raccolte e muovendo
dalle conclusioni della precedente Commissione parlamentare
antimafia, individuare taluni aspetti meritevoli di immediato
intervento migliorativo da parte del legislatore.
4.4 Revisione dell'attuale distribuzione delle
competenze
La competenza ad applicare le misure di prevenzione
personali e patrimoniali, ai sensi della legge n. 575 del
1965, è attribuita al tribunale avente sede nella provincia
ove risiede il soggetto nei cui confronti viene formulata la
richiesta, sia ad opera del Procuratore della Repubblica che
del Questore.
Nonostante la legge n. 575 sia diretta principalmente ad
incidere contro soggetti indiziati di appartenenza ad
associazioni di stampo mafioso e sebbene nel 1991 siano state
istituite tanto la Direzione nazionale antimafia quanto le
Direzioni distrettuali antimafia, la normativa in proposito
non è stata rivista nel suo complesso, essendosi il
legislatore limitato ad estendere, con l'art. 24 della legge
n. 356 del 1992, anche al Procuratore nazionale antimafia la
titolarità di richiedere l'applicazione di misure di
prevenzione personale, siccome previsto dalla legge n. 575 del
1965 e succ. mod.
La competenza in siffatta materia è dunque, ancora oggi,
articolata su base provinciale per quanto concerne l'ufficio
del pubblico ministero richiedente e del tribunale incaricato
di decidere. Il raccordo in tema di iniziativa, a livello
centrale, è viceversa assicurato dalla omologa funzione di
iniziativa attribuita al Procuratore nazionale antimafia.
Ove si consideri che con la istituzione delle D.D.A. si
sono venute a concentrare presso gli uffici requirenti, aventi
sede nel capoluogo del distretto, tutte le indagini
preliminari in materia di criminalità di stampo mafioso e - di
conseguenza - le relative preinvestigazioni, appare non
soltanto più logico, ma anche più funzionale, concentrare la
competenza in questione sui tribunali con sede nei capoluoghi
di distretto. Parallelamente, la titolarità di richiedere tali
misure, ferma restando la potestà già riconosciuta a ciascun
Questore, andrebbe riconosciuta, per quanto concerne gli
uffici del P.M., al Procuratore della Repubblica istituito
presso il Tribunale "distrettuale".
In questo modo, sarebbe possibile superare proprie quelle
potenziali disfunzioni, quei diaframmi che, nell'attuale
assetto, possono frapporsi in termini di conoscenza del
fenomeno mafioso tra D.D.A. e Procure ordinarie; osservazioni
circostanziate in tal senso sono state raccolte dalla
Commissione nel corso di varie audizioni di magistrati
Pag. 159
ordinari e distrettuali. In sintesi, poichè l'impostazione
dell'attuale sistema normativo porta in modo convergente, per
quanto concerne l'azione giudiziaria di contrasto alla
criminalità organizzata, all'impianto costituito dalla DNA e
dalle D.D.A., un ampliamento delle competenze funzionali di
queste ultime, anche in materia di misure di prevenzione, ai
sensi della legge n. 575 del 1965 e succ. mod., ne
rafforzerebbe il ruolo, oltre a rendere più agevole, nelle
conoscenze e nei tempi, lo svolgimento di tali
procedimenti.
La stessa competenza in proposito del Procuratore
nazionale antimafia finirebbe per collocarsi in un quadro di
riferimento più chiaro: l'omologa competenza ad esso
attribuita dalla legge in via concorrente con le Procure
ordinarie si potrebbe più agevolmente rapportare a quella
stessa situazione di indirizzo e controllo che, nei limiti
segnati dall'art.371-bis c.p.p., gli è attribuita dalla legge
in materia di reati di mafia.
Peraltro è da osservare che l'art. 24 della legge n. 356
del 1992 ha conferito al Procuratore nazionale antimafia la
competenza di richiedere, nell'ambito della normativa n. 575
citata, l'applicazione, di fatto, delle misure di prevenzione
"personali". Ritiene la Commissione che la mancata
attribuzione all'ufficio citato del potere di avviare gli
accertamenti previsti dall'art. 2-bis della legge n. 575,
necessari ad individuare i beni suscettibili di sequestro e di
confisca nell'ambito della stessa procedura, sia frutto
soltanto di una svista del legislatore; tanto più inspiegabile
in quanto nel Procuratore nazionale antimafia dovrebbero
radicarsi tutte le conoscenze sulla criminalità organizzata e
sulle consistenze dei singoli sodalizi ai fini anche
dell'elaborazione delle strategie contrasto.
Si tratta di una evidente dimenticanza alla quale la
Commissione ritiene che il legislatore debba porre rimedio
estendendo, attraverso una modifica dell'art.2-bis della legge
n. 575, i relativi poteri anche al Procuratore nazionale
antimafia; modifica tanto più urgente e necessaria in quanto i
dati riportati in questo capitolo comprovano l'importanza che
sempre più va assumendo, in termini di risultato contro la
mafia, l'assoggettamento dei capitali criminali al sequestro e
alla confisca.
4.5 La Commissione ritiene utile anche l'indicazione di
un'ulteriore correttivo nel procedimento penale e di
prevenzione, volto ad evitare la perenzione del sequestro dei
beni, conseguente alla morte dell'indagato, dell'imputato o
del proposto.
Ove si verifichi, infatti, la morte di uno di questi
soggetti, i relativi processi si estinguono ed i beni posti
eventualmente sotto sequestro sono resi nella disponibilità
degli eredi. Tale effetto si produce naturalmente anche ove si
tratti di beni passibili di confisca obbligatoria ai sensi
dell'art.416, penultimo comma c.p. e come tali suscettibili di
rientrare nell'ambito di operatività dell'art.12-sexies D.L.
123 del 1994, dal momento che, per giurisprudenza, in caso di
sentenza di proscioglimento o comunque di definizione delle
relative procedure a causa della morte dell'interessato,
possono formare oggetto di confisca obbligatoria soltanto le
cose intrinsecamente criminose; quelle cioè insuscettibili per
loro natura di lecito commercio, uso o detenzione.
Pag. 160
Il sistema presenta così, e la prospettazione è
tutt'altro che meramente ipotetica, se si considera il numero
di omicidi che segna le guerre di "mafia" e la conseguente
definizione con decisioni "processuali" nei confronti di non
pochi indagati e imputati, casi in cui ricchezze criminali
possono sfuggire in maniera, palese, ma del tutto formalmente
legittima all'accertamento giudiziario.
La Commissione auspica che sia possibile al legislatore
intervenire quanto prima al riguardo e propone quale possibile
soluzione normativa un'ampliata applicazione dell'art. 2-ter,
7 comma della legge n. 575 del 1965 e succ. mod. La
disposizione infatti prevede la possibilità dell'avvio di un
procedimento ai soli fini dell'applicazione di misure di
prevenzione patrimoniali e come tale esso potrebbe essere
utilmente praticato, con opportuni adattamenti, anche nei
confronti della curatela o di coloro che, in qualità di eredi,
subentrano nella titolarità dei beni assoggettati a suo tempo
a sequestro perchè, sproporzionati al reddito o all'attività
economica svolta dall'originario titolare o perchè frutto di
attività illecite o loro reimpiego.
Si deve tuttavia conclusivamente osservare che, a
tutt'oggi, permane una rilevante differenza in termini
quantitativi, tra beni originariamente sequestrati e quelli
effettivamente confiscati.
E ciò anche nell'ambito del procedimento penale. A tal
riguardo va sottolineata la scarsa funzionalità, nella sua
applicazione, dell'art. 12 sexies introdotto dal D.L. n. 123
del 1994, per la complessità delle verifiche sulla consistenza
dei soggetti investigati, sia durante l'indagine preliminare,
che nel corso del giudizio.
La lentezza propria di questo provvedimento si rileva
anche dai dati riferiti dal Capo della Polizia: nel 1994, per
effetto dell'art. 12-sexies, sono stati sequestrati beni per
un valore di L.53.976.000, mentre le relative confische sono
state stimate in L.2.004.000.000.
4.6 L'amministrazione e la destinazione dei cespiti
produttivi sequestrati - problematiche relative
La tematica di maggior difficoltà, a fronte
dell'esperienza maturata in questi ultimi anni, è
rappresentata dalla gestione dei beni e delle attività -
soprattutto se costituite da imprese o società - sottratti per
effetto del vincolo giudiziario alla criminalità
organizzata.
L'auspicio di un intervento del legislatore è stato già
formulato nell'ambito di studi elaborati nella specifica
materia dal Ministero dell'Interno (v. doc. Minis. interno
citato) principalmente nella prospettiva di assicurare:
la prosecuzione delle attività produttive delle aziende
in sequestro;
il mantenimento dei livelli occupazionali;
il naturale sviluppo delle realtà economiche locali.
La Commissione comprende le ragioni per cui diffusa e
profonda ormai a tutti i livelli è maturata l'esigenza di
separare - a proposito dell'amministrazione dei beni - la
responsabilità del titolare, soggetto mafioso, dal destino
dell'impresa. Poichè i sequestri e le confische, anche per la
parte relativa alle aziende, hanno interessato soprattutto le
regioni meridionali, ove il tasso di disoccupazione
principalmente
Pag. 161
giovanile, raggiunge livelli spaventosi, sarebbe infatti
veramente improvvida un'azione investigativa e giudiziaria
che, per debellare il reinvestimento produttivo criminoso,
finisse per distruggere la stessa attività attraverso la quale
esso si manifestava, così compromettendo il posto di lavoro
dei dipendenti estranei a qualsiasi, relativa contiguità
delittuosa. E' fondamentale "riconvertire in termini di
legalità" ed agevolare con strumenti normativi ed economici lo
sviluppo di tali imprese, dal momento che, dalla loro
chiusura, potrebbero maturare frustrazioni ingiuste, quando
non atteggiamenti di rancorose reazione contro l'Autorità.
4.7 Il legislatore ha colto la delicatissima esigenza di
assicurare, per quanto possibile, la continuità della gestione
aziendale, anche nei casi in cui sia intervenuto il sequestro
in vista dell'eventuale confisca, introducendo nella legge n.
575 citata (v.art.1 della L. n. 292/89) l'art. 2 sexies, il
quale, tra l'altro, prevede che con il provvedimento con il
quale dispone il sequestro, previsto dagli articoli
precedenti, il tribunale nomina il giudice delegato alla
procedura ed un amministratore, con il compito di provvedere
alla custodia, alla conservazione ed all'amministrazione dei
beni sequestrati, anche nel corso degli eventuali giudizi di
impugnazione, ed incrementare, se possibile, la redditività
dei beni. Nella stessa disposizione si attribuisce al giudice
il potere di autorizzare l'amministratore a farsi coadiuvare,
sotto la sua responsabilità, da tecnici o da altre persone
retribuite.
E' facile cogliere che la disposizione, anche per il modo
con cui ha trovato applicazione, finisce per svilupparsi in
un' ottica di custodia e non già con quel taglio manageriale
che, per ragioni di sopravvivenza, la stessa natura del
bene-impresa richiederebbe. E' dunque di primaria importanza,
da un lato, che la scelta dei "custodi" cada su imprenditori,
docenti di discipline economiche, o manager; dall'altro, che
sia assicurato l'accesso al credito in misura non inferiore a
quella di cui usufruiva in precedenza.
A ciò si aggiunga che, come è stato denunciato dal Capo
della Polizia nel corso di una specifica audizione avanti a
questa Commissione, spesso l'amministrazione temporanea dei
beni sequestrati non riesce ad essere efficace, sia per la
difficoltà di recepire amministratori di adeguate capacità;
sia per la difficoltà di assicurare il reale allontanamento
dei mafiosi e delle influenze mafiose dall'amministrazione dei
beni sequestrati; sia per l'immediata, costante crisi
produttiva e occupazionale nelle imprese sequestrate.
La Commissione legislativa della Camera ha di recente
approvato, un testo unificato della proposta di legge n. 1778
(Di Lello Finuoli ed altri), introduttiva di ampie modifiche
sugli aspetti sopra evidenziati in materia di gestione dei
beni sequestrati e confiscati. Si tratta di un'iniziativa che
incontra, nelle sue linee portanti, il consenso della
Commissione, la quale anzi ne auspica la più rapida,
definitiva approvazione, considerandolo un sicuro strumento
per risolvere le principali problematiche sociali conseguenti
alla gestione dei beni e delle aziende sottratte alla
criminalità organizzata.
Con essa si interviene opportunamente sulla designazione
degli amministratori da scegliere attraverso un criterio che
privilegia la
Pag. 162
competenza giuridica ed economica, legittimando, quando si
tratta di sequestro di aziende, ovviamente da tarare nella
loro individuazione, la possibilità di nominare quanti
svolgono o abbiano svolto funzioni di commissario per
l'amministrazione delle grandi imprese in crisi ai sensi della
cosiddetta "legge Prodi" (D.L. 30 gennaio 1979 n. 26 conv. con
modificazioni, dalla legge 3 aprile 1979 n. 95).
La medesima proposta di legge concerne altresì la
estensione degli interventi straordinari di integrazione
salariale e di collocamento in mobilità, "per ragioni di
sicurezza e di ordine pubblico", ai lavoratori delle aziende
sottoposte a sequestro e confisca ai sensi della legge del 31
maggio 1965 n. 575. La ampliata possibilità di ricorso a
simili forme di "ammortizzatori sociali" rappresenterà la
testimonianza tangibile di un programma strategico dello
Stato, volto ad abbinare all'azione repressiva contro la
criminalità organizzata, la coessenziale, indispensabile
politica di salvaguardia dei posti di lavoro e delle locali
realtà imprenditoriali sottratte alla proprietà mafiosa.
4.8 Particolare attenzione merita la destinazione dei
beni confiscati e del provento della loro liquidazione, che la
proposta citata attribuisce al Ministro delle finanze e dunque
ad autorità apicale amministrativa.
Secondo la legislazione vigente (art. 4 della legge n.
282/89) è rimessa al Prefetto la formulazione delle proposte
di destinazione dei beni dei quali, in esito alla processo di
prevenzione di cui alla legge n. 575 del 1965 e succ. modif.,
sia stata disposta in via definitiva la confisca.
Fra le soluzioni che il Prefetto può adottare, dopo aver
consultato il Comitato provinciale dell'ordine e della
sicurezza pubblica, la legge prevede:
l'utilizzazione demaniale;
il trasferimento a titolo gratuito ad un ente pubblico
per finalità sociali;
la cessione ad imprese a partecipazione pubblica per la
continuità produttiva;
la vendita per un prezzo non inferiore alla stima
dell'U.T.E.
La materia è stata affrontata anche dal Ministero delle
Finanze che il 2 luglio 1993 ha emanato una circolare
esplicativa. Il Consiglio di Stato, allo scopo di evitare che
le vendite dei beni immobili e di quelli costituiti in azienda
con il sistema dei pubblici incanti, siano esposte a possibili
turbative derivanti dal luogo di svolgimento, ha ritenuto
praticabile in data 18 gennaio 1993, il ricorso alla
licitazione privata, invitando a parteciparvi i soggetti
ritenuti affidabili dal Comitato Provinciale dell'ordine e
della sicurezza pubblica, nonchè dall'Intendente di finanza e
dal Sindaco del luogo ove si trovi l'immobile da alienare.
Entrambi gli aspetti accennati formano oggetto della
suddetta proposta di legge (C. n.1778) che, in un quadro
generale di maggiore elasticità, prevede la vendita per i beni
mobili, mentre configura soluzioni più analitiche rispetto a
quelle attualmente vigenti per i beni aziendali e per gli
immobili. Questi ultimi sarebbero mantenuti al patrimonio
Pag. 163
dello Stato o trasferiti, per finalità istituzionali
o sociali, al patrimonio del comune ove l'immobile è sito;
mentre i beni aziendali - ove non affittati o alienati -
dovrebbero formare oggetto di liquidazione. Positivo anche in
questo caso è il giudizio della Commissione sulla soluzione al
vaglio del legislatore.
Da un'analisi delle esperienze maturate in altri Paesi,
potrebbe poi utilmente muoversi per valutare la convenienza di
dare ai proventi di origine delittuosa una destinazione
maggiormente mirata nell'ambito di quelle stesse finalità di
giustizia, di ordine pubblico e di protezione civile, cui la
proposta di legge licenziata dalla Camera espressamente si
richiama. Non soltanto l'ipotesi di una concentrazione, a
tempo indeterminato, di quanto confiscato presso un apposito
fondo centrale, ma anche quella di una sua destinazione per
fronteggiare specifiche spese di investigazione e di giustizia
- come ad esempio, le spese relative ai collaboratori di
giustizia - ovvero oneri di finanziamento o relative garanzie
delle imprese sequestrate o confiscate, esalterebbero la
finalità di rivolgere contro la mafia i suoi stessi illeciti
guadagni.
5. I collaboratori di giustizia
5.1 Sul tema dei collaboratori di giustizia, la
Commissione si è soffermata in particolar modo, procedendo,
attraverso l'audizione di magistrati, investigatori e
rappresentanti degli organismi istituzionali più rilevanti,
all'esame di aspetti di carattere generale, nonchè
all'approfondimento di specifiche tematiche, quali
l'emanazione del decreto interministeriale del 24.11.1994 in
ottemperanza all'art. 103 della legge n. 82 del 1991 e alle
critiche mosse da taluni collaboratori di giustizia sulla
funzionalità del Servizio Centrale di Protezione.
5.2 Sulla base di una diffusa e convalidata esperienza
giudiziaria, la Commissione parlamentare antimafia afferma che
non può assolutamente mettersi in dubbio la fondamentale
importanza del contributo - tanto in termini di conoscenza del
fenomeno, quanto di risultato investigativo e processuale -
che i collaboratori di giustizia hanno apportato, e ancora
oggi apportano, all'azione sviluppata dallo Stato per
contrastare, circoscrivere e infine debellare, tra le altre
manifestazioni di criminalità, la mafia e le associazioni a
delinquere di stampo mafioso.
Si doveva incidere sulla omertà e sulla intimidazione,
quali strutturali connotati di tali sodalizi, che per lunghi
anni hanno prosperato imponendo agli associati, alle vittime e
a quanti direttamente o indirettamente sapevano di essi e dei
loro misfatti, la ferrea regola del silenzio, sanzionando
trasgressioni - come purtroppo è noto - con efferate,
impressionanti, crudeli reazioni.
Si doveva spingere la gente a superare questa paura,
fornendo alla collettività prove concrete che, al di là delle
affermazioni e dei proclami, lo Stato, nei fatti e con le
leggi, aveva deciso di combattere in modo serio e radicale la
mafia ed i fenomeni similari. Si doveva fornire pubblica
contezza che i poteri statali erano davvero in grado di
salvaguardare i beni e l'incolumità di quanti, operando una
scelta di
Pag. 164
legalità, avessero dato un contributo alla magistratura ed
alle Forze dell'ordine, istituzionalmente impegnate su tale
fronte.
Si configurava perciò una duplice esigenza: da una parte
l'introduzione nell'ordinamento di una legislazione che
inducesse forme di collaborazione; dall'altra la necessità di
dimostrare che i competenti organi sono in grado di mantenere
in concreto l'impegno di tutela che si assicura attraverso le
norme.
Operazione, dunque, di particolare delicatezza, rispetto
all'assetto del vigente ordinamento giuridico, ove si
consideri che i relativi strumenti legislativi dovevano
collocarsi in un quadro improntato sia al principio
costituzionale dell'obbligatorietà dell'azione penale, sia al
rispetto di irrinunciabili fondamenti di garanzia processuale
riconosciuti ed acquisiti quale patrimonio di civiltà.
L'anno 1991 ha annoverato il varo di provvedimenti
legislativi cruciali nella lotta contro la criminalità
organizzata.
Viene istituita con il D.L. 29 ottobre 1991 n.345, conv.
con mod. nella legge 30 dicembre 1991 n.400, la Direzione
investigativa antimafia (D.I.A.) con funzioni di polizia di
prevenzione e giudiziaria specificamente nel settore della
criminalità organizzata di stampo mafioso e delle
manifestazioni delittuose alla stessa riconducibili, ivi
compreso il fenomeno delle estorsioni.
Le funzioni di coordinamento e di impulso nel settore
delle indagini giudiziarie relative alle associazioni mafiose
e ai "reati di mafia", vengono affidate ad una nuova struttura
giudiziaria, la Direzione nazionale antimafia, che nasce
temporalmente a distanza di poco meno di un mese dalla D.I.A.
(v. D.L. 20 novembre 1991 n.367, conv. con mod. nella legge 20
gennaio 1992 n.8).
E' di quello stesso anno la legge n.203/1991 in conv. del
D.L. 13 maggio 1991 n.152, che ha introdotto una riduzione
consistente di pena per quanti, imputati, avessero
concretamente aiutato l'azione giudiziaria contro le
associazioni di stampo mafioso ed i reati connessi,
avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis c.p.,
consentendo altresì l'accesso alle misure di espiazione di
pena alternative alla detenzione (semidetenzione, detenzione
domiciliare e affidamento in prova al servizio sociale),
svincolate dai limiti ai quali la loro applicazione è
normalmente subordinata.
E' ancora dello stesso anno la legge n.82/1991, in
conversione del D.L. n.8/1991, con cui si è delineata in
maniera più organica la disciplina giuridica sul piano
processuale ed amministrativo del regime protettivo ed
assistenziale che lo Stato assicura a quanti collaborano con
la giustizia.
In questa situazione il cosiddetto "diritto premiale" non
appare ulteriormente dilatabile, se parametrato al principio
di cui all'art.112 Cost., senza rischiare di violarne il
sostanziale contenuto.
5.3 Il Servizio Centrale di Protezione - il funzionamento
- linee evolutive
All'attuazione dello speciale programma di protezione
provvede il Servizio centrale di protezione appositamente
istituito nell'ambito del Dipartimento della pubblica
sicurezza con decreto del Ministro
Pag. 165
dell'interno, di concerto con il Ministro del tesoro, che ne
stabilisce la dotazione di personale e di mezzi anche in
deroga alle norme vigenti, sentite le amministrazioni
interessate (art. 14, comma 1, del D.L. n 8/1991). Di
conseguenza, il Servizio assolve alla funzione di dar corso
all'aspetto tutorio, sempre ricorrente in ogni speciale
programma di protezione, ed ai contenuti assistenziali che
eventualmente possono essere in esso inclusi.
Si tratta di interventi individualizzati per la intuibile
diversità delle situazioni dei collaboratori di giustizia,
previa indefettibile valutazione della gravità ed attualità
del pericolo connesso al ruolo da essi assunto. La legge
configura due categorie di ordine generale:
misure di protezione adottabili ai sensi delle norme
vigenti al momento della pubblicazione del D.L. 15 gennaio
1991 n.8;
speciali programmi di protezione.
In base all'art. 9 citato, nell'ambito di tali due
configurazioni, possono essere decise anche forme di
assistenza.
I contenuti specifici delle misure di tutela, dello
speciale programma di protezione e delle forme di assistenza
non sono analiticamente definiti dalla legge, che ne ha
delegato la specificazione ad apposito decreto del Ministro
dell'interno da emanare di concerto con il Ministro di grazia
e giustizia, sentito il Comitato nazionale dell'ordine e la
sicurezza pubblica e la Commissione centrale (v. art. 10,
comma 3, del D.L. n.8/1991).
La Commissione, sulla base di doglianze raccolte da
Magistrati e collaboratori di giustizia, ritiene che il
Servizio Centrale di Protezione abbia risentito, in
particolare nell'ultimo anno, di una incompleta adeguatezza
della struttura, dovuta sia al crescendo particolarmente
rapido delle mansioni ad esso demandate dalla legge, dopo lo
scioglimento dell'ufficio dell'Alto commissario, e soprattutto
al progressivo aumento del numero delle persone interessate,
che, alla data del 30 giugno, aveva raggiunto il numero di
5.561, in ragione di 1.059 collaboratori e 4.502 familiari.
In tema di organico, è stato precisato che il relativo
personale ammonta a 191 unità, ma che, per l'attuazione della
funzione tutoria, l'organismo si avvale anche delle forze di
polizia presenti nelle varie province, Polizia di Stato,
Carabinieri e Guardia di Finanza, che, coordinate dal Prefetto
e in sede di Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza
pubblica, hanno l'incarico di attuare i servizi di
protezione.
Sul fronte delle misure di protezione, forma sovente
oggetto di doglianza da parte dei collaboratori di giustizia,
oltre al costume di vedere trasmessa per televisione la loro
immagine, l'impiego di personale in uniforme nello svolgimento
di compiti di controllo, come pure il fatto di essere
scortati, nei frequenti spostamenti, dalle località protette
ai luoghi ove si celebrano i processi, da uomini diversi per
effetto del meccanismo dei turni.
Comunque la contestazione più ricorrente è l'aspetto
economico sotto il profilo delle omissioni, dei ritardi e
della inadeguatezza dei sussidi corrisposti.
Le lungaggini connesse alla coincidenza di giorni festivi
o ad altre difficoltà di ordine svariato, sono state indicate
dal Direttore del
Pag. 166
Servizio centrale di protezione, tra le cause che hanno
provocato qualche ritardo nell'erogazione delle somme che,
materialmente, lo stesso organismo corrisponde mediante
spedizioni coincidenti con i primi giorni del mese attraverso
istituti di credito. Quanto alle residue doglianze, relative
all'aspetto economico ed in particolare al rimborso di spese
varie, il Servizio oppone che, nella valutazione delle
relative istanze, pur tenendosi in debito conto il profilo
assistenziale del programma non può corrispondersi ad ogni
aspettativa, poichè l'amministrazione di fondi pubblici,
automaticamente adeguati con i meccanismi previsti dal
Ministero del tesoro, comporta una gestione improntata a
massima, doverosa oculatezza.
La Commissione è stata informata che sono in fase di
elaborazione i criteri basilari per una revisione
dell'organismo e delle norme che regolano la funzione del
Servizio. Essi consistono, da un lato, nella specializzazione
e nel decentramento delle strutture, dall'altro,
nell'attribuzione più formale di una posizione di terzietà di
chi è addetto alla protezione e all'assistenza dei
collaboratori, rispetto agli organismi con funzioni
investigative, affinchè il personale di questi ultimi non
venga in alcun modo distolto dai compiti istituzionali e di
indagine.
L'impostazione va condivisa, nel presupposto, più volte
sottolineato, che il depauperamento di risorse umane di
organismi investigativi specializzati, può provocare un
indebolimento dell'azione di contrasto contro la criminalità
mafiosa.
L'ulteriore contesazione mossa dai collaboratori di
giustizia, circa le difficoltà incontrate nei reinserirsi in
un nuovo contesto sociale in cui svolgere un'attività
lavorativa e permettere al proprio nucleo familiare una
normale vita di relazione, si ritiene sia stata adeguatamente
superata con il disposto degli artt. 10 e 11 del Regolamento
del 24/11/94 che ha reso operativo il cambiamento di
generalità, previsto dal D.L. 8/94, disciplinando al riguardo
sia il registro di cui all'art. 3 del citato decreto, che
l'autorità designata per le richieste di atti o certificati
relativi alle nuove generalità, in pratica garantendo la
riservatezza negli atti della Pubblica Amministrazione.
6. Le iniziative della Commissione parlamentare antimafia
6.1 Lo sviluppo della tematica concernente i
collaboratori di giustizia ha portato nella seduta del 31
marzo 1995 alla presentazione di un documento di osservazioni
e proposte, sulla base dei rilievi, non sempre tra loro
concordanti, provenienti dai diversi procuratori distrettuali
auditi dalla Commissione.
Sullo stesso argomento, la Commissione parlamentare
antimafia, dopo aver deciso di non passare all'esame della
predetta relazione presentata dal Presidente, approvava nella
seduta del 20 giugno 1995 una risoluzione a firma degli
onorevoli Bargone, Bonsanti, Tripodi, Scozzari, Bertoni,
Stajano, Viale, Scivoletto, Manconi e Grasso, con la quale si
proponeva prioritaiamente che il Ministro dell'Interno,
nell'ambito del suo bilancio, sentenziasse finanziamenti
adeguati alle esigenze del Servizio Centrale di Protezione e
alle urgenti necessità di rafforzamento.
Pag. 167
Si segnalava al Governo inoltre la necessità che nel
regolamento sui collaboratori di giustizia:
fosse eliminata la dichiarazione preventiva diintenti
ed individuata una soluzione che, senza interferire con
l'autonomia dell'autorità giudiziaria, consenta di valutare il
tipo e l'entità della collaborazione;
fossero stabiliti criteri sicuri e precisi circa la
concessione dei benefici al collaboratore, così da offrire a
chi si appresta a collaborare la sicurezza della tutela;
fossero stabiliti criteri non arbitrari nella
valutazione del numero dei familiari dei collaboratori da
sottoporre a protezione;
fosse eliminato il parere obbligatorio
dell'amministrazione penitenziaria per la detenzione
extracarceraria dei collaboratori di giustizia.
Con lo stesso atto, tutte le forze politiche venivano
infine invitate "ad evitare ogni forma pretestuosa di
delegittimazione dei collaboratori di giustizia i quali, al di
là della buona fede dei singoli, creano grandi rischi per la
vita dei collaboratori e di chi li protegge, minano l'azione
delle forze dell'ordine e si traducono in eccezionali vantaggi
per le organizzazioni mafiose".
Alla luce del dibattito svolto in sede di Commissione e
del recentissimo intervento modificativo della sentenza della
Corte costituzionale N. 420 del 1995 possono di seguito
svolgersi alcune osservazioni ed indicazioni.
Per quanto attiene alla cosiddetta dichiarazione di
intenti, si osserva che il D.L. N. 8/91, all'articolo 11 -
commi 2 e 3, stabilisce che la proposta di programma speciale
di protezione, proveniente dal procuratore della Repubblica o
dal Prefetto, deve contenere le notizie e gli elementi
concernenti la gravità e l'attualità del pericolo cui le
persone sono o possono essere esposte per la loro scelta di
collaborare con la giustizia.
Nella proposta devono altresì essere elencate le
eventuali misure di tutela già adottate o fatte adottare,
nonchè i motivi per i quali le stesse sono da ritenersi non
adeguate alle esigenze.
Il parere del Procuratore della Repubblica, previsto
obbligatoriamente quando la proposta non provenga dal suo
ufficio, deve, secondo il 3^ comma del menzionato art. 11,
fare riferimento specifico all'importanza del contributo
offerto o che può essere offerto dall'interessato o dal suo
prossimo congiunto per lo sviluppo delle indagini o per il
giudizio penale.
In quest'ambito, il Regolamento di cui al decreto
interministeriale del 24/11/1994 ha dettagliato una serie di
adempimenti, che hanno subito suscitato varie prese di
posizione contrarie, in tutto o in parte dei Procuratori della
Repubblica, così come emerso dalle audizioni in merito, nella
seduta del 10/1/1995.
Si stabiliva in particolare nel Regolamento che la
proposta doveva includere i principali fatti criminosi sui
quali il soggetto proposto sta rendendo le dichiarazioni;
Pag. 168
le ragioni per cui queste ultime sono ritenute
attendibili ed importanti per le indagini o per il
giudizio;
se risultino elementi che confermino l'attendibilità
delle dichiarazioni acquisite e, nel caso si tratti di
dichiarazioni rese da soggetto appartenente a gruppo
criminale, di quale gruppo si tratti e quale ruolo in esso
ricopra il soggetto proposto (art. 2.1 del Regolamento).
Questi elementi dovevano trasfondersi in un atto
denominato, "verbale delle dichiarazioni preliminari alla
collaborazione", allegato alla proposta, ovvero esposto nel
corpo della proposta medesima, in cui si evidenziava la
volontà del soggetto interessato di collaborare con l'autorità
giudiziaria, e, almeno in forma sommaria, i dati utili alla
ricostruzione dei fatti di maggior gravità ed allarme sociale
di cui fosse a conoscenza, oltrechè alla individuazione e alla
cattura dei loro autori.
Nel caso, invece, in cui il soggetto proposto risultasse
estraneo a gruppi criminali e assumesse rispetto al fatto,
ovvero rispetto ai fatti connessi o collegati, esclusivamente
la qualità di persona offesa, testimone o persona informata
sui fatti, il verbale delle dichiarazioni preliminari veniva
sostituito dal verbale di informazioni ai fini delle
indagini.
La precitata sentenza della Corte costituzionale,
esaminando il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato
sollevato dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale
di Napoli, in ordine al Regolamento emanato con decreto del
Ministro dell'Interno il 24/11/94 ha ritenuto ammissibile il
conflitto. In particolare ha riconosciuto, come da sua
giurisprudenza consolidata (sentenze n.462, 463 e 464 del
1993), la legittimazione del P.M. a sollevare conflitti di
attribuzione tra poteri dello Stato, esclusivamente quando
agisce a difesa del principi costituzionale che rende
obbligatoria l'azione penale, competenza riconosciutagli
dall'articolo 112 Cost. e "in ordine alla quale è fornito di
istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere".
La Consulta, ribadito che l'obbligatorietà dell'azione
penale, di cui all'art. 112 Cost., costituisce "la fonte
essenziale della garanzia dell'indipendenza del pubblico
ministero", ritiene la legittimità dell'art. 2, comma 1 del
Regolamento, laddove stabilisce che nella proposta del
procuratore debbono essere precisati oltre ai principali fatti
criminosi su cui il soggetto sta rendendo dichiarazioni, anche
i motivi per cui esse sono attendibili ed importanti per le
indagini, nonchè gli eventuali riscontri a conferma della
attendibilità.
Non viene infatti in questo caso violato il principio
costituzionale dell'obbligatorietà dell'azione penale;
principio che osserva che osserva la Consulta non preclude al
P.M. di compiere attività non che non siano direttamente
finalizzate all'esercizio dell'azione penale.
Per contro tale disposizione è volta a mettere in
condizione la Commissione Centrale di svolgere al meglio e
tempestivamente il suo compito e quindi di poter decidere
fondatamente se ammettere o meno il proposto al programma
speciale di protezione, fissandone anche contenuti e durata.
"E non c'è dubbio, continua la Consulta, che a tal fine assuma
principale rilievo il dato dell'importanza del contributo
offerto (o che può essere offerto) dal soggetto proposto, di
cui
Pag. 169
ovviamente costituisce aspetto essenziale il requisito
dell'attendibilità delle dichiarazioni rese".
Ritiene inoltre che non sia neppure giustificata la
doglianza relativa alla violazione del segreto investigativo,
dal momento che il destinatario delle notizie e cioè la
Commissione ha l'obbligo del segreto d'ufficio, cosicchè "il
grado di riservatezza ne risulta sì attenuato rispetto al
segreto investigativo, ma non certo annullato".
Ciò nell'ottica di una "cooperazione istituzionale" tra
autorità giudiziaria e l'organismo destinatario delle
informazioni per il perseguimento di una migliore protezione
del collaboratore e "più proficua prosecuzione dell'attività
di indagine".
Va comunque riconosciuto - precisa la Consulta - ai
Procuratori della Repubblica un certo margine di
discrezionalità in merito alla comunicazione di atti coperti
dal segreto; ritiene che tuttavia "eventuali divergenze siano
superate attraverso le opportune intese".
Giudica, invece, la Consulta illegittima la cosiddetta
dichiarazione di intenti, poichè, diversamente da quanto
osservato sopra per la disposizione precedente, quella in
esame (art.2 comma 2 e seguenti) stabilisce l'obbligo del P.M.
di raccogliere in un atto dichiarazioni, con le forme e
modalità previste dal c.p.p. su oggetti prestabiliti
"concernenti fra l'altro il merito di tutti i principali fatti
delittuosi sui quali il soggetto è in grado di riferire".
Tale disposizione costituisce una violazione all'art. 112
Cost., poichè impone al P.M. "il compimento di un atto di
natura investigativa", incidendo così "direttamente
sull'attività di conduzione delle indagini la cui strategia",
"va lasciata - nei limiti, ovviamente, previsti
dall'ordinamento, alla libera valutazione del Procuratore
della Repubblica. Pertanto, conclude la Corte, è necessario
che, ai fini del ripristino dell'integrità delle attribuzioni
costituzionali invocate", la redazione del verbale della
dichiarazione d'intenti "sia rimessa alla discrezionalità del
P.M.", fermo restando quanto osservato in merito al 1 comma
dell'art. 2.
La sentenza della Corte costituzionale ha offerto un
decisivo contributo alla delineazione ed alla delimitazione
delle competenze dell'autorità giudiziaria e della Commissione
centrale, autorità amministrativa, ribadendo fondamentali
principi costituzionali.
Ciò non toglie che comunque sarebbe necessaria una
riformulazione delle disposizioni contenute nel Regolamento,
strumento peraltro inidoneo a regolare una simile materia,
anche sotto altri profili. 6.2 In particolare la Commissione
ritiene che sarebbe opportuna una ridefinizione anche in tema
di individuazione dei criteri di concessione dei benefici e di
relazione dei soggetti da sottoporre a protezione.
Mentre in base all'art. 1- ter del D.L. n.629/1982
la tutela prevista dalla norma era originariamente limitata a
quanti collaboravano "nella lotta contro la mafia, ovvero
avessero reso dichiarazioni nel corso di indagini di polizia o
di procedimenti penali riguardanti fatti riferibili a
organizzazioni e attività criminose di stampo mafioso", tale
categoria di soggetti è stata estesa dall'art. 9 del D.L.
n.8/1991, alle persone "esposte a grave e attuale pericolo per
effetto della loro collaborazione o delle dichiarazioni rese
nel corso delle indagini
Pag. 170
preliminari o del giudizio, relativamente ai delitti previsti
dall'art. 380 del codice di procedura penale".
Per l'ampiezza della definizione legislativa risultano
inclusi tra coloro che collaborano con la giustizia sia "i
testimoni", ai quali corrispondono nella indagine preliminare
le persone informate sui fatti, sia "gli indagati" e gli
"imputati".
La Commissione rileva che, rispetto al tenore dell'art.
1-ter del D.L. n. 629/1982, secondo cui era possibile
estendere le misure protettive soltanto ai prossimi congiunti
del collaborante, l'art. 9, comma 2, del D.L. n.8/1991, ha
dilatato il novero di tali soggetti sancendo che le citate
misure possono essere adottate oltre che nei confronti dei
prossimi congiunti, anche a favore "dei conviventi e di coloro
che sono esposti a grave ed attuale pericolo a causa delle
relazioni che intrattengono con le persone" che collaborano
con la giustizia.
L'ammissione al programma speciale ha dei riflessi assai
consistenti in termini di impegno economico, di strutture
logistiche, di personale delle Forze dell'ordine, di
conseguenze riflesse su un indeterminato numero di uffici
dell'apparato dello Stato, per cui deve convenirsi sulla
esigenza che si operi un effettivo vaglio sulle proposte in
continua crescita, come dimostra il progressivo aumento del
numero dei collaboratori sottoposti a protezione dalla
Commissione centrale nel corso dell'ultimo anno.
Va dunque affermata l'opportunità di un'attenta azione
della Commissione centrale in tal senso selettiva, tanto più
ove si consideri il crescente numero (ormai nell'ordine delle
diverse migliaia) di soggetti da proteggere e le problematiche
che da ciò scaturiscono. A fronte delle quali si manifesta,
una rigidità dell'organico delle Forze dell'ordine disponibili
in un determinato momento, come tali suscettibili di aumento -
a prescindere da altre difficoltà, collegate ad esempio al
relativo incremento di spesa anche per quanto riguarda
l'adeguamento delle dotazioni necessarie - solo con intervalli
temporali assai lunghi quali quelli richiesti per esaurire le
prescritte procedure di concorso.
In questa realtà, proprio l'intento di rafforzare la
pressione investigativa sulle organizzazioni a delinquere di
stampo mafioso, impone alla Commissione parlamentare antimafia
il dovere di richiamare l'attenzione del Parlamento e del
Governo sulla esigenza di una pronta adozione di quegli
strumenti legislativi che, pur mantenendo un complesso di
disposizioni in grado di incentivare, soprattutto sotto il
profilo qualitativo, forme di collaborazione e dunque di
accrescere, con effetto scardinante, le dissociazioni dalle
organizzazioni criminali - come è avvenuto anche nel caso di
sodalizi assai pericolosi, quali "Cosa nostra" - consentano di
operare una selezione più attenta rispetto ai soggetti
destinatari di speciali forme di protezione.
Sulla stessa linea si colloca l'auspicio di una riforma
che, senza privare la normativa attuale dell'elasticità
necessaria a fronteggiare anche casi eccezionali, selezioni in
maniera più aderente alla realtà il novero dei familiari e dei
terzi da proteggere; novero che diversamente, in mancanza cioè
di una più rigorosa impostazione, potrebbe avviarsi, sulla
base di proiezioni ipotetiche di pericolo sempre astrattamente
configurabili, ad una crescente moltiplicazione dai confini
sempre più indefiniti.
Pag. 171
In questa prospettiva, può ipotizzarsi, ad esempio, di
distinguere nell'ambito dei rapporti di parentela, i familiari
più vicini al collaborante (moglie, figli, genitori) o quelli
con lui conviventi, da considerare a rischio nel quadro di una
configurazione di pericolo "presunto", mentre l'estensione del
programma speciale a tutti gli altri parenti ed ai terzi
potrebbe essere subordinata alla comprovata esistenza di
pericolo concreto.
Appare inoltre necessaria una meditata revisione
legislativa nell'ottica di un ragionevole contenimento dei
reati, rispetto ai quali l'ordinamento statuale prevede
speciali programmi di protezione. Si tratterebbe cioè di
estrapolare, fra quelle attualmente previste dall'art. 380
c.p.p.; cui l'art. 9 DL 8/91 fa riferimento, le più gravi
figure delittuose che possono giustificare la disponibilità
dello Stato e dunque della società civile, ad impegnarsi in
misura così onerosamente massiva e con profili giuridici di
chiara natura eccezionale per il conseguimento, in termini di
elevate possibilità, di una rottura, dall'interno e
dall'esterno, dei sodalizi criminali e quindi di una loro
debellazione progressiva e definitiva.
7. L'art. 41-bis, comma 2 dell'ordinamento penitenziario
7.1 Tra le disposizioni restrittive introdotte dopo le
stragi di Capaci e di via D'Amelio, una delle più importanti è
quella di cui all'art.41-bis, 2 comma dell'ordinamento
penitenziario, varata con il D.L. 8.6.1992 n. 306, conv. con
mod. nella legge 7.8.1992 n.356.
L'applicazione di tale norma ha interessato diverse
centinaia di detenuti, individuati come pericolosi, con
procedure basate inizialmente su schede predisposte dalle
Direzioni degli Istituti.
Nel prosieguo, ed ancora oggi, l'art. 41-bis, secondo
comma dell'Ord. Pen., ha finito per essere applicato in modo
analogo all'abrogato art. 90 citato, trasformando l'istituto,
voluto come eccezionale dalla legge, in strumento con
carattere di applicazione continuativa. Di converso, l'art.
14-bis, ossia il regime di sorveglianza speciale, ha finito
per essere attuato nei confronti di un numero assai limitato
di detenuti.
Nell'ambito del programma relativo al controllo sugli
strumenti giuridici deputati al contrasto alle associazioni di
stampo mafioso, la Commissione si è impegnata ad analizzare il
contenuto e le modalità con le quali è stato dato corso a tale
norma fin dall'inizio dei suoi lavori, mentre si svolgeva il
dibattito parlamentare sulla proroga dell'istituto.
Attraverso le notizie acquisite tramite la audizione del
direttore generale del dipartimento dell'amministrazione
penitenziaria nella seduta del 28.10.1994, integrate da quelle
desumibili dalla documentazione fornita dal Ministero di
Grazia e Giustizia, emerge che il regime di cui all'art.
41- bis comma 2 dell'Ord. Pen., venne inizialmente
applicato per la durata di un anno, con più provvedimenti
contestuali nel luglio 1992 a n.367 detenuti, tutti ritenuti
elementi di particolare pericolosità con posizione di
preminenza nell'ambito di organizzazioni criminali e ritenuti
capaci, nonostante la condizione di detenzione, di
Pag. 172
mantenere legami con i sodalizi criminosi di appartenenza, di
controllarne le attività illecite e l'esecuzione di
delitti.
I primi 367 provvedimenti furono emanati, a seguito della
strage di Capaci e nell'immediatezza della strage di Via
D'Amelio, sulla base di segnalazione del Ministro
dell'Interno.
Le numerose richieste di applicazione della disposizione
in esame da parte di varie Autorità giudiziarie, determinava
il Ministro di Grazia e Giustizia successivamente ad emettere
ulteriori decreti, sicchè la sottoposizione al regime speciale
finiva per riguardare, in totale, n.522 detenuti nell'anno
1992 (v. anche il documento denominato "scheda A" prodotto nel
corso della stessa seduta).
In data 15 settembre 1992, con decreto dell'allora
Ministro di Grazia e Giustizia, Claudio Martelli, il Direttore
Generale ed il Vice Direttore Generale del competente
Dipartimento furono delegati all'emissione di provvedimenti ai
sensi dell'art. 41-bis, comma 2^, dell'Ordinamento
penitenziario. Da tale delega scaturì l'emissione, a partire
dal 1^ novembre 1992, di n.7 decreti ministeriali attraverso i
quali il regime speciale venne applicato, su segnalazione
diretta delle Direzioni penitenziarie, complessivamente a
ulteriori n.567 detenuti; elementi tutti inseriti nella
criminalità organizzata, ma con ruoli non di primissimo piano,
per cui nel periodo compreso tra la fine del 1992 e l'inizio
del 1993 il totale dei detenuti sottoposti al regime speciale
previsto dall'art. 41-bis comma 2 dell'Ord. Pen., fu pari a
1.089 unità (522 + 567).
E' stato riferito alla Commissione che tutti i decreti
emessi su delega del Ministro di Grazia e Giustizia,
sostanzialmente a seguito di perplessità relative alla
metodologia di scelta, dopo aver ascoltato le autorità
investigative o giudiziarie competenti, non furono rinnovati a
differenza degli altri, ai quali si sono aggiunti ulteriori
provvedimenti del genere a firma dei Ministri Guardasigilli
succedutisi nel tempo.
La seguente tabella sinottica riepiloga, distinguendo per
anni e per mesi, i dati numerici dei detenuti ai quali è stato
applicato il regime speciale di cui all'art. 41-bis. comma 2
dell'Ord. Pen., con decreto del Ministro di Grazia e
Giustizia:
... (omissis) ...
Secondo l'appunto del D.A.P. - Ufficio detenuti
n.568170/1-1 del 18.10.1994, in virtù di nuovi decreti emanati
negli anni 1993 e 1994 nonchè di quelli rinnovati, si
trovavano, in quel momento, sottoposti al regime speciale in
argomento n.445 detenuti. Il dato in questione veniva
aggiornato, con riferimento al 22 ottobre 1994 per un totale
di 436 detenuti, in base a quanto indicato dal citato
direttore generale il
Pag. 173
quale precisava che sino a quel momento dei soggetti gravati
dal regime speciale di cui all'art. 41- bis 2^ comma
dell'Ord. Pen.131 appartenevano a "Cosa nostra"; 144 alla
"Stidda" ed altre cosche mafiose; 41 alla "'ndrangheta"; 98
alla "Camorra" e 22 alla "Nuova sacra corona unita"; numero
complessivo pari cioè al 5,67 per cento dei 7.688 indagati per
il reato di cui all'art. 416-bis c.p.
Dall'esame degli atti acquisiti nel corso dell'inchiesta,
risulta che i decreti ministeriali, adottati ai sensi
dell'art. 41-bis, comma 2 dell'Ord. Pen., disponevano, in
genere, la sospensione delle regole di trattamento previste
dall'Ordinamento penitenziario ed in particolare delle
disposizioni che disciplinano:
la corrispondenza telefonica (art. 18 dell'Ord.
Pen.);
i colloqui con i terzi (art. 18 dell'Ord. Pen.);
i colloqui con i familiari e conviventi (ammessi in
misura non superiore ad uno al mese e di durata non superiore
ad un'ora);
la ricezione dall'esterno di somme di peculio eccedenti
l'ammontare mensile di cui all'art. 54 D.P.R. n.421/1976 e
l'invio di somme all'esterno, fermo restando il pagamento di
spese inerenti alla difesa legale ed alla corresponsione di
multe ed ammende (art. 25 dell'Ord. Pen.);
la ricezione dall'esterno di pacchi contenenti generi
ed oggetti essendone ammesso solo uno al mese, contenente
abiti, biancheria, ed indumenti intimi, nel rispetto dei
limiti di peso già stabiliti;
la partecipazione ad attività culturali, ricreative,
sportive (artt. 15 e 27 dell'Ord. Pen.);
la nomina e la partecipazione alle rappresentanze dei
detenuti e degli internati (artt. 9, 12, 27 e 31 dell'Ord.
Pen.);
lo svolgimento di attività artigianali per conto
proprio o per conto di terzi (art. 20, comma 8, dell'Ord.
Pen.);
l'acquisto di sopravitto di generi alimentari, ove
richiedano cottura, secondo l'uso comune (art. 9, ultimo
comma, dell'Ord. Pen.);
la permanenza all'aria aperta per oltre due ore
giornaliere (art. 10 dell'Ord. Pen.).
I dati sopra riportati, frutto delle acquisizioni
documentali e delle audizioni disposte dalla Commissione,
venivano integrati dai contributi conoscitivi che diversi
Tribunali di sorveglianza, tra i quali quelli nei cui
distretti insistono gli istituti prescelti (Cuneo, Ascoli
Piceno, Spoleto, l'Asinara e Pianosa), riferivano in base
all'esperienza maturata nei primi anni di applicazione
dell'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario.
La Commissione, a seguito della proroga in data 16.2.1995
del regime di cui all'art.41-bis, 2 comma a tutto il 1999,
intervenuta dopo il deposito della relazione ha ritenuto
superata la problematica oggetto della inchiesta, volta alla
verifica dell'effettivo funzionamento e dei concreti ritorni
di tale normativa. Problematica che comunque ha continuato a
costituire oggetto di preoccupazioni in merito allo
svuotamento della sua effettiva applicazione.
Infatti, nei mesi di febbraio-marzo 1995, la D.A.P. ha
provveduto ad acquisire il parere del Procuratore nazionale
antimafia e del Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale di Palermo, in merito
Pag. 174
alle ragioni che oggettivamente giustificano, nei confronti
di esponenti di associazioni mafiose, le limitazioni
solitamente imposte nei decreti di applicazione del regime di
cui all'art.41- bis suddetto, ma diverse volte ritenute
parzialmente inefficaci da alcuni magistrati di
sorveglianza.
Si è paventata, in sede ministeriale, l'ipotesi infatti
che il recente orientamento affermatosi in sede di
legittimità, lungi dal superare la possibilità di modificare
in sede giudiziaria talune prescrizioni contenute nei decreti
in questione, possa risolversi in una incentivazione alla loro
disapplicazione totale, ove talune restrizioni dovessero
essere ritenute inadeguate alle ragioni dell'istituto in
rapporto al singolo destinatario.
Tali preoccupanti prospettive si assommerebbero a quelle
derivanti dalla intervenuta creazione di una "nuova categoria
giuridica" che in gergo carcerario è venuta qualificandosi
come "art.41-bis attenuato", caratterizzata dalla mancata
previsione nei provvedimenti amministrativi, di restrizioni
sia al regime dei colloqui con i familiari ed i conviventi,
sia alla possibilità di acquisto di generi alimentari da
cuocere nelle singole celle, sia alla durata del c.d.
"passaggio all'aria".
Consta in particolare che toni parimenti allarmanti sono
stati manifestati dal Procuratore nazionale antimafia mediante
trasmissione, nel marzo 1995, al Ministro di grazia e
giustizia di alcune osservazioni sul tema dell'art.41-bis
dell'ordinamento penitenziario, "dettate dalla preoccupazione
che tale applicazione valga a svuotare di effettivo contenuto
la norma".
Invero, i collaboratori dissociatisi da "cosa nostra"
hanno concordemente affermato che uno degli strumenti
maggiormente utilizzati dai detenuti per continuare a gestire
il proprio potere, mantenere i contatti con gli altri
associati e trasmettere ordini e direttive all'esterno del
carcere, ricevere notizie importanti per la loro posizione e
per il mantenimento della stessa, è proprio quello dei
colloqui con i familiari.
In tale prospettazione non può dunque negarsi che,
l'emanazione di provvedimenti della magistratura di
sorveglianza che hanno escluso limitazioni di colloqui con i
familiari in casi particolarmente delicati, suscitando di
riflesso valutazioni allarmate in quegli uffici giudiziari più
impegnati contro la mafia, continui a riproporre - rispetto
all'art.41-bis, 2 comma in esame - una serie di delicatissime
problematiche non superate dalla semplice proroga
dell'istituto.
Si tratta di difetti - denunciati in più sedi oltre che
in provvedimenti giurisdizionali dai competenti organi della
magistratura -ai quali è possibile ovviare solo con precisi,
consistenti modifiche legislative nell'ottica di rendere più
coerenti alcuni aspetti della normativa penitenziaria;
disfunzioni dunque cui non si è ovviato con un provvedimento
di mera natura temporale, quale è appunto la proroga sancita
dalla citata legge n.36.
E' dunque preferibile orientarsi verso una diversa
soluzione normativa che, accanto alle imprescindibili esigenze
di sicurezza della collettività da tutelare rispetto ai
detenuti mafiosi, tenga conto, nella individualizzazione del
relativo trattamento penitenziario, del rispetto di
fondamentali diritti e della stessa finalità che, in termini
di recupero sociale, sono affidati all'espiazione della
pena.
Pag. 175
Con opportune correzioni normative, tale soluzione
potrebbe muoversi nel solco già segnato dal legislatore con
l'introduzione dell'art.4-bis dell'Ord. Pen. a proposito della
esclusione dell'assegnazione al lavoro esterno, dei permessi
premio e delle misure alternative alla detenzione.
Potrebbe così stabilirsi che i condannati per reati di
cui all'art. 4-bis scontino la pena in appositi, selezionati
istituti penitenziari e siano sottoposti, fin dal momento del
loro ingresso per l'esecuzione, o dal momento del passaggio in
giudicato della sentenza, se già ivi ristretti, ad un
trattamento generalizzato riproducente quelle limitazioni
attualmente fissate con i decreti ministeriali emanati ai
sensi dell'art. 41- bis.
Codesta impostazione non presterebbe il fianco a critiche
di iniquità. Non vi è dubbio che ai reati indicati nell'art.
4-bis cit. il legislatore ha guardato già da tempo con seria
preoccupazione adottando, con riguardo a quelli di stampo
mafioso, deroghe normative di elevato spessore.
La nuova impostazione giuridica che si propone si
ancorerebbe così, in maniera logicamente coerente, allo stesso
presupposto indicato dall'art. 4- bis; presupposto che ha
già superato positivamente il vaglio della stessa Corte
costituzionale, la quale, con sentenza n. 306
dell'11.6/8.7.1993, ha ritenuto non fondate le censure al
criterio recepito dalla norma suddetta affermando che dalla
commissione di determinati delitti di criminalità organizzata
può dedursi una presunzione di persistenza dei collegamenti
con questa, salva la dimostrazione della loro rottura come
requisito da aggiungere a quelli già vigenti per l'ammissione
alla misura alternativa alla detenzione.
Sicchè, non dovrebbe stupire che, rispetto alla categoria
di detenuti di cui all'art. 4- bis dell'Ord. Pen., così
come è diverso il regime delle misure alternative, possono
diversificarsi luogo di espiazione e metodi di trattamento,
ossia che questi siano per legge inizialmente diversi da
quelli prescritti per la restante popolazione carceraria. Se i
primi continuano ad essere accompagnati da questo giudizio di
pericolosità "nel prosieguo della detenzione" al punto da non
poter usufruire dei benefici previsti dal citato art. 4 bis,
comma 1, se non nei casi eccezionali in precedenza trattati,
non si vede ragione per cui, sul versante "interno", la stessa
pericolosità non debba avere la stessa considerazione
producendo necessari, paralleli effetti.
Una soluzione normativa del genere non soltanto
rispetterebbe la riserva di legge richiamata dal Giudice
costituzionale, ma supererebbe la problematica aperta dai
tribunali di sorveglianza che hanno ritenuto di modificare i
contenuti dell'atto amministrativo. Fissati per legge i limiti
di trattamento, il gravame, di conseguenza, verrebbe limitato
alla verifica del titolo a base della condanna.
La norma potrebbe poi regolare la stessa congrua durata
delle iniziali limitazioni nei confronti di tali categorie di
soggetti, con previsione di proroghe mediante rinnovi quante
volte, a seguito dell'accertamento compiuto dai competenti
organi dell'amministrazione, previo parere del Consiglio di
disciplina, risulti che il condannato non abbia dato positiva
prova di avviarsi a superare il giudizio di elevata
pericolosità emergente dai suoi delitti; se del caso anche
attraverso la previsione
Pag. 176
sione di forme eventualmente obbligatorie di partecipazione a
programmi di istruzione o ad attività lavorativa,
Si agirebbe altresì, rispetto ai detenuti, nell'ottica di
una duplice prospettiva di risultato sul piano psicologico:
non soltanto il soggetto automaticamente sottoposto ad un
regime di limitazioni potrebbe sentirsi attivamente spinto a
partecipare all'opera di rieducazione (profilo in ogni caso
potenzialmente positivo e comunque aderente alle finalità
della pena), ma la stessa assunzione di una attività
lavorativa all'interno del carcere potrebbe valere a ridurre
il carisma di cui, rispetto agli associati, godono i vertici
di tali criminose organizzazioni.
7.2 Ad una revisione normativa volta a superare le
difficoltà di ordine giuridico incontrate nell'applicazione
dell'art. 41-bis, comma 2 dell'Ord. Pen., dovrebbe abbinarsi
anche la correzione di alcune disposizioni processuali al fine
di attenuare, se non di eliminare, inconvenienti di ordine
pratico derivanti dal sistema giuridico attualmente in
vigore.
E' emersa in maniera diffusa la constatazione che le
traduzioni collettive, consentendo l'incontro tra detenuti,
limitano di fatto l'efficacia del regime speciale introdotto
dall'art. 41-bis dell'Ord. Pen.
La Commissione non può fare effettivamente a meno di
rilevare il carattere solo formale di un rigorismo che limita
il numero di colloqui con i parenti e lo esclude nei confronti
di terzi, dal momento che viene palesemente ed agevolmente
vanificato da contatti con altri detenuti nel corso di
traduzioni collettive, essendo queste ultime possibili
occasioni per lo scambio di notizie e commissioni illecite,
con ampio rischio di incontrollabili riflussi verso
l'esterno.
Le attuali tecnologie "video", sulla base anche di
collaudata esperienza maturata in altri Paesi, quali gli Stati
Uniti d'America, e con opportuno adeguamento normativo
dell'art. 147-bis Disp. Att. al c.p.p., ovvero con la
introduzione di una disposizione ad essa analoga, potrebbero
consentire il collegamento audio-visivo, e dunque la
partecipazione a distanza dei detenuti indicati
dall'art.41-bis, comma 2 in questione, alle udienze avanti ai
Tribunali di Sorveglianza competenti per la trattazione dei
reclami proposti ai sensi dell'art. 14- ter dell'Ord.
Pen.. Tecnologia peraltro estensibile ad ulteriori momenti di
partecipazione processuale di tali soggetti, avanti alle
diverse Autorità giudiziarie, quali la celebrazione di udienze
preliminari o giudizi, a meno che il Giudice non ritenesse
necessaria la presenza fisica dell'interessato.
Il collegamento video ed audio tra il luogo di detenzione
e l'Autorità giudiziaria ordinaria - peraltro già sperimentato
fin dal 1992 sul territorio nazionale con riguardo alla
vigente formulazione dell'art. 147-bis delle disp. att. coord
e trans. al c.p.p. - ha formato oggetto di analitici studi
alla stregua dei quali risultano prospettate varie soluzioni
(2)V. "Video-tecnologie e processo penale - applicazione in
Italia e all'estero, uso nelle indagini preliminari,
collegamenti a distanza, modifiche normative"; di G. Di
Federico, M. Fabbri, D. Carnevali, F. Contini, A. Nicoli.
IRSIG-CNR 1994.
In quanto idoneo ad evitare che i pericoli e le complesse
procedure connesse alla traduzione, esso trova diffusi
consensi all'interno
Pag. 177
dei massimi livelli investigativi. Vale ricordare in
proposito che il Capo della Polizia, nel corso dell'audizione
del 18 luglio 1995, espressamente ha riferito alla Commissione
di aver cercato di sollecitare l'applicazione per quanto
possibile degli interrogatori attraverso il sistema "video"
per evitare la presenza fisica, senza essere assecondato in
ciò da tutti i magistrati e da tutta la classe forense.
Il tema delle traduzioni di detenuti sottoposti al regime
di cui all'art. 41-bis, comma 2 dell'Ord. Pen., in questa
prospettiva, si avvantaggerebbe di una riduzione derivante da
soluzioni tecnologiche come quelle accennate. Oltre a
recuperare ad altri servizi, non meno importanti, buona parte
delle unità di personale impegnata a fronteggiare gli
spostamenti di detenuti sottoposti al regime speciale,
evitando anche i rischi connessi alle loro traduzioni,
verrebbero in tal modo rese maggiormente operative e
credibili, norme come quelle di cui all'art.41-bis, comma 2
citato.
E' intuibile che, ove non fosse praticabile su larga
scala il ricorso in un prossimo futuro, a tecniche di
collegamento audio-visive, nella prospettiva sopra indicata,
gli inconvenienti connessi al modo di determinazione della
competenza dei tribunali di sorveglianza, farebbero sentire
maggiormente il loro peso (rafforzando la prospettazione di
una diversa soluzione legislativa della problematica
connessa), nonostante l'attuale art. 677 c.p.p. sia stato
determinato da una opportunità condivisibile in linea di
principio. Quella cioè - come si legge nella relazione che ha
accompagnato il progetto preliminare al codice di procedura
penale - che sia "il magistrato del luogo di domicilio o
residenza a conoscere e valutare il comportamento
dell'interessato, allo stesso modo in cui è l'organo
giudiziario più ad immediato contatto con l'istituto
penitenziario dove si trova l'interessato" a dover verificare
il suo comportamento carcerario ed i progressivi risultati del
trattamento penitenziario. Alla Commissione, in questo caso,
non resterebbe altro che richiamare l'attenzione del
legislatore sull'opportunità di approfondire le possibili
alternative al vigente art.677 c.p.p.; alternative che, nel
rispetto delle motivazioni di fondo sopra riportate,
andrebbero, comunque, esplorate con particolare cautela onde
evitare, da un lato, di attribuire alla Amministrazione
penitenziaria il potere di scegliere il magistrato di
sorveglianza più gradito attraverso assegnazioni o spostamenti
preordinati; dall'altro, di rendere più complesso di quanto
già non lo sia attualmente il movimento dei detenuti, ove
l'Amministrazione penitenziaria volesse sottrarsi a critiche,
articolate sotto la stessa angolazione, di aver agito in modo
strumentale.
L'istituzione dell'articolo 41-bis ha constituito e in
parte ancora continua a costituire uno strumento di frattura
tra i più pericolosi esponenti di organizzazioni mafiose e la
restante popolazione carceraria, che spesso veniva affiliata
proprio in virtù della codetenzione, nonchè soprattutto
rispetto alla possibilità di una continuativa gestione dei
traffici illeciti, condotta direttamente attraverso scelti
emissari.
A questi effetti, sicuramente positivi, deve essere
aggiunto l'altro, di non inferiore portata, e cioè di aver
costituito uno strumento di incentivazione alla collaborazione
con gli organi inquirenti.
In sostanza, poichè la sottoposizione al regime previsto
dall'art. 41-bis, sancisce una delegittimazione ed un
esautoramento totale degli
Pag. 178
esponenti mafiosi, sul piano pratico ciò si è tradotto nella
caduta del vincolo associativo quale elemento di forza e di
prestigio.
E' perciò importante che, in una immediata prospettiva e
al di là di proroghe temporali che potrebbero a breve
rivelarsi meramente simboliche, si rivitalizzi e si
ridefinisca la struttura normativa portante di questo
istituto.
Pag. 179
CAPITOLO II
MAFIA E POLITICA
1 Premessa
1.1 Nel corso della XI Legislatura la Commissione
Parlamentare Antimafia ebbe ad affrontare la tematica dei
rapporti tra "Mafia e Politica" ed approvò, nella seduta del 6
aprile 1993, la relazione del presidente Violante.
In quella sede, la Commissione (che limitò il suo esame
al fenomeno mafioso siciliano) operò una ricostruzione storica
ed offrì una lettura del processo oggettivo che determinò il
nascere del rapporto della mafia con le istituzioni e la
politica. Rapporto che, per lungo tempo, fu caratterizzato da
relazioni tra "distinte sovranità".
Nella relazione furono indicate le condizioni "oggettive"
che dettero luogo, o meglio favorirono, il processo
dell'evolversi e radicarsi di tale rapporto: condizioni
individuate, a partire dal 1943, nel
bipolarismo dominante nel quadro politico, interno ed
internazionale, sostanzialmente immutato dal dopoguerra alla
caduta dell'Unione Sovietica, e nella cultura separatista
che caratterizzò la realtà regionale rispetto alle
questioni nazionali (sicilianismo).
La Mafia si fece garante della lotta contro il comunismo
ed interpretò lo stato di disagio di cui era portatrice la
cultura separatista. Appoggiò, non per convincimento
ideologico, ma per convenienza e calcolo, la politica dei
partiti di governo aventi interesse al mantenimento dello
status quo. Mise a disposizione del sistema la sua
capacità operativa (il consiglio, l'intimidazione, il broglio
e la violenza) per appoggiare singoli politici nelle campagne
elettorali politiche ed amministrative. Talvolta, si propose
essa stessa come autonomo soggetto politico promuovendo propri
affiliati a rappresentanze elettive ed a guida di enti
pubblici, di enti locali e di regioni.
La commistione di interessi tra le due sovranità
determinò, secondo la relazione dell'Antimafia del 1993,
quel fenomeno di coabitazione che emerse dalle indagini
di polizia giudiziaria, dalle dichiarazioni di molti ed
importanti collaboratori di giustizia, dalle richieste di
autorizzazione a procedere, da atti giudiziari e da processi,
alcuni dei quali ancora non conclusi.
1.2 Oltre alla pregevole opera di comprensione e di
sintesi del fenomeno mafia, la Commissione Antimafia della
scorsa legislatura è pervenuta al rilevante risultato,
operando una decisa distinzione tra responsabilità di natura
penale e responsabilità di natura politica, di non offrire più
comodi spazi di interpretazione sulle responsabilità derivanti
dai rapporti con le organizzazioni mafiose, e di far cadere le
ambiguità di coloro che, negando autonomia alla responsabilità
politica e rinviando ogni giudizio di disvalore all'esito
delle decisioni penali
Pag. 180
(3)Vedasi Relazione Commissione Parlamentare Antimafia XI
legislatura - paragr. 16.
di fatto non gradivano (anche a
prescindere dalla commissione di reati di stampo mafioso) ogni
giudizio di incompatibilità tra funzione e rappresentanza
politica e frequentazioni mafiose.
La necessità di una tale affermazione di responsabilità,
nella quale si ravvisa il punto di arrivo della relazione
della commissione Antimafia del 1993,
(4) Sul punto della
distinzione tra responsabilità penali e politiche, si richiama
anche la relazione sulla Camorra della Commissione
parlamentare antimafia, approvata il 21 dicembre 1993
(paragrafo 20.)
pur sembrando avviarsi ad una maturazione
nella coscienza politica del Paese, tuttavia non può ancora
considerarsi un principio acquisito nell'attuale sistema
politico-istituzionale, per la perdurante inefficacia o
inesistenza di sistemi di controllo diversi da quello penale,
e dagli stessi partiti politici al momento della scelta dei
candidati alle diverse competizioni elettorali. E ciò,
nonostante sia stato più volte riaffermato l'impegno di non
consentire l'ingresso nelle proprie liste di soggetti aventi
precedenti penali o, comunque, sospetti di frequentazioni
mafiose.
(5) Nel corso della X legislatura la Commissione
Parlamentare Antimafia approvò (seduta del 23 gennaio 1991 -
doc. XXIII, n.30) un "codice di autoregolamentazine dei
partiti in materia di designazione dei candidati alle elezioni
politiche ed amministrative". I partiti politici furono
chiamati a dare adesione a tale codice ed, in gran parte, vi
aderirono.
A ciò si aggiunga l'ulteriore rischio, tuttora presente,
che anche candidati, per quanto esenti da pregiudizi penali e
da pregresse frequentazioni con personaggi mafiosi, siano
scelti dagli stessi, in virtù dell'appartenenza ad una forza
politica cui la mafia abbia deciso di dare la sua preferenza,
durante la campagna elettorale, così come è stato rilevato
anche in questa legislatura, o dopo il positivo risultato
elettorale.
1.3 La non più rinviabile soluzione in concreto di un
tale problema, non si ritiene che stia nell'addebitarsi l'un
l'altra forza politica, in modo spesso strumentale e
irresponsabile, l'appoggio di organizzazioni mafiose
nell'esito delle consultazioni elettorali, a meno che non se
ne provino precise volontà, bensì stia nello sforzo effettivo
e comune a tutti i partiti di trovare il superamento delle
reciproche diffidenze politiche nella chiara determinazione,
e, nelle rispettive piene responsabilità politiche, di operare
un pubblico reciproco controllo, durante e dopo le
consultazioni elettorali, sia a livello di soggetti che di
indirizzi politici. Ciò che servirebbe, nella necessaria opera
di risanamento politico, a misurare in concreto la
responsabilità politica di ciascun partito rispetto al
fenomeno mafia, e al tempo stesso a conferire ai partiti
stessi quell'autorevolezza ed efficienza politica che solo può
legittimarli come il primo e più efficace strumento di
contrasto e di debellazione delle organizzazioni mafiose.
1.4 Compito di questa relazione è una attualizzazione del
fenomeno sia alla luce delle significative mutazioni
intervenute nel sistema e nel quadro politico, sia nella
maturazione delle inchieste giudiziarie ed all'avvio di
importanti processi. Nella mutata dimensione politica che ha
aperto la XII legislatura e che ha fatto parlare di Seconda
Pag. 181
Repubblica, cercheranno di cogliersi gli elementi di novità
dell'operare e dell'organizzarsi mafioso nonchè gli elementi
di continuità con il vecchio sistema.
Tuttavia, per offrire all'osservazione del fenomeno
carattere di scientificità e garanzie di oggettività, prima di
analizzare la ricaduta delle novità del sistema elettorale e
del quadro politico nei rapporti tra mafia e politica, appare
necessario procedere ad un excursus degli atti giudiziari più
significativi che interessano, nelle varie regioni, soggetti
già investiti di funzioni politiche.
Ciò anche perchè l'intensa attività di contrasto posta in
essere nel corso della XI Legislatura, attualmente ha spostato
l'attenzione sui problemi della mafia dalla polemica politica
alla ipotesi giudiziarie, in questo aiutata anche dalla caduta
del filtro dell'autorizzazione a procedere frapposto
dalla vecchia formulazione dell'art. 68 Cost., che ha
rimosso gli ostacoli allo sviluppo e talvolta, all'avvio ed al
proseguimento di inchieste giudiziarie su numerosi
parlamentari.
(6)Si riportano le richieste di autorizzazioni
a procedere per i reati di cui agli artt. 416 e 416bis C.P.
relative alla XI legislatura: Camera dei Deputati: onorevoli
CULICCHIA, PRINCIPE, OCCHIPINTI, MAIRA, MISASI, CIRINO
POMICINO, VITO ALFREDO, MASTRANTUONO, D'ANDREAMATTEO,
SBARDELLA NICOLOSI, RUSSO RAFFAELE, ROMEO, CONTE, DEL MESE, DE
LORENZO, CURSI, ASTONE, CAPRIA E DEMITRY-MARTUCCI.
Senato della Repubblica: Senatori RUSSO G., ANDREOTTI,
ZITO, MEO e GAVA.
Il dipanarsi delle inchieste ed il punto di arrivo degli
atti giudiziari costituiranno, pertanto, la base per la più
corretta lettura delle modificazioni intervenute e per
individuare gli elementi di novità ovvero di continuità del
fenomeno.
2. Mafia e politica in Sicilia
2.1 Già nel 1988 la sentenza depositata a conclusione del
primo grado del maxi-processo di Palermo, valutava in ben
180.000 suffragi la forza posseduta dalla mafia in quella
città. Anche a voler prudenzialmente ridimensionare tale
indicazione, si tratta di un dato impressionante che
testimonia drammaticamente la dimensione di un fenomeno che,
seppure ancora oggi non scientificamente misurabile, tuttavia
caratterizza con certezza, fortemente condizionandola, la
politica siciliana.
Le ragioni in virtù delle quali si è reso (e si rende)
possibile il verificarsi del fenomeno, debbono ricercarsi,
rifuggendo per quanto possibile da astratte teorizzazioni,
nella logica di scambio che ha sempre caratterizzato l'operare
mafioso e negli interessi dell'imprenditoria e di alcuni
esponenti politici.
Storicamente, ancor prima dell'unità d'Italia, la mafia
riuscì a legittimare sè stessa (e tale circostanza - secondo
molti autori - ne determinò la nascita) facendosi garante
dell'ordine e della sicurezza del corpo sociale. Si è trattato
di una legittimazione che nel tempo ha creato una sorta di
Stato nello Stato e quel regime di coabitazione di cui
sopra si è fatto cenno.
Peraltro, la convivenza tra le due sovranità era
ben lungi dall'essere incompatibile ma, anzi, era
indispensabile perchè l'enorme massa di profitti
illeciti doveva necessariamente trovare adeguati
investimenti
Pag. 182
nell'economia lecita che, pertanto doveva essere
governata e servire gli interessi mafiosi.
Il progressivo processo di immedesimazione tra fattori
illeciti e settori legali (almeno apparentemente) reso
possibile anche dalla mancanza o inefficienza di un sistema di
controllo preventivo, sia a livello locale che a livello
nazionale, ha potenziato la componente finanziaria
imprenditoriale di Cosa Nostra, che sembra ormai privilegiarla
rispetto alla tradizionale componente militare, che pur
restando operativamente molto forte e attiva, è
prevalentemente strumentale al perseguimento di interessi
affaristici.
2.2 Si assiste, così, anche in Sicilia, attraverso
l'osservazione dei flussi dei capitali ed all'indirizzo dei
finanziamenti pubblici, ad un evolversi dell'operare mafioso,
sempre più impegnato a rendere consistente l'intreccio con la
politica, condizionandola senza, peraltro, rimanerne
condizionato. La realizzazione di tale progetto ha potuto
compiersi grazie alla particolare situazione istituzionale ed
economica dell'isola. Essa non ha conosciuto uno sviluppo
continuativo delle proprie risorse anche in termini di
imprenditorialità, bensì ha usufruito di quarantennali
cospicue erogazioni di denaro pubblico, prive di controlli
nello stanziamento e nella spesa, volti principalmente a
sostegno del reddito delle famiglie che non delle imprese, con
la conseguenza di alimentare progressivamente un terreno
sfavorevole ad uno sviluppo economico-imprenditoriale autonomo
e autosostenuto. I finanziamenti da parte dello Stato hanno
peraltro predeterminato non solo i settori di sviluppo ma
anche i soggetti delegati alla spesa.
(7) Sotto tale profilo
la Commissione ritiene che le ipotesi di federalismo fiscale
sostenute da più forze politiche e che attualmente formano
oggetto di dibattito politico e economico, possano
considerarsi strumento utile per una non effimera azione di
contrasto nei confronti del potere mafioso.
Questa politica di tipo erogatorio e assistenziale,
concretizzatasi nella onnipresenza e pervasività
dell'intervento pubblico nell'economia, ha avuto l'effetto
perverso di incentivare non lo sviluppo della
imprenditorialità economica, capace di stare sul mercato,
bensì della imprenditorialità politica, legata a protezioni di
diversa natura e non ultima quella mafiosa. Ha generato
inoltre un clientelismo sempre più diffuso, e soprattutto ha
costituito l'occasione della ricerca del controllo delle
risorse pubbliche da parte della criminalità organizzata con
il condizionamento della classe politica stessa alimentando
vere e proprie forme di modernizzazione criminale.
Di qui, la grande attenzione della mafia sulla
designazione dei politici, nazionali, regionali e locali. La
gratitudine (ovvero il condizionamento) di costoro costituiva
condizione indispensabile per il controllo dei flussi
finanziari pubblici e per il condizionamento anche della
imprenditoria privata fortemente subordinata alla
imprenditoria pubblica.
2.3 Non si dispone ancora di chiare chiavi di lettura per
comprendere quale sarà la nuova strategia della mafia in
corrispondenza della nuova situazione economica che ha visto,
unitamente alla soppressione dell'intervento straordinario nel
Mezzogiorno, il blocco delle
Pag. 183
opere pubbliche, la compressione della spesa relativa agli
enti locali, il maggior controllo sull'operato degli
amministratori pubblici.
La sussistenza di enormi capitali provenienti da attività
illecite e la necessità del loro collocamento fanno presumere
che la mafia si stia attualmente attrezzando per la conquista
di nuovi mercati. I riscontri (anche giudiziari) già
registrati nel campo delle risorse comunitarie (frodi alla
CEE), il collocamento di capitali in holding internazionali ed
in paradisi fiscali, danno contezza del dinamismo dell'impresa
mafiosa. L'ampio programma di privatizzazioni varato dagli
ultimi governi, in aderenza alla politica economica europea,
potrebbe far temere che esso costituisca per la mafia un
ulteriore occasione di impossessamento e controllo di
importanti settori economici e di servizi. E' tuttavia da
rilevare, come sarà approfondito in altra parte della
relazione, che sono state emanate disposizioni normative,
delibere e direttive degli organi di vigilanza e del Ministro
del Tesoro che, in materia di privatizzazioni e controllo
degli assetti proprietari delle banche, prevedono una serie di
cautele e presidi, che seppure non possono eliminare in
assoluto il pericolo prospettato, tuttavia costituiscono uno
strumento ritenuto allo stato valido a scongiurare il rischio
di infiltrazioni criminali.
D'altra parte il ricorso alle privatizzazioni, ove siano
posti in atto tutti i controlli previsti e comunque
perfezionabili, ha l'effetto positivo di rafforzare le
istituzioni dell'economia di mercato, e di portare ad una
forte riduzione dei condizionamenti dei partiti nell'economia,
causa questa di una corruzione generalizzata e sistematica e
in particolare al sud di un intrico di interessi tra
pseudo-imprenditori, politici e organizzazioni mafiose.
Oggi, più che mai, per il processo e il grado di
"modernizzazione" cui è pervenuta, la mafia, dunque,
rappresenta non solo più un problema di ordine pubblico, ma
soprattutto un problema politico che deve portare, al
coinvolgimento di tutti i settori della vita
politico-istituzionale ed economica del paese in una positiva
strategia di contrasto.
2.4 E' indubbio che l'evoluzione del fenomeno mafioso ed
i risultati conseguiti nella attività di contrasto e,
soprattutto, il nuovo assetto politico hanno costretto la
mafia a ricercare nuovi referenti politici.
Da un lato, infatti, la cattura di latitanti storici, la
confisca di numerosi e cospicui patrimoni mafiosi, la messa a
punto di tecniche d'indagine sempre più sofisticate sia
nell'azione sul territorio, sia nell'utilizzo dei dati
informativi; il coordinamento delle investigazioni tra i vari
livelli di polizia giudiziaria e tra procure distrettuali,
hanno finito per svolgere una azione moltiplicatrice degli
effetti positivi derivanti dall'utilizzazione delle
informazioni provenienti dai collaboratori di giustizia.
Si ritiene, da parte degli organi inquirenti che ciò
abbia determinato la necessità, per le organizzazioni
criminali, di approntare al proprio interno misure deterrenti
e preventive atte a tutelare l'ambito di riservatezza dei
propri appartenenti, in particolare sviluppando una attività
di maggiore compartimentazione che serva ad assicurare
l'inaccessibilità alle nuove investigazioni.
Pag. 184
All'esterno si sono ricercate nuovi bersagli nel
sociale abbandonando la strategia stragista del biennio
1992/1993, carica di terrorismo e di simbologia, e colpendo
invece soggetti impegnati a combattere la mafia non più solo
sul terreno giudiziario ed investigativo, ma sul terreno del
consenso sociale (sacerdoti, amministratori, esponenti della
società civile).
Un elemento di trasformazione si ritiene debba essere
registrato anche nella leadership delle varie cosche i cui
capi, messi fuori causa dai successi delle forze dell'ordine e
da una sanguinosa conflittualità tra bande rivali sono stati
sostituiti da altri capi.
(8) Una interessante ipotesi su
questo tema è stata formulata dal procuratore aggiunto della
Repubblica di Caltanissetta secondo il quale i figli degli
uomini d'onore appartenenti alle cosche cd.perdenti (gli
scappati), divenuti in grado di contrastare, avrebbero
innescato una sorta di rivalsa nei confronti dei discendenti
delle cosche dei vincenti. Di qui la possibilità che elementi
emergenti delle cosche palermitane (come ad esempio, Pietro
Aglieri) stiano portando a termine una scalata all'interno
dell'organizzazione fino a subentrare ai Corleonesi.
Con l'eliminazione di Salvo Lima e la caduta dei
tradizionali referenti politici e la disgregazione dei partiti
politici contigui, la mafia è costretta ad una rinegoziazione
degli interessi su basi diverse da quelle del passato e,
poichè la situazione politica rappresenta elementi di minore
certezza che nel passato, la stessa organizzazione mafiosa
sembra non possedere ancora tutte le chiavi di lettura per
governare con certezza la nuova fase storica. Più che al mondo
della politica, sembra che, in questa fase, l'attenzione della
mafia si rivolga sempre di più al mondo dell'economia, della
finanza, nel quale mantiene ancora immutati referenti.
2.5 La lettura dei più significativi atti
giudiziari.
Facendo più specifico riferimento, per i fini che
interessano la Commissione, ai procedimenti penali più
significativi, iniziati nel corso della precedente legislatura
o nella presente, emerge quanto meno a livello di
responsabilità politica, il coinvolgimento con la mafia di
esponenti politici che avevano ricoperto anche rilevanti
incarichi di Governo.
I casi di coinvolgimento giudiziario di esponenti
politici seppure a diverso livello e con imputazioni di
connotazioni giuridiche differenti riguardano l'ex Presidente
del Consiglio Giulio ANDREOTTI, l'ex ministro Calogero
Mannino, l'ex ministro della difesa Salvo ANDO', l'ex senatore
Santi RAPISARDA, l'ex deputato Luigi GRILLO, l'ex deputato
repubblicano Aristide GUNNELLA, gli ex MAILA e OCCHIPINTI,
alcuni componenti della Assemblea Regionale Siciliana.
a) Gli sviluppi delle inchieste sull'ex
presidente del Consiglio Giulio Andreotti.
Nel corso di quest'anno il GIP presso il Tribunale di
Palermo ha disposto il rinvio a giudizio del Sen. Andreotti
per rispondere del delitto di partecipazione ad associazione
di stampo mafioso con riferimento ad attribuite collusioni con
i vertici di "cosa nostra".
E' di questi ultimi tempi anche la richiesta di rinvio a
giudizio formulata dal P.M. presso il Tribunale di Perugia a
carico, tra gli altri,
Pag. 185
dello stesso Sen. Andreotti, accusato di correità
nell'omicidio di Carmine Pecorelli, su uno sfondo nel quale si
intrecciano moventi, in chiave criminale, di natura politica
ed economica.
I due processi, pur giuridicamente autonomi (l'uno,
quello di Palermo: avente ad oggetto reato "di mafia",
l'altro, quello di Perugia - relativo a delitto "della
mafia"), ma legati dalla comune qualità "mafiosa" di buona
parte dei personaggi coinvolti, si presentano particolarmente
impegnativi, oltre che per l'estrema delicatezza dei temi in
trattazione, anche per il riferimento a fatti delittuosi
lontani nel tempo, che hanno sconvolto all'epoca l'opinione
pubblica, quali il sequestro e l'omicidio dell'On. Aldo Moro e
l'omicidio del Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa.
In particolare l'accusa della quale deve rispondere
avanti al Tribunale di Palermo l'uomo politico - che negli
ultimi 20 anni ha rappresentato l'Italia ai massimi vertici
governativi, essendo sufficiente ricordare che per ben 7 volte
è stato Presidente del Consiglio dei Ministri - è articolata
con riferimento all'azione spiegata nella sua qualità sia di
statista che di uomo politico al vertice della Democrazia
Cristiana ed investe l'uso del potere e della influenza che
egli, sulla base di tale duplice caratura, avrebbe esercitato
per rafforzare ed espandere l'associazione mafiosa in
questione.
A prescindere da ogni profilo di responsabilità penale
del Sen. Andreotti e dalle soluzioni processuali. che i fatti
contestatigli possano avere, bensì sul presupposto, di pari
rilievo, dei gravi interrogativi che, a livello politico
nazionale ed internazionale, sono stati sollevati, è urgente
che un'adeguata risposta politica ad essi provenga dall'unica
sede a ciò istituzionalmente deputata e cioè il Parlamento.
Ciò anche come conferma dell'indirizzo che si intende seguire
in merito alla reciproca infungibilità della responsabilità
penale e di quella politica, così da restituire anche alle
rispettive sedi naturali lo svolgimento, a ciascuna, dei
propri compiti istituzionali.
Peraltro l'analisi e la risposta politica non avrebbero
solo il merito ed il valore, già di per sè fondamentale, della
retrospettiva, di capire cioè, nella rilettura organica ed
integrata di numerosi fattori interni ed esteri, il contesto
politico ed economico nel quale si è reso possibile alla mafia
di divenire arbitro delle più importanti decisioni, nei
diversi settori interessanti la vita di tutta la Nazione,
attraverso il rappresentante del vertice dello Stato stesso e
leader per molti anni indiscusso di quello che era il primo
partito italiano.
Un ragionato esame di tal genere avrebbe, invero, altresì
il valore della prospettiva: di evitare cioè il rischio
virulento ed insidioso del permanere inalterato dei meccanismi
che a quel sistema dettero vita ed alimento, e quindi di una
sua possibile perpetuazione.
b) L'ex ministro Calogero Mannino.
Altra vicenda giudiziaria che pure ha una grande
risonanza pubblica è quella dell'ex ministro Calogero MANNINO,
già esponente dell'importante corrente della DC in Sicilia e
Segretario regionale del partito, e membro del Consiglio
Nazionale nonchè in ultimo Ministro per gli interventi
straordinari nel Mezzogiorno nel Governo Andreotti. Nei suoi
confronti è stato chiesto, il 6/9/1995 il rinvio a giudizio
per il
Pag. 186
reato di concorso in associazione di tipo mafioso, delitto
per il quale nel febbraio del '95 è stato raggiunto da un
provvedimento di custodia cautelare. In particolare viene
contestato a Mannino, sulla base delle dichiarazioni di un
medico ex esponente politico palermitano, Gioacchino PENNINO
di essere stato al centro di un "comitato di affari" che agiva
condizionando l'attività amministrativa del territorio
compreso tra Ciaculli, Brancaccio, Croceverde e Giardini.
c) L'ex ministro della Difesa Salvo Andò.
Nei primi giorni di agosto del '95 hanno ricevuto un
avviso di garanzia per concorso in associazione di stampo
mafioso l'ex ministro della Difesa socialista Salvo Andò, e il
deputato regionale Giorgio Campione, ex presidente DC della
Regione Sicilia. L'ipotesi di reato è stata formulata dalla
DDA di Reggio Calabria nel corso dell'indagine su alcuni
magistrati di Messina, tra cui l'ex presidente della Corte
d'Assise d'appello Giuseppe Recupero. La contestazione
riguarda il presunto intervento dei predetti, secondo le
dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, nell'iter
del procedimento conclusosi con sentenza di assoluzione degli
imputati, tra i quali i componenti della Commissione di Cosa
Nostra Michele e Salvatore Greco, già condannati per
l'attentato mortale al Consigliere Istruttore di Palermo Rocco
Chinnici (29 luglio 1983). Oltre ai due capimafia, tra gli
assolti in appello vi furono due affiliati a Cosa Nostra, tali
Vincenzo Rabito e Pietro Scarpisi.
L'iter del procedimento conobbe invero diverse fasi tra
loro contrastanti.
La vicenda del processo per la strage Chinnici, istruito
dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta in tempi
rapidi, si concluse in primo grado con sentenza di condanna
all'ergastolo per i Greco e a quindici anni di reclusione gli
altri imputati. La condanna venne poi confermata in secondo
grado di giudizio, ma la Cassazione annullò la sentenza per
vizio di forma rinviando gli atti alla Corte d'assise
d'appello di Catania. Anche la nuova sede confermò il verdetto
e, di nuovo, la Cassazione lo annullò, per difetto di
motivazione. Il procedimento si concluse infine a Messina, con
l'assoluzione di tutti.
(9) Nella Relazione sui rapporti tra
mafia e politica, la Commissione parlamentare Antimafia nella
XI Legislatura ricorda, tra l'altro le vicende in questione:
"Gli sono state contestate (al Dottor Carnevale, ndr.) non
valutazioni interpretative, che sono insindacabili, ma gravi
errori di fatto che si sono risolti in vantaggi di rilievo per
i mafiosi. Tra gli allegati della comunicazione del CSM si
enucleano elementi specificamente relativi a gravi processi di
mafia:
(...) h) "procedimento penale di cui poi alla sentenza
n.1942 del 3.6.1986 (ricorr. Greco Michele ed altri: erronea
individuazione del decisivo orario del fatto-reato)".
d) Le indagini sul commercialista Giuseppe
Mandalari.
Come si è sopra accennato, il primo caso di tentativo
della mafia di influenzare il contesto politico nella XII
legislatura del Parlamento repubblicano viene descritto
nell'ordinanza di custodia cautelare a carico di Giuseppe
Mandalari e della consorte Maria Concetta Imbraguglia.
L'inchiesta fornisce un esempio paradigmatico di quella
specificità della criminalità mafiosa - la costante ricerca di
collegamenti con le istituzioni e l'azione sistematica di
infiltrazione nel mondo politico
Pag. 187
- che è stata messa a fuoco sin dagli anni Sessanta dalle
commissioni parlamentari Antimafia.
Per converso, l'analisi delle modalità, per l'appunto
riattualizzate nel "caso Mandalari", può suggerire linee
efficaci di difesa delle istituzioni, nonchè di autotutela
delle forze politiche dai reiterati tentativi di interferire
nella loro vita democratica interna. Gli atti esaminati e i
materiali delle sedute svolte dalla commissione in questa
legislatura contengono, a tale proposito, spunti di
riflessione di notevole interesse, sia ai fini della
conoscenza che della proposta.
In quest'ultimo senso è utile accennare, sia pure en
passant, al codice di autoregolamentazione proposto nella X
Legislatura dalla Commissione Antimafia presieduta dal Sen.
Chiaromonte, e sottoscritto da tutti i partiti. Quel codice
(di cui la Commissione stessa verificò e denunciò nel 1992 i
casi di violazione) venne concepito quando era in vigore il
sistema proporzionale con possibilità di espressione di più
preferenze. Con il passaggio al maggioritario e con la
limitazione, nei casi di sussistenza del "proporzionale", a
una sola preferenza, è oggi possibile introdurre dispositivi
più efficaci.
La vicenda Mandalari permette di formulare delle ipotesi
di interpretazione su come possano configurarsi oggi gli
interessi mafiosi laddove sono alla ricerca di una proiezione
elettoralistica. In passato, quando sono emersi elementi
dell'indirizzarsi del controllo elettorale della mafia verso
vari destinatari spesso consapevoli, prevalentemente partiti
di governo (non per un solo partito nè per tutto un partito),
si sono creati degli sbarramenti che hanno ritardato la
predisposizione di valide modalità di difesa della libera
volontà degli elettori.
Tutto questo avveniva per esponenti politici di varie
formazione e di opposta collocazione, nel corso di varie
elezioni, sia politiche, sia amministrative, sia europee. In
questo senso, la dimensione territoriale dell'attività di
drenaggio del consenso elettorale si ritrovava nelle pur
differenti occasioni di rinnovo di organismi democratici, sia
a carattere locale che nazionale.
Nel 1992 - anno che può considerarsi uno spartiacque
storico - si è avuta l'interruzione traumatica dei
tradizionali rapporti, per il venir meno del ruolo del ceto
politico di riferimento, così come delineato nella relazione
su mafia e politica approvata dalla Commissione Antimafia
nella XI Legislatura.
Quindi il caso Mandalari fornisce delle direttrici di
analisi sulla tendenza a ricostituire dei canali di
collegamento tra la mafia e gli ambienti politici nella nuova
congiuntura storica.
Dalle intercettazioni telefoniche e ambientali, disposte
dalla DDA di Palermo sulle utenze e domicili in uso a
Mandalari, con inizio anteriore alle elezioni politiche del
27/3/1994 e cessazione successiva alle elezioni europee,
emerge un "attivismo politico" (così definito nell'ordinanza
di custodia cautelare) del medesimo soprattutto verso la nuova
formazione politica "Forza Italia", nel corso della campagna
elettorale per le elezioni politiche e in particolare contatti
telefonici personali con il Sen. Filiberto Scalone di Alleanza
Nazionale, con il Sen. Michele Fierotti, candidato nelle liste
di Forza Italia, e la ricerca di accreditarsi con il Sen.
Enrico LA LOGGIA, e l'on. Silvio Liotta, entrambi eletti nelle
liste di Forza Italia, con i quali tuttavia non sono
Pag. 188
emersi colloqui diretti. La Commissione ha dedicato un ampio
spazio all'esame di questi fatti, svolgendo anche audizioni
dei sopracitati parlamentari, che pure le avevano sollecitate,
e concludendo con una prima relazione, già depositata ed una
successiva in corso di elaborazione definitiva, alle quali si
rinvia per il dettaglio delle dichiarazioni rese e delle
considerazioni svolte.
Preme, invece, rilevare che, pur nella insussistenza di
ipotesi di natura penale per i parlamentari sopra indicati, il
fatto certamente impone un'attenta riflessione.
Consapevoli come ormai siamo, che un tale sistema va ad
incidere negativamente sul grado di consistenza della nostra
democrazia, occorre che ciascuna forza politica affronti anche
al proprio interno, prescindendo dalla teorica del sospetto,
ma con senso di responsabilità e senza falsi pudori e timori
di criminalizzazioni indiscriminate e strumentali, la
problematica mai cessata, del rischio delle infiltrazioni
mafiose, quale limitazione e delegittimazione della propria
azione e rappresentatività politica.
3. 'Ndrangheta e politica in Calabria
3.1 E' necessario soffermarsi sulla struttura e sulla
evoluzione della 'ndrangheta, la cui più approfondita
conoscenza emerge dalle complesse indagini di Forze
dell'ordine e Magistratura, in particolare le più recenti,
"Olimpia" e "Galassia", rispettivamente della DDA di Catanzaro
e della DDA di Reggio Calabria, per comprendere la capacità di
controllo di ogni attività, anche politica oltre che
economica, del territorio, esercitata da tale organizzazione
criminale.
La peculiarità che la caratterizza e la rende
particolarmente chiusa ad infiltrazioni, minacce esterne ivi
comprese le cosche rivali, e cedimenti interni, è la struttura
parentale, basata soprattutto sul vincolo di sangue e radicata
in un circoscritto territorio.
La 'ndrangheta si organizza in una struttura gerarchica
articolata per gradi, costituenti un cursus honorum di tipo
criminale, che vengono attribuiti nel corso di cerimonie
rituali, aventi lo scopo non solo di solennizzare la
promozione dell'affiliato nella gerarchia 'ndranghetista, ma
anche di rendere tangibile la crescita del suo potere
personale riconosciutogli dall'organizzazione e che egli deve
mettere a servizio della stessa per la sua espansione.
A cursus honorum concluso con la scalata ai vertici
dell'organizzazione, lo aendranghetista è un pericoloso
antagonista dello Stato di diritto: ha codici alternativi,
controllo territoriale, affiliati, dominio, e una struttura
armata.
Il primo e più basso scalino della gerarchia è
rappresentato dal grado di "picciotto", il secondo grado
"camorrista", da questo si passa al grado di "sgarrista" o
"terzo".
Il gradino successivo è quello di "santista", posizione
strategica nella gerarchia criminale. La Santa viene infatti
conferita a personaggi di sicuro rilievo criminale, in quanto
il Santista può battezzare nuovi affiliati e può aprire nuovi
Locali anche in altri territori. E' cioè il motore
dell'espansione territoriale della 'ndrangheta, in quanto
individua
Pag. 189
località e uomini che, a suo giudizio insindacabile, offrono
prospettive di insediamento e radicamento di quella
organizzazione.
Ulteriore gradino è "il vangelo".
3.2 Proprio a livello di vertice la 'ndrangheta è
collegata con la massoneria e sul punto le notizie sono
precise, avendo il Gaetano Costa, con dichiarazioni rese ai
magistrati di Reggio Calabria e di Palermo, riferito che
soltanto chi raggiungeva il grado di "santista" poteva entrare
a far parte della massoneria. In ciò, secondo il Costa,
consisteva la regola segreta della "santa"; principio
trasmesso oralmente ai destinatari della "santa qualificata"
secondo una specifica formula espressa in termini che, nel
confermare l'autonomia reciproca tra le due organizzazioni,
implicava un'anticipata promessa di adesione e di aiuto, ove
richiesti, alla "famiglia del sacro ordine dei muratori".
L'intreccio ramificato, profondo e pesante dei rapporti
tra la 'ndrangheta e la massoneria dettato, in modo
particolare, dagli interessi illegali delle cosche di
acquisire e gestire le commesse relative ad opere pubbliche,
ha trovato specificazioni anche nelle dichiarazioni del Lauro,
prodigo di indicazioni non vaghe, ma specifiche, come quando
forniva i nomi di Cosimo Zaccone, preside dell'Istituto
magistrale, di Tommaso Gulli e di Pasqualino Modafferi,
asserito consigliere delle cosche associatesi ai De
Stefano, includendoli tra i massoni più importanti che negli
anni del quinto centro siderurgico di Gioia Tauro avevano
aiutato la mafia a Reggio ed in provincia.
Anche l'attribuzione da parte dello stesso Lauro al
notaio Marrapodi Pietro di Reggio Calabria della qualifica di
appartenente alla massoneria, conferma l'esistenza di oscuri,
diffusi, preoccupanti legami con la 'ndrangheta, dando pieno
titolo alla esigenza che si approfondiscano le indagini sui
rapporti intercorsi tra la massoneria e le cosche. Tanto più
che la recente adozione contro il Marrapodi di una misura
cautelare da parte del G.I.P. del Tribunale di Reggio Calabria
proprio per essere stato organicamente inserito nel clan
facente capo al De Stefano (per conto del quale, oltre al
supporto legale fornito per le vendite compiute dalla società
EDILINVEST, si assume che egli abbia compiuto, tramite la
società I.M.M., attività nel settore edilizio finalizzata al
riciclaggio di denaro della cosca), rafforza la sostanza dei
riferimenti a siffatte forme di oscuri illeciti connubi.
Sotto tale angolazione, delineano una situazione vieppiù
grave e di vaste dimensioni, in parte ancora inesplorate, gli
atti degli Uffici giudiziari di Reggio Calabria secondo i
quali la storia politico-affaristica-criminale della provincia
reggina si sarebbe sviluppata attraverso una subalternità
della 'ndrangheta alla massoneria la quale ne avrebbe ricavato
un utile diretto percentualizzato agli affari mediati per
conto della prima, in virtù di una forte presenza di suoi
adepti nelle istituzioni, tra i politici, gli imprenditori, i
magistrati e gli appartenenti alle forze dell'ordine.
Fino a quale punto si fosse spinto il grado di
inquinamento derivante da simili collegamenti è agevole
cogliere allorchè si indica che entrarono a far parte della
famiglia massonica personaggi tra i quali Paolo De Stefano,
Giuseppe e Francesco Nirta, Antonio Mammoliti,
Pag. 190
Natale Iamonte o quando si rivela che vennero progettate le
candidature alle elezioni comunali di Reggio Calabria
dell'avv. Giorgio De Stefano, cugino dell'omonimo Paolo e
Pietro Araniti, cugini di Santo Araniti ovvero ancora che
vennero fatte pressioni sul senatore Nello Vincelli (D.C.) per
candidare alle elezioni politiche Vico Ligato, vicino alla
famiglia Di Stefano, mentre magistrati, la cui iscrizione
rimaneva occulta o erano rappresentati da altri "fratelli"
regolarmente iscritti alle logge di Reggio Calabria e di
Roccella Ionica, assumevano un ruolo di garanzia nella
gestione dei vasti interessi economici prima descritti.
3.3 Attesa l'esigenza di rafforzare la credibilità e la
forza dell'azione sviluppata dallo Stato sia per il recupero
socio-economico delle aree della Calabria, sia per contrastare
sempre più vigorosamente la criminalità organizzata, la
Commissione esprime l'esigenza che le competenti autorità
giudiziarie ed investigative compiano ogni sforzo onde
arrivare quanto prima, oltre che alla scoperta di tutti i
pericolosi legami instauratisi tra la massoneria e la
'ndrangheta, anche ad una necessaria chiarificazione in ordine
alle accuse di sospetti rapporti, quando non losche
implicazioni, rivolti ancora in tempi recenti a magistrati,
funzionari, rappresentanti dello Stato e degli Enti pubblici
per la loro appartenenza o contiguità massonica.
3.4 Dall'analisi delle risultanze giudiziarie e
investigative gravi si configurano, per le valutazioni di
competenza della Commissione, prescindenti cioè dalla
individuazione di specifiche configurazioni delittuose e di
singole responsabilità, le compromissioni emerse tra esponenti
politici rappresentativi delle istituzioni e di enti
territoriali con la criminalità organizzata nella provincia di
Reggio Calabria.
Panorami densi di inquietanti prospettive hanno aperto in
proposito le dichiarazioni di Lauro Giacomo Ubaldo,
collaboratore di giustizia, del quale non va sottaciuta, tra
l'altro, l'allusione in maniera inquietante al comportamento
dell'On. Francesco Principe di Rende (P.S.I.), presidente
della Commissione parlamentare per i problemi del Mezzogiorno
e dunque sull'azione di persona investita di responsabilità di
elevato livello in un settore di vitale importanza per le
regioni del sud.
Dallo stesso Lauro, l'On. Benedetto Mallamaci del
P.S.D.I., già presidente della Commissione regionale
antimafia, e dunque organo deputato al contrasto rispetto alla
azione della 'ndrangheta, è stato indicato come il soggetto
che doveva soprintendere agli interessi tra la CO.LA.S. e la
Timperio-Timperio S.p.A., ivi compreso il COGITAU (cioè il
consorzio di Gioia Tauro) e di conseguenza implicato nelle
commesse relative alla realizzazione del quinto centro
siderurgico di Gioia Tauro, la cui esecuzione, ha visto
l'inserimento di interessi e soggetti mafiosi.
3.5 Ulteriori acquisizioni hanno poi evidenziato e
confermato il sistema per cui i finanziamenti pubblici
finivano per essere convogliati, tramite fidati colossi
dell'imprenditoria nazionale, verso imprese reggine
controllate dalla 'ndrangheta, in cambio di voti e tangenti,
in una configurazione nella quale il piccolo e medio
imprenditore locale fungeva da tramite tra il potere politico
e il mafioso così costituendo "un comitato di affari" che si
rendeva portatore di interessi mafiosi.
Pag. 191
La descrizione del gravissimo connubio ha trovato
espressione nelle dichiarazioni rese all'autorità giudiziaria
da Sebastiano Vincelli, già parlamentare, e da Licandro
Agatino, attraverso le quali si disvela il meccanismo degli
appalti vedendoli oggetto di aggiudicazione a quelle imprese
nazionali cui doveva appunto spettare "secondo accordo".
Queste, a loro volta, avrebbero dovuto associarsi con ditte
locali prescelte dal "comitato di affari", e per esso
specificamente da Cozzupoli Domenico. A questo sistema si
collegavano due distinti ordini di tangenti: quelli da
corrispondere, a cura della o delle imprese nazionali e quelle
da erogarsi al "comitato di affari" da parte delle ditte che
di fatto finivano per svolgere i lavori.
D'altro canto, nella città di Reggio Calabria la
commistione fra la criminalità organizzata, imprenditoria ed i
pubblici amministratori ha già superato una prima verifica
dibattimentale attraverso la sentenza pronunciata il 21
febbraio 1994 dal Tribunale di Reggio Calabria. Dal documento
giudiziario, il quale muove dalle dichiarazioni rese dall'ex
Sindaco di Reggio Calabria, Agatino Licandro, emerge uno
squallido panorama della vita pubblica della città intessuto
di rapporti politici ed amministrativi diffusamente corrotti e
profondamente deviati rispetto ai fini della istituzione
comunale.
Tanto più fortemente va richiamata l'attenzione delle
competenti istituzioni dello Stato affinchè opportunamente
riflettano sul fenomeno di coinvolgimento dei pubblici
amministratori con criminosi sodalizi e del ricorso dei primi
a metodi marcatamente delittuosi ove si consideri che il
Licandro affermava che il sistema era valso per tutti quei
sindaci espressi dalle relazioni intercorrenti nei partiti
tradizionali della città di Reggio Calabria; sistema secondo
il quale la D.C., il P.S.I. ed i partiti laici minori si
alternarono al Governo.
Lo spaccato sociale che emerge offre dunque alla
Commissione un'impressionante, ininterrotta sequenza di
illeciti accordi, di compromissioni di uomini politici, di
finanziamenti che vengono sollecitati presso le autorità
centrali della Capitale per poi svilupparsi in attribuzioni di
commesse pubbliche alle quali sono correlate forme di
peculato, corruzione, concussione e di abusi di ufficio,
secondo una logica spartitoria che vede la cointeressenza,
sotto questo aspetto parimenti illecita, di una variegata
imprenditoria a sua volta referente delle formazioni politiche
interessate alla illegale spartizione del pubblico denaro.
Fornendo spunti più precisi, giova ricordare che le
dichiarazioni del Licandro hanno riguardato essenzialmente la
realizzazione di due opere pubbliche: il centro direzionale
dei servizi e le c.d. fioriere. L'appalto del primo venne
aggiudicato alla società Bonifica di Giorgio De Camillis e,
per una parte minore, al Consorzio di imprese C.M.C., ove era
quella di Vincenzo Lodigiani ad avere la maggior
consistenza.
3.6 A conferma poi delle dimensioni dei collegamenti tra
la criminalità e la politica, diffuse nella provincia anche a
livello periferico, la Commissione richiama il procedimento
pendente presso gli uffici giudiziari di Palmi a carico di
Viola Marcello cui si addebita di essersi fatto promotore di
iniziative politiche-elettorali in Taurianova
Pag. 192
mediante la creazione di una lista civica piegata, secondo
l'accusa, a strumento di criminalità per gestire direttamente
dall'interno la "res publica". Fatto sicuramente non isolato
ove si ponga attenzione alla circostanza che lo scioglimento
del Consiglio comunale di Camini, cui sopra si è fatto cenno
si basa sul coinvolgimento degli amministratori, derivante dal
cosiddetto voto di scambio, al fine di ottenere, da parte
delle cosche, non solo la semplice acquisizione di appalti per
ditte da esse controllate, bensì un più ampio e generalizzato
controllo di tutte le attività finanziarie proprie del
Comune.
Altri casi ancora, in fase di indagini preliminari, di
voto di scambio sono ipotizzate nei confronti dell'ex ministro
democristiano Riccardo Misasi, il quale secondo alcuni
collaboratori di giustizia avrebbe ottenuto l'appoggio di
alcune organizzazioni criminali della fascia ionica, dell'ex
sottosegretario socialista Salvatore Frasca e due componenti
già del PLI per le elezioni dell'aprile 1991, BASTIANINI e
MATACENA, oggi dell'U.C.D.
3.7 Dalle indagini svolte dalla DDA di Reggio Calabria
nell'ambito della vasta operazione denominata "Olimpia", è
emersa una nuova struttura della aendrangheta, quale più
adeguato e raffinato strumento di condizionamento del mondo
della politica e delle istituzioni.
Alcuni collaboratori di giustizia e in particolare
Gaetano Costa, già inserito ai massimi vertici della
'Ndrangheta, hanno infatti parlato dell'esistenza di una forma
di verticizzazione della organizzazione, definita COSA NUOVA,
realizzata dopo la pacificazione tra le "famiglie" a Reggio
Calabria nel 1991, al termine della seconda guerra di
mafia.
La funzione di COSA NUOVA è di garantire la pace tra le
"famiglie", in particolare anche intervenendo nell'ambito
delle faide familiari per eliminare il pericolo di vendette
isolate e personali, introducendo invece la decisione
concertata a livello collegiale di eliminazione di quanti
vengano individuati come nemici . Ha inoltre la funzione di
instaurare un'organizzazione a livelli stagni, così da evitare
che eventuali collaboratori possano riferire su circostanze e
persone.
Infine COSA NUOVA ha il compito di salvaguardare le
alleanze interne e quelle con le organizzazioni similari di
matrice siciliana, campana e pugliese, che, peraltro anche in
regioni diverse da quelle di tradizionale origine hanno
mostrato non di rado una reciproca tendenza alla
collaborazione nello sviluppo di azioni delittuose
prefigurando potenziali, future disponibilità a prestarsi
reciproco appoggio.
COSA NUOVA, inoltre, avrebbe costituito, secondo le
dichiarazioni di Costa, degli organismi, detti "camere di
controllo", uno nella locride ed uno nella piana, con il
compito di controllare tutta l'organizzazione.
Le "camere di controllo" composte dalle famiglie più in
vista delle cosche calabresi, avrebbero anche riunioni comuni
per le cose più importanti.
Tale riorganizzazione, a detta del Costa, avrebbe creato
una saldatura e dato vita ad un piano strategico comune con
Cosa Nostra, con la Camorra, e la Sacra corona Unita, per
salvaguardare i processi in corso o già celebrati, le
ricchezze accumulate, e in particolare "la
Pag. 193
gestione di comune accordo con massoneria, politica,
istituzioni deviate".
Questa nuova strutturazione, che va a potenziare la
capacità di penetrazione della 'ndrangheta nella pubblica
amministrazione, nel mondo economico-imprenditoriale e
politico, e che si aggiunge alla sua comprovata capacità di
espansione nelle Regioni del Nord-Italia e all'estero (USA,
CANADA, AUSTRALIA e GERMANIA), evidenzia tutta la pericolosità
di tale organizzazione criminale.
Gli interventi di ampio raggio di forze dell'Ordine e
Magistratura hanno certamente inciso in profondità nella
struttura criminale. A fronte di tale encomiabile lavoro e
impegno, che porta a ben sperare per il futuro, permangono
tuttavia in Calabria condizioni di disordine amministrativo,
mancanza di attivazione di controlli, degrado ambientale,
livelli elevati di confusione disoccupazione, ed adattabilità
ad un generale sistema di compromesso.
Sotto il profilo economico, l'assenza di un'articolata
struttura produttiva di base, e di scelte di mercato
opportunamente calibrate, la carenza di impegno da parte dello
Stato, che per tanti anni si è limitato ad intervenire con
forme di elargizione rivelatesi improduttive, di rendere
adeguate ed efficienti le articolazioni pubbliche,
contribuiscono a mantenere inalterate le condizioni nelle
quali si è rafforzata la criminalità organizzata.
4. Camorra e politica in Campania
4.1 L'analisi più recente e più completa dedicata dalla
commissione Antimafia ai rapporti della criminalità
organizzata con la politica in Campania, la si ritrova nella
relazione sulla Camorra del dicembre 1993.
(10) Relazione "Camorra e politica" approvata dalla
commissione parlamentare antimafia il 21 dicembre 1993
(Doc.n 12. XI Legislatura, Paragrafo 18, Parte III.
In quell'occasione, l'indagine riguardò quel fenomeno che
fu denominato "il blocco politico-camorrista negli enti
locali", fenomeno che apparve di particolare rilievo in
considerazione del fatto che, in quella Regione, erano stati
sciolti (fino a tutto il 1993) ben trentadue comuni per
condizionamenti mafiosi. Le relazioni prefettizie che
accompagnarono i decreti di scioglimento dei consigli
comunali, denunciarono un livello di penetrazione del tutto
peculiare da parte della camorra nella politica locale e
nazionale. Si legge, nella relazione anzidetta: " Gli organi
elettivi subiscono condizionamenti da parte della criminalità
organizzata la quale, in molti casi, non si accontenta di
essere rappresentata nel Consiglio e nella Giunta, ma designa
direttamente esponenti del sodalizio nelle cariche di sindaco,
assessore e consigliere".
Non mancano, in quel periodo, riscontri giudiziari
sulla forza elettorale della camorra e sulle forze politiche e
sui singoli politici esplicitamente sponsorizzati
dall'organizzazione mafiosa.. Funzionavano dei veri e propri
comitati elettorali che finanziavano e preparavano le campagne
elettorali e predeterminavano gli incarichi da ricoprire.
Seguiva, poi, la spartizione, in favore delle imprese legate
alla camorra, delle commesse e degli appalti pubblici.
Pag. 194
A parte alcuni casi in cui i voti sono stati concentrati
intorno a partiti minori,
(11) E', per esempio, il caso del
Comune di Quindici (AV.) dove ben 17 consiglieri su 20 furono
eletti nella lista del P.S.D.I., caduta nelle mani del clan
Graziano che designo il suo capo (Carmine Graziano) alla carica
di sindaco.
le forze politiche di riferimento della Camorra
furono, in Campania, la Democrazia Cristiana ed il Partito
Socialista Italiano.
Occorre, ora, verificare se, in relazione alla efficace
azione di contrasto posta in essere dalle forze dell'ordine e
dalla magistratura campane e al mutato quadro politico che ha
visto scomparire dallo scenario quegli stessi partiti che
erano stati interessati (più o meno volontariamente) dal
fenomeno di sponsorizzazione, la organizzazione campana
continui ancora a percorrere la strada dell'infiltrazione nel
tessuto socio economico attraverso la politica, ovvero se
abbia trovato nuove modalità di presenza per influire nelle
scelte di amministrazione del territorio. Tra tutti, infatti,
il caso campano, è quello che presenta più variabili possibili
di un nuovo modo di operare; e ciò, perchè, in quella Regione,
più forte è stato il riconoscimento della camorra con i
partiti politici non più esistenti.
4.2 Dall'esame degli atti giudiziari, in particolare
della Procura della Repubblica di Napoli, emerge, per quanto
di competenza della commissione e quindi a prescindere dalle
singole eventuali responsabilità di natura penale, il fondato
convincimento che l'apparato pubblico, a livello locale come a
livello nazionale, sia stato permeato da comportamenti
delinquenziali per gli illeciti legami con la criminalità
camorrista, di diffusione tale che, anche per la loro
persistente impunità, erano ormai divenuti un costume.
Si tratta di collegamenti che non possono non suscitare
grave allarme per quantità e qualità, come è dimostrato anche
dall'arresto negli ultimi due anni di alcuni ex-parlamentari,
anche con alte funzioni governative; di alcuni magistrati e
appartenenti alle Forze dell'ordine, anche di grado
elevato.
Anche a livello di amministrazioni locali, la vastità
delle compromissioni con la criminalità organizzata, appare
nella sua vastità ove si consideri che in 92 comuni in
provincia di Napoli, 71 sono stati sciolti e 16 per
condizionamento con la malavita, e in tutta la Campania, per
gli stessi motivi ben 32.
Le collusioni, di estesa portata, assumono in Campania
così come nelle altre regioni meridionali, un rapporto
trilaterale di interazione tra esponenti politici,
imprenditoria privata e coopertivistica e camorra, che in
pratica è valso ad introdurre, in modo organico e su di un
piano paritario, tale organizzazione criminale nel settore
delle commesse pubbliche secondo un meccanismo consolidato che
ha trovato un'ulteriore conferma nell'esito delle indagini
della recentissima operazione della DDA di Napoli, denominata
"KATANA".
A prescindere da casi specifici il meccanismo per tutte
le imprese, private e cooperative, era il medesimo.
Un esponente politico si adoperava per l'affidamento
dell'appalto di un'opera pubblica ad una impresa di "fiducia".
La stessa impresa doveva versargli per tale attività una
tangente e doveva poi entrare in
Pag. 195
contatto con l'organizzazione camorrista che controllava il
territorio sul quale doveva insistere l'opera pubblica e
pagare un'altra tangente, quantificata nel 3 per cento. La
camorra inoltre imponeva subappalti o altro tipo di contratti
(come ad es. i noli, movimenti terra ecc.) ricambiando poi il
politico, quale soggetto motore dell'operazione, con il
controllo del voto da convogliare verso il medesimo e con
altri scambi di favori da concordarsi secondo un'intesa di
ampia collaborazione.
Un meccanismo, questo, peraltro non nuovo, ove si
consideri che Carmine Alfieri riferisce di come, dopo il
sequestro Cirillo, tutta l'attività economica di alcuni
imprenditori risentì dell'intreccio che si era creato tra i
cutoliani e il sistema politico-economico, e che proprio
all'origine dello scontro tra il clan Nuvoletta e quello dello
stesso Alfieri vi era il controllo delle attività
imprenditoriali. I Nuvoletta già da tempo avevano instaurato
tali rapporti con il potere imprenditoriale e il potere
politico. Lo scontro tra i due clan non era perciò finalizzato
a realizzare tangenti bensì l'ingresso nel circuito delle
assegnazioni delle grandi concessioni di opere pubbliche.
Il politico gestiva l'assegnazione dell'appalto facendo
da mediatore tra le grandi imprese private e cooperative del
nord e centro Italia e la camorra ai fini della imposizione
delle tangenti e dei subappalti a ditte locali gradite alla
camorra stessa, in una gestione complessiva della operazione
da parte di politici, imprenditori e camorristi direttamente
rappresentati "in totale fusione". Ciò consentiva secondo lo
stesso Galasso, a ciascuna ditta-appaltatrice o
subappaltatrice di pagare le tangenti ai politici e alla
camorra attraverso le false fatturazioni o sovrafatturazioni
che destinava anche ad una propria autonoma finalità di
profitto. Le sovrafatturazioni e false fatturazioni non
servono infatti ai diversi imprenditori soltanto a procurarsi
fondi "neri" per pagamenti imposti dalla criminalità, ma come
è stato constatato dall'autorità inquirente di Napoli nelle
indagini in questione, anche per costituire occulte riserve
destinate al pagamento di tangenti a forze politiche, o alla
costituzione di depositi in nero all'estero.
In questa "totale fusione", raggiunta negli anni
attraverso accordi di vantaggi reciproci sempre più estesi e
programmati difficilmente l'imprenditore può rappresentarsi
come vittima, fruendo peraltro anche del vantaggio della
alterazione delle gare d'appalto, quasi sempre pilotate, e
degli stessi termini contrattuali nel corso dello svolgimento
dell'opera pubblica.
Infatti, secondo le emergenze delle indagini in
questione, è nella fase esecutiva degli appalti che si
realizza l'illecito rapporto tra imprenditoria, comunque
connotata, politici e burocrati corrotti e la componente
camorrista locale, attraverso lo strumento rappresentato
dall'affidamento in subappalto di una quota di lavori,
talvolta anche superiore al 40 per cento, limite introdotto
dalla legge n.55 del 1990, ad imprese rappresentanti gli
interessi della camorra, così che per le ditte del nord
l'impresa o le imprese collegate nel luogo al clan camorrista
erano un punto di riferimento.
Una circolarità di interessi intersecantisi ma anche
autonomi, elevati a sistema, ed un costo altissimo per la
collettività, che sembra comunque non essere cessato.
Proprio per tale verifica la Commissione ha deciso di
effettuare
Pag. 196
un'inchiesta sulla realizzazione dei lavori dell'Alta
Velocità sulla rete ferroviaria Roma-Napoli.
4.3 Il momento di accelerazione e del salto di qualità
della collusione, via via più generalizzata e sistematica, tra
potere camorristico, politico e imprenditoriale, viene
individuato dalla A.G. di Napoli nei complessi retroscena del
sequestro Cirillo. L'organizzazione camorristica, che fino a
quella vicenda aveva esperito e controllato un ampio spettro
di attività criminali dal contrabbando al traffico di
stupefacenti, dalle estorsioni a commercianti e imprenditori,
peraltro già sistematizzate, assurge a soggetto "legittimato"
a interloquire, in una posizione, peraltro, sempre più di
forza, con politici, nazionali e locali, e imprenditori, per
lo sviluppo ciascuno dei propri interessi nella totale
illegalità dei metodi adottati.
Questo rapporto perverso iniziato in conseguenza del
sequestro Cirillo con Raffaele Cutolo, è proseguito fino ad
epoca recente con il clan vincente dell'Alfieri, che pure
sostiene di avere iniziato quel medesimo tipo di rapporti, già
molto tempo prima dell'affermazione di Cutolo, con numerosi
esponenti del mondo politico, come ad esempio con l'ex
senatore PATRIARCA, stretto collaboratore di GAVA e altri
politici che pure avevano richiesto il suo sostegno.
4.4 Lo sviluppo delle indagini sulle ipotesi di reità già
emerse dal 1993, poste in rilievo dalla Commissione
parlamentare della precedente legislatura, hanno supportato e
ancor più ampliato le responsabilità dell'ex ministro
dell'interno Antonio GAVA e della sua corrente nella
contiguità con ambienti della camorra.
Nel settembre 1994 la DDA di Napoli ha chiesto e ottenuto
dal GIP l'emissione di provvedimenti cautelari per l'ex
senatore Gava. Tra le altre ipotesi di reato, è contestato a
Gava l'intervento effettuato a metà degli anni '80 per
impedire lo sviluppo delle indagini in corso a Foggia volte ad
accertare i rapporti tra la camorra e Pasquale Casillo, tratto
in arresto nell'aprile 1994 per vari reati e associazione a
delinquere di tipo mafioso.
Inoltre gli accertamenti giudiziari ipotizzano che Gava e
Cirino Pomicino, già ministro del Bilancio, sostenevano
ciascuno gli interessi di due oligopoli dell'industria
agroalimentare, rappresentati rispettivamente da Pasquale
Casillo e Franco Ambrosio, peraltro in violento conflitto tra
loro per il dominio di quel mercato e dei relativi
finanziamenti pubblici. Secondo l'accusa la composizione del
contrasto avvenne per l'intervento del capo della camorra
"vincente" Carmine Alfieri e si concluse con l'impegno di
Pomicino di risarcire Casillo con un nuovo patto per la
filiera cerealicola.
Infine il 17 luglio 1995 il GIP del tribunale di Napoli
ha rinviato a giudizio Antonio Gava per concorso in
associazione a delinquere di stampo camorristico. Peraltro nel
procedimento a carico del clan Alfieri, sono stati tratti in
arresto per associazione mafiosa altri quattro ex parlamentari
e indagati altri tre, tra cui l'ex ministro del Bilancio
Cirino Pomicino.
4.5 Dopo le dimissioni del prefetto di Napoli Umberto
Improta, da lui stesso presentate per agevolare e rendere più
rapido il corso degli accertamenti giudiziari, la recente
richiesta del GIP di Napoli di autorizzazione
Pag. 197
all'arresto per il senatore Carmine Mensorio,
attualmente parlamentare del CCD, e presidente della
Commissione Parlamentare d'inchiesta sull'attuazione della
politica di cooperazione nei Paesi in via di sviluppo, indica
un terreno di indagini per molti versi inedito. Il 9 agosto
scorso la Giunta per le autorizzazioni a procedere ha accolto
a maggioranza (con 12 voti a favore e 8 contrari) l'istanza
del giudice di merito. Qualora l'assemblea del senato dovesse
confermare l'orientamento della Giunta, si tratterebbe del
primo caso nella XII legislatura di un parlamentare sottoposto
a misura cautelare, secondo una procedura che ha ridotto al
solo passaggio delle misure restrittive il filtro del potere
legislativo sulle inchieste penali a carico di un suo
componente.
Da un lato la DDA di Napoli ipotizza il concorso
dell'esponente politico nell'associazione camorristica, con
l'accusa di aver favorito il rilascio della licenza a un
istituto di vigilanza privata controllato dalla camorra.
D'altro lato è proprio tale oggetto dell'interesse
camorristico che sarebbe stato protetto (in concorso peraltro
con pubblici funzionari addetti al controllo di polizia) a
suscitare inquietanti interrogativi.
Se venissero confermate la accuse degli inquirenti, i
fratelli Antonio e Carlo Buglione, concessionari della polizia
privata "La Vigilante 2" creata con capitali di provenienza
del crimine organizzato, rappresenterebbero la punta emergente
di un più grave fenomeno: il passaggio a forme sistematiche e
pubbliche, perchè legalmente configurate, di attività di
controllo del territorio, oltre che di speculazione in un
settore delicatissimo.
Dalla guardiania illegale l'evoluzione avrebbe condotto
al servizio di protezione imposto sotto l'ombrello di una
regolare licenza; dall'estorsione violenta si sarebbe arrivati
all'intimidazione indiretta ed impersonale e con
l'ostentazione di coperture istituzionali esplicite; dalla
custodia clandestina di armi si sarebbe usufruito della
possibilità di promuovere l'organizzazione legale di uomini
armati, addestrati e accasermati; dalle bande di quartiere e
di paese il taglieggiamento verrebbe demandato a un corpo di
pretoriani ufficializzato.
I legami che la DDA indica tra i titolari della
"Vigilante 2" e la camorra di Carmine Alfieri aprono un
panorama di accertamenti, da condurre in modo analitico, su
una delle forme in cui può manifestarsi la legittimazione
della forza di intimidazione del vincolo mafioso sul
territorio e, in particolare, su categorie bersaglio
privilegiato dell'estorsione, quali i piccoli imprenditori.
Laddove infatti lo Stato non è in grado di garantire la
sicurezza dei beni, e dunque concede a dei privati di
surrogarne il ruolo con l'organizzazione di servizi e di
uomini armati, l'accaparramento della vigilanza privata da
parte dell'associazione criminale rappresenta, per così dire,
la conclusione di un processo circolare: la consacrazione di
un'area di contropotere del crimine.
5 Rapporti collusivi tra criminalità e politica in Puglia.
5.1 In tutta la Regione si è registrato un
condizionamento diffuso e talvolta una vera e propria
collusione tra esponenti politici e l'organizzazione
Pag. 198
criminale denominata Sacra Corona Unita, tale che,
per quanto questa organizzazione non presenti le
caratteristiche di radicamento profondo, consolidato e
pervasivo di ogni strato sociale da esercitare un controllo di
tutte le attività del territorio, come nelle regioni fin qui
esaminate, ha comunque fatto sentire i suoi effetti negativi,
in particolare nel settore degli appalti di opere pubbliche,
dello smaltimento dei rifiuti, delle frodi comunitarie e
soprattutto nel settore della sanità privata.
5.2 Emblematica, infatti, del sistema affaristico
clientelare tra classe politica, criminalità organizzata e
imprenditoria, è la vicenda della gestione delle Case di Cura
riunite a Bari, oggetto di indagine, e in parte già conclusa
con la verifica processuale, della Direzione Distrettuale
Antimafia di quel capoluogo.
Lo scorso 1^ luglio il tribunale di Bari ha inflitto, con
giudizio abbreviato, a Francesco CAVALLARI, titolare e
amministratore della suddetta struttura sanitaria, la pena di
22 mesi di reclusione per numerosi reati di tipo societario e
fiscale e per associazione per delinquere di tipo mafioso.
L'esiguità della pena è dovuta alla collaborazione del
CAVALLARI che dopo il suo arresto, nel luglio 1994, ha reso
agli inquirenti ampie dichiarazioni che hanno consentito di
ripercorrere tappe e collusioni della illecita e rapida
carriera del Cavallari stesso.
Costui, approfittando del momento di particolare crisi in
cui versava il servizio sanitario pubblico e in particolare il
policlinico di Bari, di cui peraltro furono chiusi con
interventi della Autorità Giudiziaria alcuni padiglioni negli
anni 1983/84, e agevolato da una legislazione statale che
negli anni '70 era diretta a favorire l'iniziativa privata nel
settore sanitario, iniziata la sua attività come semplice
rappresentante, si inseriva nella imprenditoria sanitaria,
fondando nel 1976 la società "Nova Salus" e nel 1978 le "Case
di Cura riunite s.r.l.".
Nel giro di pochi anni Cavallari riuscì poi ad acquisire
otto cliniche private e a costruirne due nuove, grazie anche
al momento parimenti favorevole offerto da una classe politica
prevalentemente protesa ad affermare il proprio potere
personale anche contro l'interesse generale, che gli
consentiva appunto di sviluppare la sua politica
imprenditoriale con metodi clientelari e truffaldini e accordi
di tipo mafioso.
L'accordo stretto da Cavallari, da un lato con politici
disponibili e corrotti, dall'altro con la criminalità
organizzata operante nel territorio cittadino gli apportava un
duplice vantaggio: il controllo, attraverso l'organizzazione
criminale, della propria struttura imprenditoriale
dall'interno contro ogni manifestazione di dissenso; la
possibilità di far convogliare, sempre tramite quella
organizzazione, i voti a quei candidati che, in elezioni
politiche e/o amministrative, gli avessero garantito di
ricambiare l'illecito sostegno ricevuto con cospicui vantaggi
economici di svariate decine di miliardi in danno della
Regione Puglia.
Questo sistema veniva mantenuto da Cavallari anche
accrescendo enormemente il numero dei dipendenti delle C.C.R.,
arrivati ad un ammontare di 2260, alla data dell'accertamento
del 18/11/1993, a
Pag. 199
fronte di 984 posti letto. Tra il personale molti collegati
alla criminalità organizzata, molti i detenuti e relativi
familiari, molti fatti assumere da sponsor malavitosi, che non
solo percepivano indebitamente lo stipendio non essendo quasi
mai o mai presenti sul posto di lavoro, ma percepivano anche
somme aggiuntive per le più diverse causali.
Pertanto, per quanto Cavallari potesse fare ricorso ai
metodi mafiosi della criminalità organizzata per intimidire la
concorrenza, così come nel caso della clinica privata Villa
Anthea, i cui titolari furono in pratica costretti a cedere
l'impresa, per "risolvere" controversie sindacali e di lavoro,
tuttavia il gruppo societario facente a lui capo, viveva in
una precaria situazione finanziaria. Egli, infatti non solo si
era trovato ad affrontare un maggior costo economico per il
personale in esubero e nullafacente dell'importo di decine di
miliardi, ma anche ad accollarsi un ulteriore aggravio
determinato dal ricorso massiccio al credito bancario.
Un quadro assolutamente inquietante e anche sconcertante
per l'interrogativo di come tali fatti possono essersi
protratti per molti anni, tanto più ove si consideri che già
dal 1986 erano state avviate indagini sulla base di denunce e
altri indizi, ma conclusesi con formale proscioglimento
istruttorio.
5.3 Parimenti emblematica dell'esistenza di sacche di
interazioni delittuose tra esponenti politici, imprenditori e
malavita organizzata è il caso dell'incendio del teatro
Petruzzelli a Bari, per il cui ex gestore Francesco Pinto è
stato richiesto il rinvio a giudizio dalla DDA di Bari a fine
luglio 1995 per il reato, tra gli altri, di associazione di
tipo mafioso con associati alla criminalità organizzata
locale.
A prescindere dall'esito del procedimento non può non
sottolinearsi la serie concatenata degli atti di corruzione
esercitata sugli organi di controllo della Pubblica
Amministrazione.
La vicenda, peraltro molto complessa negli accertamenti,
trova la sua origine negli interessi convergenti di politici,
amministratori e imprenditori locali di trasformare il teatro,
ad incendio avvenuto, da proprietà privata in ente pubblico,
al fine di ottenere l'accesso ai finanziamenti per gli enti
lirici, elargiti dall'allora Ministero del Turismo e dello
Spettacolo.
Interessi questi, secondo l'accusa, che andavano peraltro
a convergere con gli interessi specifici del Pinto, oberato da
ingenti debiti e costretto a prestito usuraio, che pure bene
introdotto nel mondo politico, manteneva frequentazioni con
ambienti della criminalità organizzata.
5.4 Si richiama anche la vicenda dell'imprenditore
Casillo, già citata nell'ambito delle collusioni criminali in
Campania, per il quale la magistratura di Foggia nel 1985
aveva individuato i collegamenti con la camorra. Le indagini
all'epoca furono ostacolate da probabili pressioni, tant'è che
solo dopo quasi 10 anni i magistrati della DDA di Napoli hanno
ripreso, con risultati positivi, il procedimento per
associazione a delinquere di stampo mafioso a carico del
Casillo e altri.
5.5 Non può non menzionarsi il caso dell'attuale sindaco
di Taranto Giancarlo Cito, già sospeso dalla sua carica di
consigliere comunale nel 1993 per i suoi numerosi trascorsi
penali e rinviato a giudizio
Pag. 200
nell'autunno del 1994., per favoreggiamento e concorso in
omicidio volontario.
Nel provvedimento si fa riferimento alla collusione del
Cito con al criminalità organizzata della provincia ed in
particolare con il clan dei fratelli Riccardo e Gianfranco
Modeo.
Sicuramente una vicenda controversa nel merito delle
accuse, nelle quali è inopportuno entrare, ma dalla quale
comunque è opportuno trarre un motivo di riflessione circa la
compatibilità di un mandato elettivo con simili ipotesi di
accusa, fondate o meno che siano, e la inadeguatezza della
normativa al riguardo.
Le inchieste intraprese dalle DDA di Bari e di Lecce
dalla primavera del 1993 consentono di ricavare le
caratteristiche di un modello molto evoluto ed originale di
connessione tra ceto politico, settori imprenditoriali anche
di dimensioni monopolistiche e organizzazioni criminali sul
territorio.
5.6 La relazione approvata nel 1993 dalla Commissione
nella XI Legislatura denunciava "segnali di interferenze della
criminalità organizzata nella vita politica; segnali che vanno
nella direzione della collusione tra presenze criminali ed
amministratori pubblici (vi sono casi di amministrazioni
disciolte e di amministratori sospesi) ovvero nella direzione
opposta e cioè nelle intimidazioni nei confronti di quegli
amministratori che cercano di creare fronti comuni contro la
criminalità (comuni di Francavilla Fontana, Cellino,
Torchiarolo, Sandonaci, S. Vito dei Normanni)".
Quanto agli "organi preposti al controllo" - proseguiva
la relazione - "non appaiono in grado di incidere, in modo
determinante, sulla correttezza sostanziale dell'attività
delle Amministrazioni controllate".
Due anni dopo il panorama presenta dei significativi
cambiamenti. Si è interrotta, a quanto sembra, la spirale di
violenze dirette agli amministratori locali. Sono state
disciolte altre amministrazioni locali (Gioia del Colle,
Modugno, Trani, Terlizzi) ed è stata prolungata la gestione
commissariale di altre.
Alcune inchieste in corso segnalano tuttavia la
persistenza di legami tra ex appartenenti alla classe politica
e la criminalità comune. Uno dei settori in cui tale incontro
si verifica è quello dell'usura (caso dell'ex parlamentare
Visibelli).
6. Una costante: lo stragismo mafioso.
6.1 Con gli attentati della primavera-estate del 1993 si
è avuta la dimostrazione ulteriore di come il modus operandi
della criminalità di tipo mafioso comprenda, in particolari
congiunture, il ricorso all'attentato stragista.
Nei casi in cui si è manifestato il ricorso alla
carneficina indiscriminata, affiora un tratto comune: la
strage come comunicazione dissuasiva rivolta alla "politica"
affinchè intervenga per bloccare delle indagini in corso sul
crimine organizzato, quando esse presentano rischi tali da
ledere interessi strategici delle cosche.
E' risultato essere di questa natura la reazione di Cosa
Nostra, dopo che la risposta istituzionale segnò una svolta
storica nel settembre
Pag. 201
del 1984 quando l'Ufficio istruzione del Tribunale di
Palermo emise gli ordini di cattura per oltre 400 affiliati a
Cosa Nostra. La mafia siciliana replicò con una carneficina,
consumata il 23 dicembre 1984 sul treno Rapido 904. Una
sentenza passata in giudicato ha messo in evidenza che
l'attentato fu realizzato mediante la cooperazione tra Cosa
Nostra (per il tramite di Giuseppe Calò, componente della
Commissione di quella organizzazione), la camorra e settori
del terrorismo di destra. Di recente si sono riaperte le
inchieste per l'attentato al treno nei pressi di Reggio
Calabria, in concomitanza con i violenti disordini del 1970
nella città. Egualmente in questo caso si indaga sulla
cooperazione tra 'ndrangheta ed eversione.
Anche in altre regioni la criminalità organizzata ha
compiuto dei tentativi di strage ai danni di viaggiatori sui
treni, come è stato constatato nel 1991 in provincia di
Lecce.
Da numerosi processi emergono diversi elementi che fanno
ritenere lo stragismo un'ulteriore modalità di aggressione
delle "mafie", tra gli altri esempi vale menzionare come anche
nel procedimento che trae spunto a Napoli dalle indagini sugli
appalti ricevuti dall'impresa camorrista AGIZA si trovano
riferimenti sull'ipotesi stragista (in questo caso di Cutolo
nel 1979) come modalità di interlocuzione con il personale
politico collegato: nel caso di "tepidezza" nell'assicurare
protezione o neutralità giudiziaria verso l'associazione
mafiosa.
E' impressionante come l'ipotesi della strage a scopo
dimostrativo sia stata presa in esame più volte in circa 20
anni (ve n'è traccia anche nell'inchiesta sul banchiere
Sindona). Con la sentenza definitiva per la strage del 23
dicembre 1984 è divenuta una tesi giuridicamente confermata.
Anche lo sviluppo delle recenti indagini sugli attentati della
primavera-estate del 1993 ripercorre uno schema incentrato
sull'"avvertimento".
La strage come mezzo di annientamento degli avversari
resta comunque una costante nella storia della mafia: da
Ciaculli (1963) a Viale Lazio (1970) fino alle autobomba per
eliminare i magistrati titolari di inchieste (Chinnici,
Palermo, Falcone, Borsellino).
Se risulterà fondata l'attribuzione a Cosa Nostra della
responsabilità delle devastazioni a Roma in via Fauro e alle
Chiese di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano, a
Firenze all'Accademia dei Georgofili e in via Palestro a
Milano, dovranno essere valutate le implicazioni che rinviano
a nuove modalità di regolazione dei rapporti con la politica:
dalla collusione al conflitto.
6.2 Gli attentati del 1993
Il 28 luglio 1995 la Commissione ha dedicato una seduta
all'approfondimento della "questione stragi" dell'estate 1993,
ascoltando il Procuratore della Repubblica di Firenze, che
tratta unitariamente, per competenza, tutti quegli episodi.
Il Procuratore che in quella sede ha fornito alla
Commissione ulteriori atti processuali, oltre quelli già
inviati compatibilmente con lo stato delle indagini ed il
correlato segreto che allo sviluppo di esse si impone, ha
ribadito, come già in precedente audizione, che tutti gli
episodi, secondo concordanti dichiarazioni di collaboratori di
giustizia, configurerebbero un'azione di pressione sullo Stato
per variare le
Pag. 202
norme del regolamento penitenziario ed in particolare il
regime dell'art. 41-bis.
In particolare il Procuratore della Repubblica di Firenze
sottolinea come questi episodi stragisti attuino una strategia
di livello diverso rispetto a quello tradizionale, consistita:
nell'agire con attentati, molto complessi eppure ben
organizzati nella loro attuazione, fuori della Sicilia;
nell'avere fatto proprie tecniche e modalità di terrorismo
indiscriminato; nell'avere mutato obiettivo dalle persone alle
cose di interesse artistico in quanto, nella loro
insostituibilità, avrebbero recato un danno irreparabile allo
Stato. Peraltro le motivazioni in alcuni episodi si
diversificano: l'attentato alle chiese sopraindicate in Roma,
avrebbe dovuto essere la risposta alla posizione del Pontefice
di netta e accesa condanna della mafia, espressa nel suo
viaggio in Sicilia nel maggio 1993; l'attentato a Maurizio
Costanzo sarebbe stato diretto a colpire il giornalismo
"antimafia", avendo il medesimo manifestato, nel corso di una
trasmissione televisiva, il proprio compiacimento per
l'arresto di Riina e avendo sottoposto a domande considerate
"imbarazzanti" una donna della famiglia Madonia. Trattandosi
di fatti che, al di là della individuazione degli autori
materiali, presentano una grande complessità per quanto
attiene la ideazione degli stessi, stante il carattere di
assoluta novità che presentano il Procuratore della Repubblica
di Firenze ha riferito di avere operato un altro fascicolo
processuale nel quale raccogliere tutti gli elementi utili ad
accertare la più ampia strategia ad essi sottesa, gli
strateghi e le convergenze di interessi diversi.
6.3 Lo stragismo della 'ndrangheta.
Lo sviluppo delle indagini della DDA di Reggio Calabria
(Operazione Olimpia, luglio 1995) consolida un'ipotesi che
prese corpo nel 1984 dall'istruttoria del c.d. maxiprocesso di
Palermo: la tessitura di una trama tra settori dell'eversione
di destra e la mafia. Riattribuendo le responsabilità per
l'attentato stragista che nella primavera del 1970 fece
numerose vittime nei pressi di Gioia Tauro tra i passeggeri
del treno "Freccia del Sud", la Procura reggina individua un
collegamento tra la cooperazione 'ndranghetista-eversione
neofascista in occasione della rivolta per l'attribuzione del
capoluogo di regione, e il tentativo del capo del Fronte
Nazionale (gruppo di estrema destra) Junio Valerio Borghese di
ottenere dal boss Luciano Liggio la partecipazione di Cosa
Nostra al golpe programmato per l'8 dicembre del 1970. Di
queste vicende parlò, in udienza, il collaboratore di
giustizia Tommaso Buscetta. Esse vennero, involontariamente,
confermate dallo stesso Liggio nel corso di un confronto con
il primo disposto nell'aula del processo dal presidente della
Corte d'assise.
Il sabotaggio del treno "Freccia del Sud", e le vittime
innocenti che provocò, suggellarono l'avvio di un legame che
in diverse occasioni si è riattualizzato. In ogni caso
affermarono una delle vocazioni che troveranno espressione
negli anni successivi: la strage come monito allo stato e, al
tempo stesso, espressione di una collusione con i settori
deviati degli apparati pubblici.
Pag. 203
7. La presenza della criminalita' organizzata negli enti
locali. La congruità della normativa sullo scioglimento dei
consigli comunali.
7.1 Nel corso di questa legislatura la Commissione
parlamentare antimafia ha visitato quindici comuni di cui
quattro in Sicilia; sei in Calabria; tre in Campania; due in
Puglia.
Ha, inoltre, esaminato le realtà locali di altri sedici
comuni in Calabria, e quindici in Campania, per un totale,
quindi, di quarantasei comuni.
(12) In Sicilia sono stati visitati
i Comuni di Gela, Coerleone San Giuseppe Jato e Niscemi.
In Calabria la Commissione si è recata a Reggio Calabria,
Catanzaro, Crotone, Locri, Palmi e Vibo Valentia. Inoltre sono
stati sentiti i capi delle amministrazioni (sindacati e
commissari straordinari) dei comuni di Gioia Tauro, Molochio,
Lametia Terme, Isola Capo Rizzuto, Cutro, Cirò Marina, Petilia
Policastro, Stefanaconi, Cessaniti, Nicotera, Rombiolo,
Limbadi, Acquaro, Arena, Serra san Bruno e San Calogero.
In Campania La Commissione ha visitato Caserta, Napoli e
Salerno ed ha sentito gli amministratori (sindaci e commissari
straordinari) di Santa Maria Capua Vetere, Casal di Principe,
Aversa, San Cipriano di Aversa, Pignataro Maggiore, Villa
Literno, Acerra, San Antonio Abate, Torre Annunziata, San
Antimo, Giugliano, Casandrino, Nocera Inferiore, Scafati e
Pagani.
In Puglia la commissione si è recata a Bari ed a
Lecce.
In tali Comuni si è proceduto all'audizione di sindaci,
assessori comunali, consiglieri comunali, commissari
straordinari, realtà socio-economiche locali.
Sono state redatte relazioni specifiche sui comuni di
Niscemi, San Giuseppe Jato, Corleone e Gela per la Sicilia;
Reggio Calabria e Catanzaro per la Calabria; sulla Campania e
sulla Puglia.
Dall'inizio della legislatura sono stati sciolti per
infiltrazioni mafiose negli organi elettivi, - sulla base
delle disposizioni contenute nel D.L. 31 maggio 1991, n. 164,
convertito nella legge n. 221 del 22 luglio 1991 - n.7
consigli comunali.
(13) Si ritiene utile riportare stralci del testo della
disposizione di legge:
"1 - Fuori dei casi previsti dall'art. 39 della legge 8
giugno 1990, n.142, i consigli comunali e provinciali sono
sciolti quando, anche a seguito di accertamenti effettuati a
norma dell'art. 14, comma 5, emergono elementi su collegamenti
diretti ed indiretti degli amministratori con la criminalità
organizzata o su forme di condizionamento degli amministratori
stessi, che compromettono la libera determinazione degli
organi elettivi e il buon andamento delle amministrazioni
cimunali e provinciali, nonchè il regolare funzionamento dei
servizi alle stesse affidati ovvero che risultano dati da
arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della
sicurezza pubblica. OMISSIS
2 - Lo scioglimento è disposto con decreto del Presidente
della Repubblica, su proposta del Ministro dell'Interno,
previa deliberazione del Consiglio dei Ministri OMISSIS
3 - Il decreto di scioglimento conserva i suoi effetti
per un periodo da dodici a diciotto mesi e nei novanta giorni
successivi si procede al rinnovo degli organi. OMISSIS
4 - Con il decreto di scioglimento è nominata una
commissione straordinaria per la gestione dell'ente...
OMISSIS
5 - quando ricorrono motivi di urgente necessità, il
prefetto, in attesa del decreto di scioglimento, sospende gli
organi dalla carica ricoperta, nonchè da ogni altro incarico
ad essa connesso, assicurando la provvisoria amministrazione
dell'ente mediante invio di commissari." OMISSIS.
Dall'entrata in vigore della predetta normativa, sono
stati complessivamente sciolti per fatti legati ad
infiltrazioni mafiose ben 83 consigli comunali di cui 24 in
Sicilia, 36 in Campania, 21 in Calabria, 7 in Puglia, 1 in
Basilicata ed 1 in Piemonte.
(14) Per l'elenco dei consigli
disciolti per infiltrazioni mafiose si rimanda al documento
n.625 acquisito dalla Commissione in data 14 luglio 1995
protocollo n.3000.
Pag. 204
Per 61 Comuni si sono tenute nuove elezioni
amministrative e si è tornati a gestione ordinaria A tutt'oggi
sono ancora in regime di commissariamento n.22 consigli
comunali.
7.2 I dati come sopra proposti indicano che, nel corso
dell'ultimo biennio vi è stato un progressivo ridursi dei
provvedimenti di scioglimento. A fronte di tale dato la
Commissione deve interrogarsi sulle ragioni della contrazione
del fenomeno e cioè se essa sia stata causata da una sorta di
risanamento della vita amministrativa locale, da una maggiore
oculatezza degli elettori nella scelta dei candidati ; da
modificazioni esterne causate dal mutamento del quadro
politico generale ovvero da una crisi dello strumento dello
scioglimento e quindi ad un ripensamento sull'efficacia della
stessa normativa antimafia contemplante le specifiche sanzioni
nei confronti degli enti locali.
Probabilmente la risposta più congrua al quesito è nel
senso che vi è stato un concorso delle varie cause sopra
indicate a determinare il fenomeno. Tuttavia i dati obiettivi
raccolti in occasione dell'osservazione di singole realtà
locali, impongono un esame più puntuale.
7.3 Occorre, innanzitutto, tentare - sulla base di una
attenta lettura dei decreti di scioglimento,- uno screening
dei motivi che hanno determinato il provvedimento, o, meglio,
analizzare le peculiarità che hanno caratterizzato le singole
amministrazioni, ricercando - al di là delle vere e proprie
attività criminali - i tratti comuni dell'amministrare
mafioso.
Si tratta di un processo ricognitivo che si ritiene
indispensabile perchè soltanto attraverso la piena
comprensione delle complesse procedure di appropriazione da
parte della criminalità organizzata di una intera
amministrazione, ci si può dotare di adeguati strumenti di
contrasto. Ed anche perchè, considerata la gravità della
sanzione che, di fatto consiste in una sospensione della
democrazia rappresentativa, occorre ricercare e dettare
criteri uniformi per non lasciare alla mera discrezionalità
dei prefetti la possibilità, o no, di intervenire nella
delicatissima materia.
Occorre individuare, quindi, (utilizzando un processo
cognitivo per quanto possibile neutrale) gli indici che
esprimono la mafiosità ed il grado di penetrazione
nell'ente locale; i parametri per misurare - al di là di ogni
possibile arbitrio - i livelli di condizionamento da parte
della criminalità organizzata sulla vita istituzionale e sulle
opzioni politiche degli enti territoriali.
7.4 Va, preliminarmente, premesso che le organizzazioni
criminali di stampo mafioso, anche là dove godono di un totale
controllo del territorio, non possono prescindere da una sorta
di consenso sociale da parte della popolazione residente che,
in una certa misura deve interpretare la presenza mafiosa
anche in chiave di scambio tra reciproche utilità.
Ed, infatti, l'organizzazione criminale, oltre ad
garantire una sorta di pax mafiosa (che, normalmente viene
turbata solo quando i vari clan hanno motivi di conflitto
territoriali) assicura, attraverso un modello amministrativo
che appare ricorrere in tutte le entità colpite dai
provvedimenti di scioglimento, vantaggi ed una sorta di
benefit alla cittadinanza
Pag. 205
che, in qualche modo, si ritiene compensata dalla
compressione di talune libertà.
L'esame dei bilanci e delle gestioni dei comuni disciolti
presentano tutti, infatti, le seguenti caratteristiche:
- non vengono riscossi (nella totalità o parzialmente)
i tributi comunali, soprattutto quelli relativi alla raccolta
ed allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, alla erogazione
dell'acqua e della elettricità;
- non vengono erogate sanzioni di carattere
amministrativo e non vengono notificati processi verbali di
accertamento da parte di altri organi;
- non vengono effettuati controlli sul pagamento delle
tasse di proprietà dei veicoli e sui canoni televisivi;
- vengono effettuate numerose assunzioni di personale
precario (per pochissimi mesi, con incarichi rinnovati più
volte, il che genera la necessità di dovere continuamente
rivolgersi al proprio protettore) per l'espletamento di molti
servizi comunali. Ciò, nonostante gli organici dei comuni
rimangano perennemente carenti;
- non vengono varate le normative secondare (piani
regolatori, regolamenti di polizia urbana, regolamenti per
l'esercizio delle attività artigianali e del commercio) sicchè
viene consentito a tutti di praticare (con il consenso delle
famiglie egemoni, con il pagamento della tangente ovvero, più
semplicemente, con il complice silenzio delle autorità locali)
il più ampio abusivismo in tutti i settori.
Tutti questi fattori, oltre che a coinvolgere gran parte
della cittadinanza nella pratica della illegalità, hanno
creato un oggettivo cemento di interessi intorno al modello
dell'amministrare mafioso generando, talvolta, vere e proprie
resistenze al ripristino delle situazioni legali,
ritenute lesive delle situazioni di vantaggio
conseguite
(15) Nel corso delle varie audizioni tenute con
gli amministratori
dei comuni disciolti (Gioia Tauro, Molochio,
Casal di Principe, Acerra San Antonio Abate, Torre Annunziata,
Casandrino, Nocera inferiore)i commissari straordinari hanno
denunciata una vera e propria opera di boicottaggio da parte
della burocrazia municipale ed una carenza a collaborale da
parte della cittadinanza che, in molte occasioni, ha accolto
con vive preteste i provvedimenti adottati per sanare le
situazioni più compromesse. Spesso all'adozione dei piani
regolatori od al varo di regolamenti comunali diretti a
disciplinare il commercio ed i servizi comunali, sono seguite
vere proprie sollevazioni popolari da parte di settori che
ormai da tempo hanno organizzato la propria attività economica
e la loro stessa esistenza intorno all'abuso ed alla
violazione della legge. Spesso è stato invocato il ripristino
del vecchio status quo ed in alcuni casi è stata rieletta la
vecchia classe dirigente, sciolta con i provvedimenti
antimafia.
La logica di scambio domina quindi, nelle zone
fortemente caratterizzate dalla presenza mafiosa dove alla
rivendicazione dei propri diritti si preferisce ricorrere alla
protezione ed alla collusione. Il regime di illegalità trova
un compenso nel favore; l'estorsione ed il pizzo trovano
compenso nella evasione fiscale.
7.5 Da parte sua, la mafia, non si contenta soltanto di
esercitare la sua azione di governo nell'ente locale. Non
rinuncia alla sua vocazione affaristica e l'occasione
dell'amministrare offre lo spunto per ulteriori intrecci con
la politica e con l'imprenditoria.
Nei comuni ad accertata presenza mafiosa normalmente sono
espresse forze politiche che si rifanno a partiti di governo;
le opposizioni
Pag. 206
sono quasi nulle e, quando ci sono, si esprimono in
forme deboli. Vi è una sostanziale situazione di monopolio (o
di oligopolio) tra le famiglie egemoni nell'assunzione degli
appalti di opere pubbliche e dei servizi. Il livello dei
servizi (di qualità mediamente bassissima) presenta costi
altissimi. La burocrazia comunale è, normalmente asservita
alle amministrazioni mafiose (spesso è composta di parenti e
di affiliati alle organizzazioni assunti con sistemi
clientelari) e gode anch'essa di particolari favori e
riconoscimenti.
In molti dei comuni visitati dalla commissione la
burocrazia comunale si è mostrata ostile ai commissari
straordinari e non ha prestato alcuna collaborazione ai
tentativi di sanare i gravissimi dissesti finanziari delle
amministrazioni disciolte. Quasi tutti gli amministratori
straordinari e gli stessi sindaci sono stati concordi
nell'individuare nel continuismo assicurato dal personale
comunale, il vero ostacolo ad una radicale opera di
risanamento amministrativo.
E' da notare, infatti, che sotto il profilo politico con
il nuovo sistema dell'elezione diretta dei sindaci, i
responsabili delle amministrazioni hanno trovato una
legittimazione più forte ad intervenire in settori delicati
della vita amministrativa della città. Ma tale legittimazione
si scontra con una organizzazione degli uffici ed una
direzione tecnica che (sia per incapacità che per calcolo)
bloccano qualsiasi iniziativa, creano ostacoli di carattere
burocratico ed impediscono l'ingresso di qualsiasi elemento di
maggiore trasparenza e di novità.
(16) Di recente, nel corso
della seduta del 4 luglio 1995, la Commissione ha approvato la
relazione sul comune di Niscemi il cui caso è stato indicato
come emblematico per la lettura dei complessi rapporti
politico-amministrativi esistenti negli enti locali dopo lo
scioglimento ed il periodo di commissariamento, anche quando
le nuove amministrazioni vengono elette da forze espressione
di una forte carica di cambiamento. A Niscemi non è bastato un
sindaco eletto quasi all'unanimità, le vecchie presenze
politiche colluse con la mafia si fanno ancora sentire nel
consiglio e la loro continuità è assicurata da una burocrazia
ancora fortemente condizionata da passati amministratori.
7.6 Pur se non si ritiene di avere esaurito la delicata e
complessa indagine sugli enti locali, il campione di comuni
esaminato è, tuttavia, sufficientemente ampio da consentire di
trarre significative conclusioni: a) sullo stato della
penetrazione mafiosa negli enti locali; b) sull'adeguatezza
degli strumenti di contrasto attualmente esistenti.
a) Circa la presenza della criminalità
organizzata negli enti locali, la Commissione, sulla base
della nuova documentazione acquisita e, soprattutto, sulla
base dei dati e degli elementi presenti nelle relazioni
prefettizie che accompagnano i decreti di scioglimento, non
può che confermare le puntuali analisi svolte nel corso della
precedente legislatura.
(17) Nella "relazione sulle
amministrazioni comunali disciolte in Campania, Puglia,
Calabria e Sicilia" approvata nella seduta del 30 marzo 1993
(Doc. XXIII, n.5 - XI legislatura) si legge: "... Abbiamo
disegnato uno scenario allarmante del logoramento di
istituzioni locali che hanno subito un assalto da parte dei
poteri criminali: non c'è soltanto l'ambiguità del contatto
fra mafia incombemte e politici succubi, vi è l'esproprio
delle decisioni, vi è l'assunzione di una gestione diretta da
parte delle cosche criminali; vi è, insomma, la presenza di
mafiosi nei consigli comunali, nelle giunte, nelle aziende
dipendenti fra il personale ammìnistrativo. Vi è il disarmo
della politica come confronto tra progetti diversi, come
antenna delle tensioni e dei movimenti della società:
l'attività delle assemblee elettive in questa realtà è ridotta
alle ragioni di scambio fra l'egemonia criminale ed un
personale politico amministrativo disposto ad ogni transazione
per trarre profitti e rassegnato ad essere il comitato di
gestione degli affari malavitosi....."
Sulla stessa tematica si veda, anche la relazione
" Camorra e Politica " approvata dalla Commissione
parlamentare antimafia (XI legislatura) il 21 dicembre 1993,
paragrafo 18: "Il blocco politico camorrista negli enti
locali".
A tutt'oggi, nonostante il significativo elemento
di novità intervenuto nel sistema (elezione diretta del
sindaco) segnali di risanamento
Pag. 207
e di moralizzazione della vita politica locale che
denuncino una vera inversione di tendenza, sono troppo deboli
e non sempre è agevole riconoscerli. Peraltro, si deve
doverosamente notare che il nuovo sistema ha trovato
applicazione in una contingenza storica non certo favorevole
alle amministrazioni locali che, a causa della grave crisi
economica del Paese, hanno visto ridursi considerevolmente le
loro capacità operative, con contrazione, in particolare,
delle quantità e delle qualità dei servizi finanziati
totalmente (o quasi) con la finanza di trasferimento.
b) L'indagine sulla adeguatezza degli strumenti
di contrasto, non può che incentrarsi sulla normativa
specifica che disciplina la lotta alla criminalità organizzata
negli enti locali.
Si è già detto che il legislatore del 1991,
nell'intervenire nella materia con la legge n.221/1991 (legge
di conversione del D.L. n.164/1991) aveva fatto la
delicatissima e sofferta scelta di sospendere, nelle realtà
mafiose, i momenti di democrazia diretta sciogliendo le
assemblee elettive. Sanzioni gravissime che avrebbero dovuto
essere state accompagnate da tutta una serie di iniziative di
supporto alle amministrazioni straordinarie al fine di potere
creare condizioni per il ripristino delle normali situazioni
del corretto amministrare e del vivere civile, nonchè per
restituire alle popolazioni colpite la possibilità di
scegliere i loro amministratori.
E' successo, invece, che le prefetture si sono trovate a
dovere reperire negli già inadeguati organici del proprio
personale, amministratori straordinari che avrebbero dovuto
possedere esperienze e professionalità elevatissime per potere
incidere nelle degradate e difficili realtà locali dove erano
destinati a dovere operare. Sono stati, così, mandati allo
sbaraglio funzionari statali inesperti, oberati di altri
compiti, privi di adeguate conoscenze, isolati nel contesto
amministrativo, carenti di incentivi e di motivazioni,
sprovvisti di un qualsiasi collegamento e di indicazioni con
l'amministrazione centrale. Il più delle volte sono stati dei
veri e propri ostaggi nelle mani della burocrazia comunale che
li ha portati spesso ad assumere determinazioni sulla base di
non corrette rappresentazioni delle situazioni amministrative.
L'amministrare dei commissari si è così risolto (a parte
alcuni encomiabili casi) in una sostanziale stasi di tutte le
attività; in una sorta di imbarazzata e preoccupata tutela
dell'esistente; in una diffidente e sterile attività di
vigilanza; in un improduttivo scontro con la burocrazia.
In tale situazione, la popolazione - anche quella che
aveva salutato come una liberazione l'avvento dei commissari -
non è riuscita a cogliere gli elementi di risanamento e di
moralizzazione della vita cittadina che ci si aspettavano dopo
i traumatici decreti di scioglimento. Anzi, è giunta alla
conclusione che la gestione commissariale, interdicendo (per
quanto possibile) le attività illecite, ha di fatto bloccato
il
Pag. 208
volano delle attività illegali che fungevano da
moltiplicatore economico alla gestione mafiosa ulteriormente
compromettendo la precaria occupazione e le scarse occasioni
di guadagno.
Sta di fatto che in numerosi comuni dove gli organismi
elettivi sono stati rinnovati dopo il commissariamento, si
sono sostanzialmente riproposte le vecchie coalizioni di
famiglie colluse con la politica locale e si è continuato con
la collaudata pratica dell'illegalità diffusa, con la ricerca
del favore, con la clientela e con l'abuso. E questo anche là
dove l'elettorato ha espresso chiaramente la volontà di farla
finita con l'amministrare mafioso; in quelle realtà, cioè,
dove i ballottaggi per la carica di sindaco hanno favorito di
larga misura il candidato portatore delle istanze
moralizzatrici. Vedasi, per tutte, l'esperienza del comune di
Niscemi, dove la carica di servizio e di sacrificio del
sindaco eletto a suffragio universale, deve spesso soccombere
di fronte alla tiepidezza di una burocrazia ancora fortemente
legata all'antico (e munifico) regime ed ad un consiglio
comunale in gran parte ancora espressione di quelle stesse
forze politiche che con lo scioglimento si volevano
espungere.
L'osservazione delle esperienze di molteplici comuni
disciolti e dei consuntivi delle gestioni straordinarie, porta
la commissione ad opinare che è giunto il momento per
riconsiderare criticamente la normativa sullo scioglimento dei
consigli comunali.
Confrontati con i modesti risultati conseguiti, appare
troppo penalizzante privare un intero comune delle proprie
rappresentanze democratiche. Penalizzante anche in
considerazione del fatto che, essendosi proceduto agli
scioglimenti in carenza di qualsiasi criterio, spesso il
provvedimento emesso nei confronti di un ente locale è apparso
discriminante rispetto ad altre realtà parimenti (o
maggiormente) compromesse, a causa della eccessiva
discrezionalità interpretativa dei prefetti che sono divenuti
arbitri delle sorti di assemblee elettive. L'esperienza della
legge n.221/1991 indubbiamente è valsa all'osservazione del
fenomeno dei rapporti tra mafia e politica locale; è stata una
palestra di apprendimento e la denuncia di un gravissimo
allarme. Ora, però, il fenomeno è manifesto; si conoscono in
dettaglio i meccanismi dell'amministrare mafioso; sono noti
gli intrecci di interessi e i riferimenti politici tra
amministratori locali, imprenditoria e criminalità
organizzata. Occorre abbandonare la sperimentazione e colpire
i veri elementi che assicurano la continuità nella pratica
della illegalità che regna in molte realtà locali. Occorre
dotarsi di una norma che - pur nel rispetto di regole giuste -
consenta una certa mobilità dei lavoratori comunali; occorre
individuare procedimenti amministrativi che consentano
l'affidamento degli appalti di opere e servizi con procedure
prestabilite: ad esempio con prezzi equi non modificabili
nello svolgimento dei lavori, dovendosi escludere la
possibilità di proporre varianti in corso d'opera, con gare
assolutamente trasparenti e comunque con altri sbarramenti,
ben più efficaci della certificazione antimafia e con
controlli obbligatori ad appalto acquisito sui libri contabili
e sulle fatturazioni delle imprese.
In questa fase storica, dopo l'esperienza dello
scioglimento dei consigli comunali, la commissione è del
parere che la strada da
Pag. 209
seguire per una più efficace azione di contrasto
all'infiltrazione mafiosa negli enti locali, sia proprio nella
restituzione della piena responsabilità (penale,
amministrativa e politica) agli amministratori ed ai
funzionari comunali; in un rafforzamento della finanza locale
ed in una rivitalizzazione dell'azione di controllo intesa,
non come un notarile riscontro di una legittimità formale, ma
come una verifica del risultato dell'azione gestoria e come
una chiamata in causa per responsabilità in ipotesi di mancato
conseguimento del risultato medesimo.
8. Il sistema dei controlli.
8.1 L'irrisolto problema delle incompatibilità tra organi
di governo ed organi di controllo favorisce l'intreccio di
interessi tra politica imprenditoria. Alta burocrazia e
criminalità organizzata.
La Commissione parlamentare antimafia aveva individuato,
nella scorsa legislatura,
(18) Vedasi la Relazione conclusiva
approvata in data 18 febbraio 1994 (Doc. XXIII n. 14, capitolo
III, paragrafi 56 e segg.).
nella tematica dei controlli una
delle "questioni strategiche per la lotta contro la mafia
nell'immediato futuro".
Pur se in questa prima fase della presente legislatura
questa commissione non ha dedicato specifiche sessioni di
lavoro allo studio delle tematiche dei controlli
(giurisdizionali ed amministrativi), tuttavia, la
registrazione del fitto intreccio mafia-politica-pubblica
amministrazione-imprenditoria, impone una riflessione sul
funzionamento dei pubblici poteri e sull'efficacia e la
adeguatezza degli strumenti di controllo operanti nei
confronti dei soggetti che tali poteri detengono. Ciò,
ovviamente, sulla base dei dati e degli elementi raccolti nel
corso dell'osservazione della presenza del fenomeno di
diffusione della criminalità organizzata nelle regioni
visitate.
La pervasività del fenomeno, infatti, non dipende
unicamente dal grado di penetrazione militare e di controllo
del territorio da parte del potere mafioso. Se così fosse si
potrebbe giungere alla conclusione che la lotta alla
criminalità organizzata potrebbe essere vinta ed esaurirsi con
operazioni di carattere militare e con azioni giudiziarie. In
tale caso dovrebbe prevalere l'opinione di coloro che
ritengono possibile la riconquista della legalità solamente
attraverso l'adozione di strumenti straordinari di contrasto e
mediante la sospensione di garanzie costituzionali e di
rappresentanze elettive. E' una strada che è stata già
percorsa e che - per limitare il punto di osservazione ai soli
enti locali - ha prodotto ulteriori mortificazioni alle
popolazioni assoggettate al controllo mafioso senza produrre
alcun benefico e duraturo effetto sul piano della gestione
amministrativa e della moralizzazione della vita pubblica.
8.2 Il versante dei controlli ordinamentali costituisce,
quindi, un punto di osservazione privilegiato per una accurata
indagine sul funzionamento dei pubblici poteri; sui livelli di
efficienza della loro azione, nonchè sul grado di indipendenza
e di autonomia dei soggetti investiti di pubbliche funzioni e
sui livelli di collusione tra questi e l'organizzazione
mafiosa.
Pag. 210
Perciò indagare sul sistema dei controlli significa non
soltanto verificare il complessivo stato di salute delle
pubbliche amministrazioni, ma comprendere anche le vere
ragioni che generano il progressivo sviamento dai fini
istituzionali ed il mancato conseguimento degli obbiettivi che
si propone l'attività amministrativa.
Una prima considerazione appare preliminare ad ogni altra
riflessione: certamente non tutto ciò che non funziona è
addebitabile ai poteri mafiosi. Tuttavia è certo che là dove
governa il disordine, la cattiva amministrazione e la
disorganizzazione; là dove non esistono adeguati controlli
ovvero vengono esercitati in forma troppo debole e con
parametri eccessivamente discrezionali, il potere mafioso
trova terreno favorevole per appropriarsi di settori di vita
pubblica.
Pertanto, la prima vera battaglia da affrontare contro la
criminalità organizzata sta nel funzionamento dei pubblici
poteri e nella corrispondenza dell'attività amministrativa
alle finalità istituzionali. Una efficace azione di contrasto
non può, quindi, prescindere da una attività di controllo che
riesca a comprendere e ad incidere sui risultati dell'azione
dei pubblici poteri (indicando anche le eventuali
responsabilità derivanti dal mancato conseguimento dei fini)
nè può ignorare il problema della autonomia e
dell'indipendenza dell'organo che esercita il controllo.
8.3 Per quanto concerne il profilo della qualità
dell'attività di controllo, va, innanzitutto, osservato che
deve definitivamente essere dichiarata chiusa la stagione dei
controlli di mera legittimità consistenti in riscontri di tipo
notarile dell'atto alle astratte previsioni legislative senza
una vera indagine sulla corrispondenza dell'azione a pubbliche
finalità.
E', questa una tematica sulla quale il legislatore (anche
dietro le puntuali istanze provenienti dalle commissioni
antimafia) è più volte intervenuto in questi ultimi anni.
(19) Non è questa la sede per indicare i numerosi provvedimenti
che hanno riguardato, in questi anni, il mondo dei controlli,
giurisdizionali ed amministrativi. Si ricordano soltanto, per
quanto riguarda i controlli amministrativi, la legge n. 29/93
istitutiva dei servi di controllo interno e, per quanto
concerne i controlli giurisdizionali, le leggi di modifica
delle attribuzioni e della articolazione della Corte dei Conti
ed' in particolare, le leggi nn. 19 e 20 del 1994 riguardanti,
tra l'altro, l'istituzione dei controlli di gestione e la
verifica dei risultati nonchè la generalizzazione del
decentramento giurisdizionale della magistratura contabile con
istituzione, in ogni capoluogo regionale, di uffici del
pubblico ministero contabile. Tale ultima previsione consente
di perseguire, con maggiore tempestività ed efficacia, le
ipotesi di responsabilità di amministratori e funzionari
pubblici che causano danno al patrimonio pubblico (in ultima
analisi consente di colpire, al di là dei fatti che hanno
rilevanza penale, i casi di cattiva gestione e di mala
amministrazione che spesso vedono coinvolti veri e propri
comitati di affari composti di politici, amministratori
pubblici, imprenditori e criminalità organizzata.
L'analisi della specifica normativa sui controlli
riportata in nota, porta ha concludere che indiscutibilmente
il sistema ordinamentale sembra essersi indirizzato verso
controlli di tipo gestionale, non interdittivi dell'attività
degli organi di amministrazione attiva e verso forme sempre
più incisive di individuazione di responsabilità legate a
fatti di cattiva gestione.
E', questo della responsabilità personale degli
amministratori e funzionari pubblici, un profilo che
attualmente è tornato all'attenzione
Pag. 211
del legislatore che sta ricercando, con provvedimenti a
volte contraddittori, un punto di incontro tra la necessità di
salvaguardare il potere di scelta discrezionale propria
dell'attività gestoria pubblica e la necessità di dotare il
pubblico ministero contabile di poteri di impulso e di un
processo idonei a colpire le attività gestorie che,
dolosamente o colposamente, si risolvono in danni erariali.
Si tratta di un processo normativo in corso che, a fronte
di un dato legislativo che indubbiamente dimostra un elevato
livello di maturazione nel cammino di riforma
dell'organizzazione statale, regionale e locale, deve tuttavia
ancora registrare un non sufficiente livello di riflessione
del legislatore sulla intera tematica dei controlli. Tematica
che spesso appare carente di una strategia complessiva e,
pertanto, incapace di incidere profondamente sulle delicate
questioni di cui qui si occupa questa commissione e cioè sui
complessi rapporti esistenti nel Paese e in particolare nelle
regioni del meridione, tra potere statale e potere mafioso.
Ed infatti, nel tentativo di dare immediate risposte a
complessi problemi di carattere organizzatorio e gestionale,
il legislatore sta facendo fiorire, rompendo l'unitario
disegno istituzionale (ed, a volte, costituzionale) una
miriade di authority aventi il compito di controllare
specifici settori della vita pubblica.
(20) Si riportano,
qui di seguito, le Autorità indipendenti che, per elementi
costitutivi, strutturali e funzionali, sono particolarmente
collegate al Parlamento ovvero operano in un quadro di
esercizio in funzione di garanzia e di controllo di interessi
di rilevanza costituzionale: " Garante per la
Radiodiffusione e l'Editoria " (legge n:223 del 1990 e legge
n. 515/1993 per i controlli sulle campagne elettorali);
" Autorità Garante della Concorrenza e del
Mercato" (legge n.287/1990); " Commissione di Garanzia
dell'attuazione della legge n. 146 del 1990 sullo sciopero nei
servizi pubblici essenziali"; "Autorità per la vigilanza sui
Lavori Pubblici" (legge n. 109/1994); " Commissione
Nazionale per le Società e la Borsa" (CONSOB) (legge n. 216
del 1974) e legge n.474 del 1994); " Istituto per la
vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse
collettivo (ISVAP)" (legge n.576/1984 e n.20 /1991 nonchè
legge n.474 del 1994); " Autorità per l'informatica nella
Pubblica Amministrazione" D:Lgl. n.39 /1993); " Autorità
di bacino di rilievo nazionale" (legge n:183/1989);
" Autorità Portuali" (legge n. 84/1994); " Agenzia per
la rappresentanza sindacale delle pubbliche
amministrazioni" D.Lgl. n. 29/1993); " Osservatorio delle
politiche Regionali" D.Lgl: n:96/1993). L'attività di
controllo su singoli settori pubblici è stata affidata, poi,
ad altre Autorità collegate con varie branche
dell'amministrazione.
In disparte ogni altra considerazione sulla correttezza
costituzionale di siffatto modo di procedere e sulla effettiva
possibilità per tali organi di poter esercitare la funzione
(valga per tutti la esperienza dell'AGECONTROL per quanto
riguarda l'attività di contrasto per le frodi comunitarie) la
Commissione non può che esprimere perplessità e preoccupazioni
sulla istituzione di siffatti controlli straordinari in quanto
si corre il rischio di creare, una ulteriore frammentazione
del sistema; nuove occasioni di scontro politico e di
lottizzazione; nuove occasioni di penetrazione mafiosa.
8.4 L'altro nodo politico da risolvere per il corretto
funzionamento dell'attività di controllo è quello concernente
l'autonomia e la indipendenza dei soggetti investiti della
funzione, problema cui è strettamente collegato l'altra
delicata e complessa questione della assoluta necessità di
tenere per quanto possibile distinti i momenti di direzione
politica dai fatti di gestione amministrativa.
Pag. 212
Ed infatti, soltanto la netta separatezza tra organo di
controllo ed attività controllata può garantire la neutralità
e la trasparenza della funzione e la non confusione di
interessi diversi curati dalle stesse persone.
Sta di fatto, però, che, all'attualità, nonostante la
chiarezza e la distinzione di ruoli tra controllori e
controllati sia stata da tempo invocata da molte forze
politiche (da più legislature giacciono entrambe le Camere,
proposte e disegni di legge riguardanti la disciplina degli
incarichi extra-istituzionali e delle incompatibilità dei
magistrati, dei pubblici funzionari e degli amministratori
pubblici) e dagli stessi organi di autogoverno delle
magistrature, tuttora non è stata varata una rigorosa
disciplina che restituisca tutti i soggetti investiti di
pubbliche funzioni a propri compiti istituzionali senza
invasione o semplice investitura di altri ruoli confliggenti -
in fatto ancor prima che in diritto - con la funzione primaria
e con gli interessi generali. Appare, infatti, fuori luogo che
soggetti preposti a svolgere controlli di tipo giurisdizionale
vengano investiti (con incarichi comportanti compensi, a volte
elevatissimi) di funzioni proprie di soggetti aventi compiti
di amministrazione attiva. Così, non sembra rispondente ad
interessi pubblici che organi (quali l'avvocatura dello Stato
ed il consiglio di Stato) istituzionalmente preposti a rendere
pareri su atti e scelte della P.A., vengano essi stessi
investiti di attività che implicano, in veste diversa, giudizi
sulle stesse scelte e sugli stessi atti che si è concorso a
formare. Così, per rimanere all'interno della PA, confligge
con i più elementari principi di buona amministrazione e di
chiarezza in ordine alle responsabilità derivanti dall'azione
dell'amministrare, che gli stessi soggetti preposti
all'individuazione ed alla scelta degli strumenti da porre in
essere per il conseguimento del fine istituzionale, vengano
poi (con incarichi conferiti ad personam che il più delle
volte costituiscono delle vere e proprie elargizioni)
investiti anche dei giudizi di congruità sulle scelte
effettuate.
La Commissione è del parere che la chiave di lettura di
questa illogica, complicata e pericolosa commistione di
funzioni, debba essere ricercata nei rilevanti interessi
economici che governano la materia degli incarichi extra
istituzionali (in particolare, incarichi di collaudazione di
opere pubbliche e di arbitraggio) e nel particolare rapporto
che si viene a creare tra autorità che conferisce l'incarico e
soggetto beneficiato. Anche se non appare corretto parlare di
rapporti collusivi tra i due soggetti, tuttavia, è di tutta
evidenza che l'autorità conferente ha, quanto meno, una
aspettativa, nei confronti del designato, ad un controllo che,
se non compiacente, tenga tuttavia almeno conto di parametri
non eccessivamente fiscali. L'attività del controllore,
pertanto, pur se esplicata in perfetta buona fede appare
viziata ab origine; può rimanere condizionata e su di essa
permane (talvolta ingiustamente) il sospetto di carenza di
neutralità.
Sotto altro profilo, la presenza di moltissimi magistrati
(in particolare consiglieri di Stato e della Corte dei Conti)
e di avvocati dello Stato in delicati uffici governativi quali
i Gabinetti e gli Uffici legislativi, crea un rapporto di
reciproca dipendenza tra questi ed i soggetti politici
investiti delle responsabilità governative. Il politico
assicura la
Pag. 213
continuità dell'incarico; il Capo gabinetto la continuità del
sistema di governo e l'intangibilità delle posizioni di
privilegio (gli interessi economici e la irresponsabilità) del
politico.
A fronte di questa situazione, è facile comprendere come
tutto il mondo dei controlli finisca con il risultare falsato
o, quanto meno, indebolito. L'intreccio di interessi che lega
controllori e controllati oltre a generare inefficienza e
corruzione della Pubblica Amministrazione offre
un'ulteriore.
9. La criminalità organizzata nel Centro-Nord
9.1 Nel corso della XI Legislatura la Commissione ebbe ad
occuparsi della presenza della criminalità organizzata nelle
aree del Centro-Nord - in quelle Regioni, cioè, di
insediamento non tradizionale del potere mafioso.
Sul problema approvò, dopo una serie di
visite-sopralluogo che interessarono le Regioni Abruzzo,
Basilicata, Emilia Romagna, Liguria, Lombardia, Piemonte,
Valle d'Aosta, Sardegna, Toscana e Veneto un'apposita
relazione
(21) Relazione sulle risultanze dell'attività del
gruppo di lavoro incaricato di svolgere accertamenti su
insediamenti ed infiltrazioni di soggetti ed organizzazioni di
tipo mafioso in aree non tradizionali, approvata il 13 gennaio
1994 (Relatore Sen. Carlo Smuraglia - Doc. XXIII, n.11 - XI
Legislatura).
con la quale furono indicate le cause della
diffusione del fenomeno; la tipologia delle organizzazioni
criminali operanti nei singoli territori; i settori di
presenza e le modalità di intervento delle varie associazioni;
i riflessi sull'economia delle singole zone; i rapporti con le
mafie tradizionali ed i nuovi modelli associativi; i rapporti
con il sistema politico amministrativo e con gli altri
organismi operanti in sede regionale.
All'inizio della attuale legislatura, la Commissione ha
ripreso la tematica degli insediamenti mafiosi nelle aree del
Centro-Nord ed ha deliberato di impegnare una sessione del suo
lavoro per l'esame del rilevante fenomeno.
(22) Nella seduta
del 18 ottobre 1994 la Commissione, in sede di approvazione del
programma ha deliberato tra l'altro di inserire la seguente
previsione: "Organizzazioni criminali omogenee e non omogenee
nelle aree del Centro-Nord:... Appare inoltre necessario
formare un quarto gruppo di lavoro che incentri i suoi compiti
di analisi e investigazione nelle aree del centro-nord, per la
peculiarità con la quale ivi si attuano i collegamenti con le
amministrazioni e l'economia locale e in particolare le
modalità di organizzazione e ancor più di investimenti di
capitali illeciti. Peraltro, proprio nelle regioni del
centro-nord più che nelle aree tradizionali, forti sono gli
stanziamenti di associazioni criminali non omogenee,
originarie dell'Oriente, dell'Africa, dell'America Latina che
hanno assunto via via un peso preponderante nel traffico degli
stupefacenti e nel traffico di armi, dando quindi alla mafia
tradizionale un più facile e sistematico accesso alla
internazionalizzazione dei grandi traffici illeciti e al
riciclaggio dei relativi profitti attraverso operazioni per lo
più su diverse banche estere. E' evidente che questo quarto
gruppo di lavoro articolerà i settori di indagine sulle
tematiche degli altri gruppi così da far emergere, da un lato,
le peculiarità del fenomeno mafioso e similari nelle aree
tradizionali e, dall'altro, da permettere una visione
integrata e d'insieme del fenomeno stesso".
In effetti, la Commissione ha ritenuto che per un più
corretto processo conoscitivo della realtà criminale di stampo
mafioso nelle aree di insediamento non tradizionale occorreva
procedere per approssimazioni successive avendo cura: di
seguire l'evoluzione del fenomeno mafioso nelle quattro
Regioni di insediamento tradizionale (Sicilia,
Pag. 214
Calabria, Campania e Puglia); di comprendere i fenomeni
finanziari connessi agli insediamenti di capitali prodotti a
Sud (provenienti soprattutto dai mercati del traffico degli
stupefacenti e delle armi) e trasferiti al Nord; di
individuare i settori economici di interesse della mafia e di
comprendere le modalità di inserimento nelle attività
produttive lecite; di esplorare le singole realtà mafiose
insediate nel Centro-Nord cogliendone le peculiarità, le
connessioni con la vita politica ed economica di quelle
Regioni; le modalità di presenza e le connessioni con le
organizzazioni tradizionali.
Ad un anno dalla sua costituzione la Commissione ha posto
in essere varie attività per la programmata finalità:
- sono state approfondite le tematiche concernenti i
trasferimenti dei capitali e gli insediamenti dell'impresa
criminale nel Nord Italia con riferimento, in particolare,
agli impieghi, in attività "lecite", del capitali provenienti
dagli affari mafiosi;
- l'apposito gruppo di lavoro ha dedicato sette sedute
per le audizioni dei Prefetti e delle Forze dell'ordine delle
province di Como, Varese, Bologna, Ravenna, Forlì, Venezia,
Verona e Padova;
- la Commissione si è recata in missione in Liguria
dove ha esaminato, tra l'altro, la complessa realtà dei Comuni
di Genova e di San Remo (quest'ultimo in particolare per i
problemi connessi a sospette attività di riciclaggio poste in
opera a mezzo del locale Casinò);
- la delicata questione del Comune di Bardonecchia,
primo dei Comuni del Centro-Nord disciolto per infiltrazioni
mafiose;
- l'impegno finanziario della mafia nelle attività
immobiliari di Cortina d'Ampezzo, in particolare
sull'acquisizione di alberghi e multiproprietà da parte di
personaggi sospettati di appartenere alla imprenditoria
mafiosa.
Per gran parte delle elencate questioni le indagini sono
tuttora in corso ed ancora la Commissione non dispone di
notizie supportate da documenti giudiziari.
Tuttavia il quadro che emerge dalla analisi dei vari
segmenti di attività è tale che induce la Commissione a
ritenere preoccupante lo stato della presenza della
criminalità organizzata nelle aree del Nord Italia, come anche
concluse la Commissione Antimafia della XI Legislatura, e
sottovalutato, soprattutto nel suo aspetto di cointeressenze
economiche. Non si registrano infatti significative indagini
in materia di riciclaggio e per contro le segnalazioni di
operazioni sospette da parte delle Banche sono esigue e
sporadiche.
Certo le modalità operative sono diverse: al Nord la
mafia non può contare sulla rassegnata acquiescenza della
popolazione residente; non può fare affidamento su un
controllo del territorio che consente di intervenire su ogni
aspetto della realtà locale; non può contare su alcune forme
di "cultura mafiosa" che si riscontrano in alcune
amministrazioni locali. Tuttavia, la criminalità organizzata
può (al Nord forse più che la Sud) trovare facile terreno di
coltura nella mentalità affaristica ed imprenditoriale di una
laboriosa popolazione educata a cogliere le occasioni di
affari ed investimenti e mimetizzarsi così più facilmente nel
circuito di transazioni lecite.
Pag. 215
La Commissione ritiene perciò di dovere rivolgere nel
prosieguo dei propri lavori attenzione a tale situazione, che
da analisi di organi investigativi, sembra essersi
ulteriormente aggravata.
Pag. 216
CAPITOLO III
MAFIA ED ECONOMIA
1. La situazione economica generale
Volendo mettere a fuoco i rapporti che intercorrono tra
fenomeni mafiosi e fenomeni economici non si può prescindere,
preliminarmente, da talune considerazioni di carattere più
generale.
Il forte ridimensionamento dell'intervento pubblico
straordinario a sostegno dell'economia, ha determinato nel
Mezzogiorno, più che in altre aree territoriali del paese, una
forte stagnazione dell'attività produttiva, specie nei settori
delle opere pubbliche e dell'edilizia, dimostrando la
debolezza di un tale tipo di politica economica, genesi
peraltro del triste connubio tra malaffare politico e malavita
organizzata, che ha impedito la nascita di un tessuto
imprenditoriale sano e di uno sviluppo economico continuativo,
capace di trasformare e far crescere il tessuto sociale.
La ripresa economica che sta interessando attualmente
l'Italia, incentrata sulle esportazioni, ha accentuato il
divario tra le aree tradizionalmente più sviluppate e il
Centro-Sud: nel Centro-Nord il tasso di crescita del prodotto
interno lordo è stato nel 1994 del 2,5 per cento, nel
Mezzogiorno dell'1 per cento.
Sotto il profilo occupazionale, l'effetto di tale
evoluzione è stato molto marcato: le regioni del Nord-Est sono
prossime al pieno assorbimento della forza-lavoro; nel
Mezzogiorno, ove vive oltre il 35 per cento della popolazione
e già è molto bassa la quota di essa presente nel mercato del
lavoro, nel corso del 1994 il numero di persone occupate è
diminuito di 225.000 unità, pari al 3,9 per cento. Il tasso di
disoccupazione ha raggiunto il 21 per cento (l'8 per cento nel
Centro-Nord), con punte più alte in talune aree,
(23) Il presidente della
Camera di commercio di Catanzaro ha indicato
alla Commissione un tasso di disoccupazione, in quel
territorio, del 30 per cento (audizione del 1^ marzo 1995 ).
Relativamente al territorio di Vibo Valentia, il presidente di
quella Camera di commercio ha indicato una percentuale di
disoccupazione superiore al 28 per cento, precisando però che
quella giovanile supera forse il 50 per cento (audizione del 3
marzo 1995). Il presidente della Confcommercio di Crotone ha
parlato di una disoccupazione giovanile che nella sua zona si
avvicina al 40 per cento (audizione del 2 marzo 1995).
e il
numero attuale degli occupati è largamente inferiore a quello
dell'inizio degli anni '80. I posti perduti nel corso
dell'ultimo anno appartenevano nella quasi totalità al settore
privato. Moltissimi soggetti che hanno passato i trenta anni
di età ancora non hanno mai avuto occasioni di lavoro.
La rapidità con cui tali fenomeni si sono aggravati nel
corso degli ultimi due anni è un sintomo, oltre che degli
sfavorevoli andamenti congiunturali, di una profonda
disfunzione del sistema economico e istituzionale, che si
ripercuote sul piano della vita e della convivenza civile.
La crisi occupazionale è inscindibilmente legata
all'incapacità di esprimere un tessuto imprenditoriale
efficiente e competitivo, tale da
Pag. 217
creare nuove opportunità di lavoro, in un contesto peraltro
degradato ove le attività economiche sommerse sono ancora
ampiamente diffuse.
In questo contesto, le organizzazioni mafiose hanno
accentuato la propria presenza, sul piano sociale e di
controllo del territorio, e il peso economico-finanziario,
allungando sempre più i propri tentacoli nell'economia legale
attraverso il riciclaggio di ingenti risorse.
Tale diffusione della presenza criminale nelle relazioni
economico-finanziarie riduce la stessa capacità di ripresa
delle attività produttive, in quanto distorce le scelte degli
operatori dagli obiettivi di economicità e profittabiltà e
mina altresì la fiducia e la credibilità dello Stato e delle
istituzioni.
L'abbandono della precedente politica di agevolazioni
creditizie ha fatto emergere la mancanza di una solida cultura
imprenditoriale della struttura di base dell'economia
meridionale. Paradossalmente proprio i contributi statali e
regionali, erogati a sostegno di alcuni tipi di investimenti
produttivi e i forti interessi sottostanti all'aggiudicazione
degli appalti di grandi opere pubbliche, hanno ostacolato o
ritardato la formazione di nuove soluzioni per un sano ed
equilibrato sviluppo economico-imprenditoriale, capaci di
innovare le vecchie logiche e gli indirizzi del passato.
A ciò si aggiungano le perduranti inefficienze nelle
Amministrazioni pubbliche, la persistenza di carenze nelle
infrastrutture di base (trasporti, nelle reti idriche e
dell'energia elettrica, nelle comunicazioni, nelle dotazioni
sociali) nonostante i generosi afflussi di denaro degli ultimi
anni.
All'intervento straordinario non si è ancora sostituita
una coordinata capacità amministrativa e progettuale,
soprattutto in ambito regionale e locale; i fondi comunitari
sono stati utilizzati con ritardo; crediti concessi da
istituti internazionali stentano a trovare impiego per
mancanza di progetti finanziabili.
La formazione di una cultura d'impresa orientata ad una
sana competitività, rappresenterebbe il miglior presidio
contro i pericoli di contagio derivanti dai circuiti illegali,
terreni di coltura della finanza sommersa e dell'usura.
Il carattere strutturale dei fattori di debolezza
dell'economia meridionale si riflette sulla situazione del
credito locale che presenta numerosi aspetti di anomalia se
posta a confronto con i risultati conseguiti dalle aziende
bancarie nel resto del sistema. Alla stagnazione del credito
fa riscontro la crescita delle sofferenze.
Se la via del riequilibrio della situazione meridionale
passa attraverso la crescita delle iniziative produttive, si
rendono necessari interventi sull'economia e sul flusso di
finanziamento alle imprese: quest'ultima deve essere una
funzione tipica del sistema bancario, improntata a criteri di
efficienza allocativa, ma non irrigidita da pregiudiziali
antistoriche o da cautele derinvanti dalla mancanza di moderni
e validi strumenti di analisi del merito creditizio. Un ruolo
primario può essere svolto dalle banche che hanno tradizionale
radicamento nell'area meridionale. Compito di tutto il sistema
creditizio e finanziario è quello di contribuire alla crescita
di una cultura d'impresa,
Pag. 218
attraverso la selezione di progetti industriali basata sulla
valutazione delle reali prospettive reddituali e l'offerta di
un servizio di assistenza finanziaria globale alle medie e
piccole imprese; queste ultime, infatti, possono rappresentare
un fattore propulsivo per l'intera area.
Un miglioramento di efficienza generale e un approccio
più moderno alle necessità della piccola clientela si rende
necessario anche per contrastare i fenomeni di usura, che,
oltre a costituire un canale di proficuo investimento di
risorse, rappresenta anche uno strumento per le organizzazioni
mafiose per appropriarsi di attività economiche legali.
In prospettiva, nuove opportunità per la ripresa
economica nel Mezzogiorno potrebbero derivare dall'attuazione
di provvedimenti legislativi che, delineando una nuova
filosofia dell'intervento pubblico, assicurino il passaggio ad
una gestione ordinaria delle politiche di sviluppo (così per
il sostegno alle nuove iniziative industriali e della
imprenditorialità giovanile).
Si è quindi in presenza di una fase cruciale per
l'economia del Mezzogiorno, che necessita di pronti interventi
di sostegno nel settore infrastrutturale e di nuovi stimoli
imprenditoriali e concorrenziali per avviare il decollo delle
attività produttive, dopo la preoccupante situazione di stasi
del 1994.
2. La penetrazione mafiosa nelle attività economiche.
L'imprenditoria mafiosa.
Passando ad un'ottica maggiormente specifica, è facile
osservare come la gestione mafiosa di attività imprenditoriali
sconvolga le condizioni che assicurano la libertà di mercato e
di iniziativa economica e la funzione sociale della proprietà
privata, sì da violare gli artt. 41 e 42 della Costituzione.
In verità, sono gli aspetti imprenditoriali che conferiscono
al fenomeno mafioso quella dimensione nazionale e
internazionale che gli viene ormai universalmente
riconosciuta, dal momento che la mafia, nelle sue
manifestazioni più attuali, si insinua insidiosamente e
surrettiziamente nel tessuto economico dei Paesi in cui opera,
ponendosi al confine con la criminalità economica e
finanziaria e superando così ogni schema regionale e ogni
delimitazione territoriale. Infatti, l'imprenditorialità
mafiosa, nel momento in cui maneggia ed investe ricchezza, si
avvicina alla criminalità economica e degli affari, sia perchè
entra in contatto con ambienti finanziari dediti a questo tipo
di illegalità "rispettabile", sia perchè ambisce a sua volta a
trasformarsi in "criminalità dal colletto bianco",
naturalmente senza cessare per questo di essere mafiosa e
senza rinunziare ai metodi mafiosi di cui non sa fare a
meno.
E' in questo contesto che si spiega, ad esempio,
l'accesso privilegiato al circuito bancario di cui spesso
dispongono i gruppi imprenditoriali mafiosi, e che consente
loro di disporre di denaro liquido con una facilità per lo più
sconosciuta agli altri imprenditori: è stato osservato che
tale accesso privilegiato non viene garantito solo da una rete
di relazioni clientelari e di affari stabilite a livello di
piccole banche
Pag. 219
locali, ma anche da complessi giri di amicizie e di
rapporti poco chiari con funzionari direttivi di importanti
banche nazionali.
Nel medesimo contesto si spiega quella sorta di alleanza
tra mafia imprenditrice e grandi imprese non mafiose
stabilitasi nel corso degli anni Settanta (quando le grandi
imprese, in particolare talune grandi imprese del Centro-Nord,
trovano conveniente servirsi dell'opera delle imprese mafiose
locali), che è venuta alla luce grazie a taluni processi
penali degli ultimi lustri. E' emerso come una delle ragioni
principali del consolidarsi di questa alleanza stia nel fatto
che essa si traduce in un insidioso quanto sofisticato
meccanismo di pressione nei confronti dello Stato, capace di
far salire artificialmente il costo degli investimenti
pubblici nel Mezzogiorno: è ormai noto che nelle zone più
tradizionalmente inquinate dal fenomeno mafioso i prezzi base
delle aste per i lavori pubblici vengono lievitati del 15 per
cento circa, con la motivazione che non bisogna scoraggiare i
grandi imprenditori del Nord dall'operare in quelle zone, ove
essi sanno di dover pagare la tangente. Ed è così che in
quelle aree geografiche si registra spesso una peculiarissima
collusione strumentale tra le grandi imprese non mafiose e i
gruppi mafiosi che controllano il territorio.
Giova ricordare come la elaborazione giudiziaria e
dottrinale si è cimentata nell'analisi di una probabile
categorizzazione degli imprenditori che, nelle regioni
meridionali, hanno stabilito rapporti più o meno costanti ed
organici con le organizzazioni criminali.
Si è ritenuto così che si possano distinguere
"imprenditori collusi quelli, cioè disposti a trovare con i
mafiosi un accordo attivo dal quale derivano obblighi
reciproci di collaborazione e scambio; "imprenditori clienti"
quelli cioè che stabiliscono interazioni reciprocamente
vantaggiose per il perseguimento di interessi comuni nel
quadro di una particolare relazione clientelare; "imprenditori
strumentali" quelli che non avendo rapporti continuativi,
negoziano caso per caso la eventuale reiterazione del patto
secondo le esigenze contingenti. Infine "gli imprenditori
subordinati" quelli cioè assoggettati alla mafia attraverso un
rapporto non interattivo, fondato sulla intimidazione o sulla
pura coercizione, finalizzata ad ottenere prestazioni, come ad
esempio il pagamento della protezione.
Categoria, questa difficilmente ascrivibile al settore
delle imprese aggiudicatesi o ruotanti intorno alle commesse
pubbliche, nè diversamente generalizzabile, quale pretesto per
un giustificazionismo e, in ultima istanza, per la non
punibilità perchè operanti in contesti malavitosi.
Se per la categoria degli "imprenditori subordinati si
sostiene la non punibilità, perchè assoggettati a costrizioni
di natura estorsiva tale che non potrebbe esigersi un
comportamento diverso da quello tenuto, casi tuttavia da
esaminarsi singolarmente, per le restanti individuate
categorie vale far riferimento alla motivazione di ordinanza
di custodia cautelare del GIP Tribunale Napoli n.1637/A/95 del
10/06/95. In tale provvedimento si evidenziano interessi
economici autonomi perseguiti dagli imprenditori mediante il
sistema, sopraillustrato, di false fatturazioni e
sovrafatturazioni, che permette loro di pagare la tangente a
politici e alla camorra ottenendo in affidamento gli appalti
con la garanzia dell'approvazione dei più alti costi.
Pag. 220
Il "tipo di rapporto che si viene così a sviluppare tra
imprenditore e camorra, sottolinea il GIP di Napoli, passa
mano a mano dalla soggezione alla compartecipazione con la
presa di possesso finale delle capacità imprenditoriali e
delle relazioni pubbliche dell'imprenditore da parte
dell'organizzazione criminale".
E' evidente quindi che, al di là delle categorizzazioni,
simili diffuse condotte costituiscono, a tutti gli effetti,
partecipazione al reato associativo di tipo mafioso.
Infatti, la valenza di cooperazione e di rilevante
vantaggio reciproco, l'esplicarsi in "prestazioni diffuse" a
favore del sodalizio mafioso, il carattere altamente
personalizzato del rapporto clientelare di scambio, stabile e
continuativo, nonchè l'esistenza di un movente autonomo
dell'imprenditore che però inevitabilmente si sovrappone, si
intreccia e si confonde con le finalità associative, sono
tutti elementi atti ad integrare un vero e proprio contributo
alla vita dell'ente associativo, apportato in guisa tale da
assumere significatività e concludenza in termini di
affectio societatis.
Questo principio è stato recentemente recepito dal g.i.p.
di Bari relativamente all'inchiesta giudiziaria riguardante la
cosiddetta "malasanità" del capoluogo pugliese (27 marzo 1995,
Biallo + 17), mentre esso era stato platealmente negato alcuni
anni fa da una discussa sentenza del giudice istruttore di
Catania relativa alla "contiguità mafiosa" dei cavalieri del
lavoro del capoluogo etneo (28 marzo 1991, Amato + 64).
Quest'ultima sentenza aveva ritenuto che tale "contiguità" non
fosse penalmente perseguibile in quanto "imposta dall'esigenza
di trovare soluzioni di 'non conflittualità' con la mafia",
sul presupposto che "nello scontro frontale risulterebbe
perdente sia il più modesto degli esercenti sia il più ricco
titolare di grandi complessi aziendali". Ma unanimi erano
state le critiche della dottrina, posto che le condotte degli
imprenditori catanesi erano costellate da rilevanti azioni di
sostegno al clan malavitoso (per esempio, assunzioni di favore
di operai affiliati, anche con funzione di copertura delle
illecite attività associative), da essi realizzate per una
precisa contropartita, e cioè per favorire la loro espansione
imprenditoriale, come ad esempio in occasione dell'apertura di
un cantiere nell'area palermitana.
Se è assolutamente ineludibile l'esigenza di non lasciare
esenti da sanzione gli imprenditori collusi, altrettanto
ineludibile è il dovere dello Stato di intervenire con
appropriate iniziative antiracket e antiusura, volte a
sostenere gli imprenditori subordinati e ad aiutarli a
uscire dalla situazione di subordinazione.
Prima di affrontare questo secondo aspetto, occorre
trarre, dalle analisi effettuate, possibili rimedi da adottare
rispetto al sistema di collusioni sopra prospettate.
Da alcune parti si avanza l'ipotesi di incentivare alla
defezione, con l'impunità dai reati associativi e dai reati
fiscali, chi "confessa", sul presupposto che il sistema si
regge sul fatto che i diversi soggetti del rapporto non hanno
interesse alla dissociazione.
Non si può escludere a priori che tale ipotesi potrebbe
dare positivi risultati, e tuttavia non può sottovalutarsi che
l'estensione fino a questo punto della rinuncia dello Stato
alla applicazione delle sue
Pag. 221
leggi sanzionatorie aprirebbe inevitabilmente alla
facoltatività dell'azione penale, con tutte le problematiche
di ordine costituzionale e non, che ne deriverebbero.
Ma soprattutto preme rilevare la necessità di non far
dipendere la rottura del sistema esclusivamente dal singolo
imprenditore, peraltro soggetto ad elevato rischio soprattutto
ove ormai la sua partecipazione alle strutture criminali sia
divenuta organica.
Occorre invece che lo Stato, in primis, provveda a
cambiare le regole con un'articolata strategia, che riguardi
sia il sistema economico che quello politico e pubblico così
da ridurre al minimo le occasioni di intrecci collusivi e
corruttivi.
La Commissione pertanto, nella convinzione che questo sia
il nodo centrale del risanamento della vita pubblica e il
terreno fondamentale su cui sconfiggere le potenzialità
economiche, enormemente accresciute con questo sistema, della
criminalità organizzata, si impegnerà nel prossimo sviluppo
del programma, a verificarne lo stato attuale e quindi a
offrire indicazioni e soluzioni che contribuiscono ad
accelerare un processo rigenerativo dello Stato.
3. Il fenomeno dell'usura: occasione di produzione e di
reinvestimento di capitali mafiosi.
Il fenomeno dell'usura costituisce una delle forme di
reinvestimento più proficue per i proventi criminali e
consente alle organizzazioni mafiose di pervenire al
progressivo controllo di attività imprenditoriali "pulite",
esautorando con forme coercitive gli originari proprietari.
Interi comparti di attività produttive, che hanno subito più
di altri la situazione economica recessiva, corrono il rischio
di essere assunti sotto il loro controllo, attraverso
meccanismi idonei a produrre il graduale esautoramento di
quelli che abbiamo definito imprenditori subordinati, sino
alla loro definitiva estromissione dal mercato.
L'usura è quindi, sotto il profilo sociale, una delle
modalità più diffuse, devastanti e pericolose di
manifestazione della criminalità organizzata.
Le finalità perseguite nell'attività di usura sono
molteplici ed essenzialmente collegate alla "dimensione
finanziaria" del soggetto che la pone in essere: si va dai
prestiti relativamente piccoli effettuati da soggetti che
operano con modalità più o meno "artigianali", alla grande
attività di riciclaggio del denaro sporco, posta in essere
dalle organizzazioni mafiose. Gli elementi tipici in comune
alle varie connotazioni assunte dal fenomeno è rappresentato
dall'approfittamento di uno stato di bisogno;
dall'applicazione di tassi di interesse senza alcuna
correlazione con l'andamento del mercato e che generano
abnormi profitti; dall'esercizio di minacce e costrizioni per
il recupero dei crediti maturati.
L'usura, nelle sue diverse manifestazioni, realizza
sempre una forma di violenza attraverso un'operazione
finanziaria.
Può, in alcuni casi, anche essere riduttivo e fuorviante
considerare l'usura solo una questione di misura del tasso di
interesse; altre clausole
Pag. 222
vessatorie possono anche andare al di là dell'ambito
meramente finanziario o contrattuale.
I settori più esposti a tale tipo di minaccia sono quelli
del commercio e dell'artigianato, vale a dire l'amplissima
fascia di attività economiche di piccola e media dimensione
che caratterizza la struttura economica privata italiana e che
rappresenta uno dei più importanti pilastri, se non il più
importante, nell'organizzazione socio-economica della
nazione.
Il fenomeno, pur con incidenza e pericolosità
differenziate nelle diverse aree del paese, ha raggiunto oggi
diffusione pressochè generalizzata sul piano nazionale. Tale
circostanza può essere riconducibile, oltre che alla
situazione di generale difficoltà economica, ad una scarsa
cognizione finanziaria da parte dei piccoli operatori e ad una
loro incompleta conoscenza delle possibilità di accesso al
credito bancario e delle forme tecniche più adeguate al
proprio fabbisogno. Il tessuto economico produttivo
sviluppatosi negli anni '80 a margine della crescita
dell'industria di medie dimensioni, caratterizzato da
iniziative polverizzate e diffuse, molte volte non era
connotato da una base di conoscenze aziendalistiche adeguate
al nuovo contesto. La sopravvenuta situazione di crisi ha reso
evidente le situazioni di contraddizione.
Anche il sistema bancario non sembra che abbia posto in
essere finora azioni efficaci per facilitare l'accesso a fonti
legali di provvista da parte di quei soggetti che, seppur
dotati di un progetto imprenditoriale interessante, non sono
in possesso di affidabile consistenza patrimoniale.
A ciò aggiungasi l'affermazione di un modello
comportamentale basato sul consumo, come forma di affermazione
sociale ed alla conseguente fittizia affermazione, sulla base
di suggestioni di massa, di bisogni voluttuari intesi come
primari; per il soddisfacimento di questi, molti non tengono
conto dei rischi connessi all'acquisizione di risorse a titolo
di debito in dimensione non coerente alla propria capacità
reddituale.
A tali elementi, che hanno influenzato la "domanda"
potenziale, ha fatto riscontro una disponibilità sempre
crescente di mezzi finanziari di origine illecita da parte
delle organizzazioni criminali, da reinvestire o da riciclare
in ambiti più o meno legali.
3.1 Nel corso delle audizioni svolte dalla Commissione
nell'ultimo anno la gravità del fenomeno dell'usura ha trovato
importanti conferme.
La Procura della Repubblica di Napoli ha riferito che in
quell'area la principale forma di reimpiego dei capitali
illeciti è costituita appunto dall'usura, nel senso che i
principali esponenti delle organizzazioni camorristiche hanno
costantemente impiegato il loro denaro nel prestito ad alto
interesse ad imprenditori, con tassi che vanno da un minimo
del 10 per cento mensile a un massimo del 40-50 per cento per
i finanziamenti a breve, riuscendo spesso a sostituirsi agli
imprenditori
Pag. 223
nelle attività commerciali.
(24) Audizioni 6 febbraio 1995
del procuratore Dott. A. Cordova e del sostituto procuratore
Dott. P. Mancuso.
Informazioni del tutto analoghe hanno
fornito le Procure della Repubblica di Salerno,
(25) Audizione 8 febbraio
1995 del procuratore Dott. E. Addesso.
di Catanzaro
e di Lametia Terme.
(26) Audizioni 1^ marzo 1995, rispettivamente del
procuratore Dott. M. Lombardi e del procuratore Dott. G.
Pileggi.
La Procura della Repubblica di Crotone ha inoltre
sottolineato come le vittime dell'usura, pesantemente
intimidite, siano per lo più assolutamente non collaborative.
(27) Audizione 2 marzo 1995 del procuratore Dott. G.
Staglianò.
Il presidente della Confcommercio di Napoli ha riferito
di commercianti che ricorrono a usurai - non riuscendo ad
avere finanziamenti dalle banche per mancanza di garanzie
reali - i quali finiscono poi con l'impadronirsi delle
aziende.
(28) Audizione di Cosimo Capasso, 7 febbraio 1995.
Il sindaco di Salerno considera quello dell'usura un
fenomeno in crescita, aggravato dalle posizioni paradossali
assunte a volte dagli stessi usurati, che finiscono con il
considerare il sistema bancario come nemico e l'usuraio come
un amico.
(29) Audizione di Vincenzo De Luca, 8 febbraio 1995.
Accenti analoghi ha usato il sindaco di Pagani, il quale ha
lamentato che il comportamento eccessivamente rigido degli
istituti di credito faciliterebbe di fatto il ricorso agli
usurai.
(30) Audizione di Antonio Donato, 8 febbraio 1995.
Da più parti, del resto, vengono sollevati rilievi
critici circa l'atteggiamento degli istituti di credito. Così,
il vicepresidente della Confesercenti di Salerno
(31) Audizione di Eugenio Arcuto, 8 febbraio 1995.
rileva che i tassi praticati
dal sistema bancario, nella sua zona, arrivano al 20
per cento, così producendo una disparità rispetto ai tassi
pagati, per esempio, dagli imprenditori di Milano. Il
rappresentante della Confartigianato di Catanzaro
(32) Audizione di Salvatore Paone, 1^ marzo 1995.
lamenta pure questo tipo di disparità ed afferma che,
di fatto, le stesse banche
spingono l'imprenditore calabrese nelle braccia dell'usuraio.
Accenti analoghi usa il presidente della Confcommercio di
Crotone
(33) Audizione di Pasquale Lumare, 2 marzo 1995.
Il prefetto di Reggio Calabria
non esclude che nel fenomeno dell'usura vi sia
"la connivenza delle banche".
(34) Audizione 11 gennaio 1995 del prefetto Dott. N.
Rapisarda.
Il Procuratore della Repubblica
di Locri sottolinea che "magari le banche non erogano i
prestiti o i mutui agli onesti, ma li danno ai disonesti che
poi utilizzano i capitali avuti dalle banche per fare lo
strozzinaggio",
(35) Audizione 13 gennaio 1995 del procuratore
Dott. R. Lombardo.
e gli fa eco, con accenti analoghi, il
presidente della Confcommercio di Vibo Valentia.
(36) Audizione 3 marzo 1995 di Giuseppe Rito.
Ancora più inquietante è
l'affermazione del comandante della Guardia di Finanza di
Locri, che parla di esponenti di istituti di credito che
segnalano soggetti usurabili alle cosche o li indirizzano
direttamente verso esponenti della criminalità organizzata.
(37) Audizione di Gianfranco Zarro, 13 gennaio 1995.
Pag. 224
Il commissario straordinario del Governo per il
coordinamento delle misure antiracket
(38) Audizione 15 dicembre 1994 del prefetto Giorgio Musio.
ha espresso il parere che il
sistema bancario "dovrebbe dare aiuti più consistenti rispetto
a quanto fa al momento", sottolineando che nelle zone a
rischio l'usura ha prodotto "un vero e proprio spossessamento
di beni immobili dell'imprenditoria da parte dell'economia
illegale" e produrrà inevitabilmente "altri danni che
deriveranno dai prestiti usurai già assunti, che le persone
non bancabili non saranno in grado di fronteggiare".
3.2 Per avviare un efficace processo di lotta all'usura,
nel contesto più ampio della lotta alla criminalità, occorre
agire, sul piano legislativo, sia nella direzione della
repressione del fenomeno, sia in quella del sostegno agli
operatori economici minacciati o colpiti: in primo luogo,
anche se sul punto non vi è consenso unanime, fissando un
tasso di interesse alla richiesta del quale si configuri il
reato di usura e definendo una soglia certa ed oggettiva per
l'applicazione della relativa aggravante.
Per la determinazione di tale tasso, si potrebbe
prevedere, in luogo di una formulazione basata su un multiplo
del tasso ufficiale di sconto (TUS), dato il carattere di
strumento di politica monetaria, che lo stesso sia stabilito
con un decreto del Ministro del Tesoro su parere del
Governatore della Banca d'Italia. In alternativa, potrebbe
essere fissato un differenziale rispetto ad un "tasso di
mercato", quale il tasso nominale medio dei BOT annuali,
parametro già adottato dalle norme sulla trasparenza
bancaria.
In secondo luogo, appare fondamentale l'istituzione di
uno strumento finanziario di sostegno alle vittime dell'usura.
Potrebbe essere previsto e legislativamente disciplinato un
"Fondo di solidarietà"; il criterio cui ispirarsi per
consentire l'accesso a tale fondo, in situazioni di reale ed
oggettiva difficoltà da parte del richiedente, deve essere
quello di incoraggiare le vittime a collaborare con l'autorità
giudiziaria ai fini di una più efficace azione di
contrasto.
Il sostegno potrebbe concretizzarsi nella concessione di
un prestito ai soggetti che esercitano attività
imprenditoriale, da commisurarsi al danno subito per effetto
degli interessi usurari pagati, con la finalità di favorire il
recupero economico dell'attività e il reinserimento nella
sfera dell'economia legale. L'erogazione del prestito è
opportuno che sia "agganciata" ad una fase dell'attività
giudiziaria, ad esempio l'ordinanza di rinvio a giudizio nei
confronti degli usurai; nelle more, in situazioni di
particolare emergenza, si potrebbe prevedere una
provvisionale.
Un ulteriore terreno di intervento è quello di promuovere
un sostegno finanziario alla nascita e allo sviluppo dei fondi
di garanzia gestiti da fondazioni e associazioni "non-profit",
per incoraggiare l'azione di quelle strutture della società
civile già profondamente impegnate e di cui si auspica la
moltiplicazione.
Lo strumento anche in questo caso potrebbe essere quello
di un fondo appositamente istituito, la cui entità complessiva
può considerarsi
Pag. 225
adeguata, coerentemente alle analisi del fenomeno sin
qui condotte, nella misura di cento miliardi all'anno per tre
anni, sino al raggiungimento di una consistenza di circa 300
miliardi da utilizzare "a rotazione". Tale fondo potrà essere
utile nello sviluppo di convenzioni di garanzia con gli
istituti di credito, oltre a svolgere una efficace azione di
prevenzione, creando le premesse per una congrua disponibilità
di credito per la piccola e media attività commerciale
artigianale e imprenditoriale, sottraendo molti soggetti alla
attività usuraia della criminalità organizzata.
Di fondamentale importanza è la definizione per legge dei
punti sopraelencati, auspicando che essi possano trovare un
adeguato e completo sviluppo nel testo attualmente in
discussione al Senato. E' infatti essenziale una efficace
azione di contrasto all'usura per la difesa di una larga
fascia delle categorie produttive della società italiana.
Nel documento approvato dalla Commissione nella seduta
del 9 marzo 1995, che già delineava alcuni degli elementi
sinora indicati, si è sottolineata altresì la necessità di un
maggior vigore nel perseguimento del reato di esercizio
abusivo dell'attività creditizia, oltre all'opportunità di
varare idonei provvedimenti sospensivi per i procedimenti
civili connessi con i reati di usura.
4. La diffusione del reto di estorsione
Particolarmente connessa con la questione dell'usura è la
diffusione del reato di estorsione. Sussiste una stretta
correlazione tra l'usura e l'estorsione, sia in termini di
soggetti attivi del reato, sia in termini di rapporti di
interdipendenza. L'usura e l'estorsione hanno in comune lo
stato di soggezione psicologica, nel primo caso dovuto alla
situazione economica della vittima, nel secondo prodotto da
violenza fisica o minaccia; tale stato è tipicamente
contrapposto per entrambe le fattispecie alla posizione di
dominio del soggetto che effettua il reato, che è consapevole
di poter sfruttare la situazione di sudditanza psicologica a
suo vantaggio, per poterne conseguire profitti indebiti.
Oltre alla contiguità delle fattispecie, molto spesso i
due fenomeni presentano anche interconnessioni di relazione
causa-effetto: può verificarsi, ad esempio, che il soggetto
usurato subisca atti intimidatori per vedersi costringere alla
restituzione delle somme dovute anche in misura maggiore di
quelle pattuite, in relazione all'aggravarsi, noto alla
controparte, della sua situazione; ovvero che l'attività
estorsiva costituisca il presupposto per il ricorso a pratiche
di usura, sia per il reperimento "esterno" dei fondi per il
pagamento del "pizzo", sia con intervento diretto
dell'organizzazione estorsiva, che consente in tali
circostanze "dilazioni" a condizioni di usura.
Inoltre, frequentemente, i proventi del racket alimentano
il flusso di denaro "sporco" che ha necessità di essere
riciclato in attività legali o messo "a frutto" attraverso
pratiche di usura.
Per entrambe le situazioni la componente fondamentale per
l'efficacia dell'azione di contrasto è la collaborazione del
soggetto che ha subito il reato. Bisogna tenere conto tuttavia
di due aspetti che possono ostacolare l'instaurazione di tale
rapporto con le vittime dei
Pag. 226
reati: nel caso dell'usura, trattandosi di una situazione
avviata su "base volontaria", con una decisione della vittima
di ricorrere al finanziamento di soggetti estranei ai circuiti
legali, può instaurarsi un meccanismo psicologico relazionale
di riconoscenza tra usurato e usuraio, per cui quest'ultimo è
visto prima come un benefattore e, soltanto dopo le richieste
di prestazioni vessatorie, come un persecutore, da temere per
le conseguenze di azioni violente per il recupero dei crediti
indebitamente acquisiti. Nel caso delle estorsioni la
collaborazione di coloro che la subiscono è più difficile per
il permanere delle condizioni ambientali di presenza
oppressiva della delinquenza locale, dalla quale si temono le
possibili ritorsioni su persone e cose.
Di tali elementi occorre tenere conto nella definizione
di strumenti normativi adeguati ad un efficace azione di
contrasto.
Per il reato di estorsione, in particolare, la legge n.
172 del 1992, ha istituito un fondo a cui possono accedere le
vittime del racket. La sua applicazione, peraltro,
fondamentale per la lotta contro le estorsioni ed essenziale
per la creazione di un diffuso spirito di reazione e di lotta
alle iniziative minatorie della malavita da parte dei singoli
operatori minacciati, ha dato luogo ad obiettive difficoltà di
gestione da parte degli organi preposti, soprattutto per
incertezze di carattere interpretativo, non superate
definitivamente dal decreto-legge n.382 del 1993 e dal decreto
interministeriale n.431 del 1994 di modifica al regolamento
del fondo.
Una certa farraginosità della procedura, con il passaggio
delle domande di ammissione ai benefici del fondo attraverso
molteplici fasi e differenti organi ha determinato, in assenza
di criteri di standardizzazione istruttoria, in generale un
calo delle domande nel 1994, con elevato numero delle istanze
non accolte.
(39) Al dicembre 1994, su 218 domande presentate, i
provvedimenti di accoglimento - vuoi di elargizione
definitiva, vuoi di provvisionale - assommavano a 25
(Audizione 15 dicembre 1994 del prefetto Giorgio Musio).
A ciò si accompagna un generale "riflusso" in relazione al
fenomeno, con la rilevante contrazione nella nascita di
associazioni.
Sono state messe a punto alcune proposte di modifica
legislativa che si ripromettono di rendere più snelli i
meccanismi di elargizione del ristoro a favore delle vittime
dell'estorsione e di rendere il risarcimento più aderente alle
reali possibilità e tipologie del danno subìto, salvaguardando
dall'innesco di meccanismi di moral-hazàrd che favoriscano
l'uso di pratiche fraudolente.
Il commissario straordinario del Governo per il
coordinamento delle misure antiracket Audizione 15 dicembre
1994 del prefetto Giorgio Musio.> ha sottolineato
l'opportunità che tutte le domande debbano essere presentate
esclusivamente alle prefetture territorialmente competenti (e
non anche direttamente al Comitato), presso le quali sarebbe
opportuno che si creassero appositi uffici di assistenza nei
confronti delle vittime. Il commissario straordinario ha
altresì riconosciuto che molto spesso le pratiche non sono
andate avanti, a causa delle incertezze insorte sul nesso di
causalità tra l'attentato subito dalla persona che presenta la
domanda e gli atteggiamenti di contrasto
Pag. 227
al racket tenuti dalla medesima persona, ragion per
cui egli ha provveduto a chiarire, con una diretttiva, che la
procedura va assolutamente sganciata dal momento
dell'accertamento giudiziario e va ancorata esclusivamente
alla condizione che "non risulti infondata la prospettazione
del fatto estorsivo" e che "non si ravvisino elementi che
inducano a considerare fraudolenta la condotta di chi presenta
la domanda". Il che corrisponde ad una sorta di parziale
inversione dell'onere della prova e dovrebbe, auspicabilmente,
incoraggiare i prefetti ad assumersi più decisamente la
responsabilità di considerare accertata positivamente la
sussistenza del nesso di causalità, tutte le volte in cui non
sussistano elementi specifici in contrario.
Resta da definire il ruolo delle associazioni
anti-racket, in considerazione della tutela che la forma
associativa può rappresentare per le vittime che collaborano
con l'Autorità giudiziaria. Si pone anche un problema di
selezione di quelle che effettivamente presentano requisiti di
serietà e affidabilità anche in relazione all'eventuale
funzione di sostegno, in termini di convalida della veridicità
delle motivazioni a corredo di istanze individuali. Andrebbe
valutato, sotto tale profilo, anche l'eventuale apporto delle
associazioni di categoria, che possono fornire referenze più
approfondite su eventuali associati che dovessero inoltrare
richieste di ammissione ai benefici di legge.
5. L'attività di contrasto alla penetrazione degli
interessi criminali nell'economia "legale". Il sistema
bancario e l'attività di riciclaggio.
Lo sviluppo, la diffusione e la pervasività della
criminalità organizzata hanno indotto negli ultimi anni i
paesi industrializzati a individuare forme di contrasto
adeguate alla progressiva penetrazione degli interessi
criminali nell'economia "legale".
Gli obiettivi di diversificazione economica e finanziaria
ora perseguiti dalle maggiori organizzazioni delinquenziali
vanno ad inserirsi in un contesto di integrazione e di
globalizzazione dei mercati; una valida strategia di
interdizione deve quindi assumere connotati di
interdisciplinarietà, essere dimensionata su scala
sovranazionale e basarsi su un'azione fortemente coordinata.
In tale ottica, ogni stato della Comunità internazionale è
chiamato a profondere il proprio impegno in modo coerente
all'operato degli altri.
Questi aspetti sono stati costante oggetto di analisi e
valutazione da parte della Commissione, che si è altresì
impegnata a favorire l'acquisizione di una più completa
informativa sul piano tecnico-legislativo con l'audizione del
Governatore della Banca d'Italia, dott. Antonio Fazio, del 7
ottobre 1994.
L'impegno scaturito nella promozione di valide soluzioni
normative è caratterizzato da una duplice consapevolezza:
dell'efficacia, sul piano investigativo e repressivo, di una
sistematica azione di attacco ai patrimoni di formazione
illecita nel momento della loro "trasformazione" in attività
economiche o finanziarie "pulite"; della necessità di
prevenire elementi di instabilità nei mercati finanziari e nel
sistema dei pagamenti, generati dall'afflusso di ingenti
risorse.
Pag. 228
Infatti, per il primo aspetto, la fase di riciclaggio
costituisce un momento di strutturale "debolezza" nel circuito
di produzione ed impiego dei proventi di origine criminosa, in
quanto si rende necessario l'intervento di operatori che,
seppur contigui all'organizzazione delinquenziale, ne
risultano fondamentalmente estranei per logiche ed estrazione
comportamentale.
Per il secondo aspetto, la ricollocazione dei capitali di
provenienza criminosa, avendo finalità non propriamente
economiche, può alterare l'affermazione di corretti criteri
allocativi, minacciando l'integrità dei singoli operatori e
minando la stessa affermazione della libera iniziativa, con un
danno all'efficienza e alla stabilità complessiva del sistema
finanziario.
5.1 Tali esigenze hanno costituito dei punti di
riferimento alla recente evoluzione dell'ordinamento bancario
e finanziario italiano. Infatti, sono state introdotte
numerose previsioni normative specificamente finalizzate a
contrastare l'attività di riciclaggio, in linea con gli
obiettivi di coordinamento su scala internazionale che il
carattere di "globalita" assunto dal fenomeno ha imposto.
In particolare, la legge del 5 luglio 1991, n. 197,
rappresentando il primo intervento legislativo con carattere
di organicità per la prevenzione e il contrasto del fenomeno,
ha avuto un impatto sulla comunità finanziaria fortemente
innovativo, avendo tra i suoi obiettivi lo sviluppo di
un'etica professionale e di una cultura che coniughi i doveri
giuridici a valori deontologici.
Il mutamento disciplinare ha assunto sia una portata
"strutturale", con l'introduzione di controlli su tutti i
soggetti creditizi e finanziari anche nella fase di
costituzione, sia una portata "operativa", con l'emanazione di
disposizioni sulle modalità di rilevazione delle singole
operazioni "a rischio".
Sul piano strutturale, è stato realizzato un
significativo ampliamento del novero dei soggetti sottoposti a
controlli, qualificando giuridicamente attività di carattere
finanziario in precedenza svolte senza alcuna forma di
supervisione. Tutti i soggetti che esercitano attività
finanziaria sono stati equiparati, ai fini
dell'assoggettamento, ai tre fondamentali obblighi
antiriciclaggio (identificazione, registrazione e segnalazione
di operazioni sospette).
Sul piano operativo, i punti qualificanti di tale
disciplina sono rappresentati dal divieto di trasferimenti
significativi di contante, se non a mezzo di intermediari
abilitati e sottoposti a vigilanza; dall'obbligo per tali
intermediari di registrare le transazioni della specie e
identificare la clientela richiedente, facendo affluire le
informazioni in un archivio informatico aziendale di agevole
accesso alle autorità di controllo; all'obbligo di
segnalazione da parte degli enti creditizi e finanziari delle
operazioni sospette, che ha introdotto il principio della
collaborazione "attiva".
I rilevanti cambiamenti introdotti dalla nuova legge, in
parallelo all'evoluzione complessiva che assumeva l'intero
quadro normativo del sistema finanziario, hanno comportato non
pochi problemi nella fase di attuazione; ciò in particolare,
per la complessità delle fattispecie da
Pag. 229
disciplinare nella fase di normazione secondaria e la
difficoltà di avvio organizzativo e procedurale dell'attività
di vigilanza sui nuovi soggetti da parte degli enti
istituzionalmente preposti (Ministero del Tesoro, UIC, Banca
d'Italia, CONSOB, ISVAP, Guardia di Finanza, ecc.).
Tra i provvedimenti attuativi, si rammentano i decreti
del Ministero del Tesoro: del 19.12.1991, sulle disposizioni
in tema di identificazione dei soggetti e registrazione dei
dati; del 7.7.1992, sulla standardizzazione per la costruzione
dell'archivio unico informatico; del 7.8.1992 sulle modalità
con le quali l'UIC effettua analisi statistiche dei dati
aggregati per far emergere fenomeni di riciclaggio in
determinate zone territoriali; del 30.12.1992 di modifica dei
precedenti; del 29.10.1993 sulle modalità di identificazione
dei soggetti e registrazione dei dati nell'ambito dei rapporti
intercreditizi internazionali.
Alcune previsioni originarie della "197" sono state
altresì modificate dall'entrata in vigore del Testo Unico (D.
Lgs. n.385 del 1^ settembre 1993), che ha ridisegnato le
caratteristiche degli enti da assoggettare a controllo. Le
innovazioni hanno riguardato la distinzione tra gli
intermediari che svolgono professionalmente attività di
carattere finanziario e i soggetti che, pur svolgendo attività
della specie, non operano nei confronti "del pubblico".
I soggetti finanziari non bancari si articolano ora in
quattro categorie: intermediari che svolgono attività nei
confronti del pubblico, iscritti nell'elenco "generale"
gestito dall'UIC (art. 106 T.U.); intermediari che, in
riferimento all'attività svolta, alla dimensione ed al
rapporto tra indebitamento e patrimonio, sono iscritti in un
elenco "speciale" tenuto dalla Banca d'Italia (art.107);
soggetti che svolgono attività finanziaria in via esclusiva e
prevalente, ma non nei confronti del pubblico, iscritti in
apposita sezione dell'elenco generale (art.113); consorzi di
garanzia collettiva fidi, di cui alla legge n.315/91, iscritti
in apposita sezione dell'elenco generale. La mancata
iscrizione ad uno degli elenchi integra la fattispecie di
esercizio abusivo di attività finanziarie, ora prevista e
sanzionata quale illecito penale dall'art. 132 T.U.
Per rendere operanti tali previsioni, è stata realizzata
un'ulteriore fase di normazione amministrativa: si ricordano i
tre D.M. del 6 luglio 1994, aventi rispettivamente ad oggetto
i criteri in base ai quali sussiste l'esercizio in via
prevalente, non nei confronti del pubblico, delle attività
finanziarie di cui all'art. 106; le modalità di iscrizione dei
soggetti operanti nel settore finanziario di cui agli artt.
106, 113 e 155 del D. lgs. n.385/93; la determinazione del
contenuto delle attività indicate nell'art. 106, comma 1,
nonchè in quali circostanze ricorre l'esercizio nei confronti
del pubblico. Con il D.M. del 28/7/1994 è stato disciplinato
l'esercizio in Italia delle attività finanziarie elencate
nell'art. 106, comma 1, da parte di soggetti aventi sede
legale all'estero.
In sostanza, tali disposizioni hanno previsto una forma
di controllo di "stabilità", peraltro attenuata rispetto ad
altri intermediari creditizi e finanziari, solo sui soggetti
di cui all'art. 107, mentre per gli altri sono richiesti
essenzialmente requisiti preventivi ed obbligo di iscrizione
negli elenchi.
Gli operatori finanziari censiti sono attualmente 20.184,
di cui: 1.758 nell'elenco generale ex art.106 (di questi
ultimi, 266 nell'elenco
Pag. 230
speciale ex art .107); 19.275 non esercenti presso il
pubblico, inclusi nella sezione dell'elenco generale ex
art.113; 751 nella sezione dei consorzi di garanzia collettiva
fidi.
Razionalizzati i criteri di accesso all'attività
finanziaria e inquadrati i soggetti "abilitati" in un sistema
di controlli, permanevano difficoltà di ordine operativo per
l'effettiva andata "a regime" delle specifiche disposizioni
relative al monitoraggio e alla segnalazione delle operazioni
"sospette".
Due interventi normativi hanno contribuito a "sbloccare"
l'efficacia delle procedure e dei controlli previsti dalla
"197": la modifica degli artt. 648-bis e 648-ter del codice
penale e la pubblicazione da parte della Banca d'Italia delle
"Indicazioni operative per la segnalazione di operazioni
sospette" (cd. "decalogo").
La legge n.328 del 9 agosto 1993, che ha innovato secondo
le indicazioni della Convenzione di Strasburgo i cennati
articoli del codice penale, ha esteso la nozione del reato di
"riciclaggio", ricomprendendo in essa il reimpiego in attività
legali dei proventi derivanti da qualsiasi delitto non
colposo. In precedenza, infatti, la fattispecie era collegata
a ipotesi definite di reato (traffico di droga, estorsione
aggravata, sequestro di persona o rapina aggravata) e le
banche erano chiamate, per decidere se effettuare o meno la
segnalazione, a individuare la tipologia di illecito, oltre
l'origine "sospetta" del denaro. L'estrema cautela degli enti
creditizi, in assenza di adeguati strumenti d'indagine, e la
conseguente esiguità del numero delle segnalazioni rendevano
la norma di scarsa efficacia.
Il "decalogo", emanato dalla Banca d'Italia nel febbraio
1993 ed aggiornato nel novembre del 1994, contiene, oltre ad
un insieme di "guidelines" che dovrebbero indurre gli enti
creditizi ad acquisire una conoscenza sempre più approfondita
del proprio cliente (principio del "know your customer"), una
casistica esemplificativa di indici oggettivi di anomalia, in
presenza dei quali l'intermediario può valutare se le
transazioni poste in essere dal cliente siano o meno
connaturate alle caratteristiche della sua attività; la banca,
esaminato lo "screening" ed esperiti gli approfondimenti
opportuni, può così decidere in quali casi procedere ad
informare l'Autorità investigativa.
Tali interventi hanno altresì contribuito a definire e
chiarire i differenti piani di responsabilità dei soggetti
coinvolti dalla procedura prevista dalla legge 197: la
"collaborazione attiva" degli enti creditizi e finanziari
rileva solo nell'appurare l'eventuale anomalia sul piano
tecnico di talune transazioni e l'insorgenza di un mero
sospetto sul carattere illegale dei fondi utilizzati. La
trasmissione della segnalazione ad un Organo d'indagine
determina l'uscita dalla "sfera finanziaria" dell'informazione
e il suo passaggio sul piano dell'accertamento investigativo,
al fine di vagliare la reale sussistenza di ipotesi di
reato.
5.2 Il sistema bancario sì è "attrezzato" sul piano
statistico-informatico sviluppando il sistema GIANOS, che
consente il primo screening delle operazioni in via
automatica. La valutazione oggettiva dei responsabili della
banca rimane comunque centrale nella logica complessiva
Pag. 231
della procedura e costituisce l'imprescindibile
premessa all'inoltro della segnalazione all'Autorità di
polizia.
Gli operatori, avendo ora percorsi più lineari di
analisi, hanno così moltiplicato le segnalazioni: nel 1994
sono stati 732 i casi (contro 191 del 1993) che hanno dato
corso ad approfondimento di indagine da parte della Guardia di
Finanza.
A tali riferimenti delle singole aziende, si aggiungono
le elaborazioni "di sistema" prodotte dall'UIC. Questo infatti
analizza a livello aggregato i dati inviati mensilmente dagli
intermediari abilitati sui trasferimenti di denaro, con
particolare riguardo a quelli relativi a transazioni in
contante e in titoli al portatore, al fine di individuare
eventuali "zone di anomalia" per l'entità o la "direzione" dei
flussi finanziari.
L'UIC, che si è trovato a dover gestire una notevole mole
di informazioni (si è passati dagli 11 milioni di record nel
1993, equivalenti a 379 milioni di operazioni, ai quasi 15
milioni del 1994, corrispondenti a circa 410 milioni di
operazioni), ha definito tecniche di ricerca e di analisi
statistica dei dati aggregati che consentono di rilevare
fenomeni significativi in ciascun contesto territoriale e,
specificamente, in quelli considerati "a rischio" anche
incrociando le informazioni con dati di altre fonti, anche su
base locale. In particolare, al fine di ottenere risutati
qualitativamente più elevati, è in fase di studio la
possibilità di applicazione di ulteriori sofisticati strumenti
informatici, quali le reti neurali e la visualizzazione
scientifica.
5.3 L'attività di analisi di carattere "macro", basata su
elaborazioni e analisi statistiche di sistema, trova il
necessario complemento nei controlli aziendali predisposti ed
effettuati dall'UIC e dalla Banca d'Italia, d'intesa con la
CONSOB, e dalla Guardia di Finanza, per le società finanziarie
non operanti con il pubblico.
Momenti salienti, infatti, della più ampia attività di
vigilanza, in relazione alle finalità della legge n.197/91,
sono stati, nello scorso anno, la verifica del rispetto da
parte degli intermediari abilitati delle procedure imposte per
prevenire l'inquinamento del sistema finanziario, la tenuta e
la gestione dell'elenco degli intermediari abilitati con
connessi compiti di verifica della documentazione trasmessa e
le procedure sanzionatorie connesse ad infrazioni della
richiamata legge. Per queste ultime, su un novero di 26.000
segnalazioni pervenute, risultano elevati 14.000 processi
verbali, di cui 9.500 già definiti con decreto del Ministero
del Tesoro. L'importo delle sanzioni irrogate è stato di circa
1,6 miliardi di lire.
Di particolare rilievo risulta l'attività del Comitato,
costituito presso il Ministero del Tesoro con D.M. dell'8
giugno 1993, per la risoluzione delle problematiche connesse
all'applicazione della legge n.197/91 e di cui fanno parte
rappresentanti del Tesoro, della Banca d'Italia, dell'UIC e
della Guardia di Finanza. Essa è stata soprattutto indirizzata
all'emanazione di pareri ed interpretazioni tendenti ad
assicurare uniformità di applicazione delle disposizioni a
fattispecie diversificate.
Pag. 232
5.4 Il riciclaggio è un'attività in costante mutazione ed
assume forme via via più complesse; in relazione a ciò, si
rende necessaria un'opera continua di adeguamento delle
disposizioni, che, nel contesto italiano, è facilitata
dall'impianto di elevata flessibilità della legge n.197/91.
Dopo la fase di iniziale "rodaggio", dovuto anche alla
dimensione delle innovazioni introdotte, sembra prefigurarsi
un progressivo dispiegamento dell'efficacia delle soluzioni
normative adottate. Peraltro, alcune disfunzioni più
rilevanti, emerse in questa fase di prima applicazione della
disciplina, potrebbero indurre ad utilizzare l'occasione
offerta dal disegno di legge "comunitaria" per il 1994, che
ricomprende il recepimento della direttiva dell'Unione Europea
in materia, per operare alcune modifiche anche al "corpus"
della "197".
Il provvedimento, approvato dalla Camera dei Deputati il
4 aprile 1995, è attualmente all'esame del Senato (DDL
n.1600/S) e prevede un'"integrazione" della disciplina
vigente, poichè quest'ultima gia costituisce il pieno
recepimento delle previsioni della direttiva UE. Nell'art. 10
sono delineati i princìpi e i criteri direttivi di tale
integrazione: in particolare, è previsto, tra l'altro, il
riordino del regime di segnalazione al fine di conseguire la
massima efficacia e tempestività nell'organizzazione,
trasmissione, ricezione ed analisi delle segnalazioni;
l'adozione di adeguate misure dirette alla protezione dei
soggetti che effettuano le segnalazioni e alla tutela della
riservatezza delle stesse in ogni sede; l'estensione della
disciplina della "197" a quelle attività particolarmente
suscettibili di utilizzazione a fini di riciclaggio per il
fatto di realizzare l'accumulazione o il trasferimento di
ingenti disponibilità economiche o finanziarie.
In relazione ai primi due obiettivi, un'ipotesi
praticabile sembrerebbe quella di far confluire le
informazioni in organo centrale specializzato in materia
finanziaria, in grado di rendere agevole e uniforme il
colloquio con gli intermediari e di consentire una valutazione
tecnica preventiva del grado di anomalia delle singole
operazioni. Le finalità di tutela personale degli operatori
finanziari verrebbero assicurate attribuendo una
qualificazione processuale di "atto pre-investigativo" alla
segnalazione, in modo da non implicare la chiamata in causa in
veste testimoniale del soggetto che ha effettuato la
stessa.
I rapporti tra intermediari e organi inquirenti potranno
inoltre divenire più agili e meno costosi attraverso
l'istituzione dell'anagrafe dei conti e dei depositi della
clientela prevista dall'art. 20 della legge n.413 del 1991,
che consentirà di individuare rapidamente gli operatori presso
i quali indirizzare gli accertamenti di polizia giudiziaria,
senza ampliare le richieste a tutto il sistema nazionale. Va
perciò colmato il ritardo nell'emanazione del decreto
istitutivo della banca dati anagrafica, previsto dalla legge
entro il mese di giugno del 1992.
Tra i settori per i quali appare opportuna l'estensione
della disciplina antiriciclaggio, particolare rilevanza
assumono le case da gioco e le società di servizi per il
trasporto di valori; queste, infatti, all'attività iniziale
accompagnano sempre più di frequente ulteriori funzioni di
smistamento delle banconote. Piu in generale, andrebbero
assoggettati
Pag. 233
agli obblighi della "197" tutti coloro che svolgono, anche
nell'esercizio di professioni codificate, funzioni di
mediazione e di procacciamento di affari nel settore
finanziario.
5.5 Il quadro normativo vigente, seppur richiede margini
di miglioramento, fornisce strumenti adeguati, se
correttamente utilizzati, per il contrasto all'attività di
riciclaggio. Tale assunto trova conferma nelle valutazioni
positive degli organismi sovranazionali preposti allo studio e
alla repressione del fenomeno (GAFI) e nei riconoscimenti in
sede ONU e OCSE alle professionalita e alle esperienze
acquisite dagli operatori italiani.
Da ultimo, la prospettata attribuzione all'Italia della
presidenza del Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale
(GAFI) nella sessione 1996/1997 costituisce un ulteriore
attestato di riconoscimento internazionale per l'impegno del
nostro Paese nella lotta al riciclaggio.
I principi informatori e le scelte strategiche a presidio
di tale disciplina, coerenti alle riflessioni maturate nelle
sedi internazionali (ONU, Convenzione di Vienna del 1988,
Comitato di Vigilanza Bancaria di Basilea, Dichiarazioni di
principi del 1988) e fondati su valori etici e di deontologia
comuni al sistema bancario mondiale, risultano conformi sia ai
documenti di indirizzo (Raccomandazioni del GAFI), sia alla
normativa comunitaria (Direttiva n.91/308), come peraltro già
attestato dalla Commissione "Antimafia" nella Relazione
annuale del 19.2.1992. Essi confermano la loro validità anche
alla luce delle più recenti linee evolutive della riflessione
in materia (Conferenza ONU sulla Criminalità transnazionale di
Napoli, giugno 1994).
Gli interventi modificativi devono essere quindi
realizzati nel segno della coerenza e della continuità con le
norme attuali; ciò anche al fine di rendere proficui gli
investimenti di risorse sinora effettuati e stabili i
risultati raggiunti sul piano del coordinamento delle
discipline e delle pratiche operative tra i vari paesi.
Il carattere di "globalità" assunto dalla criminalità
organizzata deve comunque indurre il nostro Paese a rendersi
parte promotrice di un' azione costante e convinta di stimolo
nei consessi internazionali per sensibilizzare gli stati ove
il livello di attenzione al fenomeno è ancora scarsa ad
uniformare la propria legislazione agli standards
internazionali. Si deve pervenire al convincimento comune che
la diffusione della criminalità economica, in quanto può
precorrere la presenza "fisica" delle organizzazioni
malavitose, mina la stabilità istituzionale e la convivenza
civile anche di quei paesi che possono apparire "distanti" per
geografia e cultura dalle forme tradizionali di delinquenza.
Esistono, infatti, "anelli deboli" che costituiscono, in
presenza di discipline sempre più restrittive e di sistemi di
supervisione più efficienti negli stati più evoluti, comodi
canali di riciclaggio e accesso al circuito legale per la
criminalità organizzata, per il tramite di vere e proprie
operazioni di "arbitraggio" tra i differenti contesti
normativi.
Un discorso specifico riguarda i centri "off-shore": tali
piazze finanziarie sono in notevole espansione e devono il
loro successo, come ha sottolineato il Governatore della Banca
d'Italia nella richiamata audizione, alla mancanza dei vincoli
e dei controlli sui trasferimenti e
Pag. 234
depositi dei fondi; attraverso il transito formale dei
movimenti di denaro per enti residenti in tali centri possono
essere aggirate le misure predisposte nei paesi di origine
degli operatori.
Per avere un'idea della dimensione dell'operatività
raggiunta in alcuni di essi, si citano le rilevazioni a
dicembre '94 inerenti l'esposizione per cassa del sistema
bancario italiano: verso le Isole Cayman essa era di circa
8.500 miliardi di lire, con Honk Kong di 8.700 miliardi, con
Singapore di 9.000 miliardi, con le Bahamas di 5.000 miliardi.
Esse sopravanzano, ad esempio, i crediti verso taluni
tradizionali partners commerciali dell'Italia (Argentina 5.600
miliardi, Venezuela 1.100 miliardi), ovvero anche verso
partner comunitari (i crediti verso la Spagna erano pari a
9.600 miliardi) o paesi europei a spiccata "vocazione
finanziaria" (Svizzera, 6.000 miliardi).
Un altro punto critico, sotto il profilo in discorso, è
rappresentato dalla Repubblica di San Marino. Qui il sistema
creditizio (5 banche con 26 sportelli; una di esse ha funzione
di banca centrale ma solo per il rifinanziamento del sistema
locale) opera essenzialmente come intermediario di capitali
italiani e presenta crescenti volumi di attività, soprattutto
dal lato della raccolta (al 31.3.95 sono state rilevate
operazioni di pronti contro termine "di raccolta" per 3.900
miliardi circa; nel 1991 queste erano pari a 1.300 mld). Il
sistema di vigilanza non appare adeguato agli standards
previsti a livello internazionale (Accordi di Basilea) e anche
il reperimento delle informazioni da parte delle autorità
appare carente. Tali caratteristiche inducono a sottolineare
l'estrema potenziale pericolosità, data anche la contiguità
geografica con l'Italia, di tale canale per il riciclaggio dei
proventi di attività criminose.
Anche la crescita delle transazioni finanziarie con
alcuni paesi dell'Est europeo deve spingere a promuovere forme
di collaborazione e cooperazione sempre più stringenti con
tali governi, per la rapida realizzazione di legislazioni e
strutture di controllo consone al grado di progressiva
apertura di tali economie.
La Presidenza italiana del GAFI potrebbe costituire
l'occasione, riprendendo le linee di "approccio globale"
concordate nella Conferenza ONU sul Crimine Transnazionale di
Napoli del 1994, per intensificare i contatti ed aumentare il
convolgimento dei paesi non OCSE negli obiettivi comuni in
materia di vigilanza sul sistema bancario e finanziario. La
ricerca e la promozione dell'omogeneizzazione normativa nei
confronti di questi paesi, suffragata dalla massima
disponibilità a forme di cooperazione e consulenza da parte
del "Gruppo di Basilea", potrebbe essere accompagnata dallo
studio di misure atte a penalizzare, sotto il profilo della
convenienza economica, le transazioni finanziarie con i
soggetti residenti negli stati che si mostrino recidivamente
inadempienti nell'approntamento di idonee normative
antiriciclaggio. Potrebbe essere costituito in ambito
internazionale un osservatorio permanente tra autorità
tecniche, che verifichi il grado di attuazione normativa dei
princìpi concordati in sede internazionale, coordini il
reperimento e la circolazione delle informazioni tra gli
organi di vigilanza dei vari paesi ed effettui analisi
statistiche sui dati relativi ai flussi finanziari per
individuare situazioni di "anomalia".
Pag. 235
Sul piano della "self-discipline", le maggiori banche
mondiali potrebbero sottoscrivere un'intesa comune che affermi
principi deontologici conformi a quelli di legalità
comunemente riconosciuti, con particolare riferimento
all'impegno per la lotta al riciclaggio.
Si potrebbe prevedere una sorta di "affidavit" che, in
materia di rapporti internazionali superiori ad certo
ammontare, l' istituto creditizio o finanziario incaricato,
nel novero di quelli indicati dalla direttiva della CEE
suddetta, avrebbe l'onere di rilasciare all'interlocutore
estero sulla rispondenza dell'operazione alle caratteristiche
economiche e finanziarie del cliente, oltre che alla serietà
di quest'ultimo: ossia agli accennati elevati standards etici
della dichiarazione del Comitato di Basilea.
Sarebbe auspicabile che, in siffatta prospettiva, i Paesi
aderenti alla CEE analizzassero a fondo tali ipotesi di
rafforzamento del sistema e i controlli onde adeguare
reciprocamente la rispettiva normativa interna impegnandosi a
mantenere tale comune atteggiamento verso gli Stati esterni
alla UE.
La previsione di una sanzione, ove dovessero emergere in
realtà sottostanti condotte di riciclaggio - a meno che
l'intermediario non dimostrasse con le credenziali in suo
possesso di avere agito in buona fede e senza colpa - potrebbe
sotto altro aspetto valere a richiamare anche le istituzione
bancarie dei Paesi cosiddetti "off-shore", pur nel rispetto
delle legislazioni nazionali a tutela dell'anonimato nei
rapporti economici, o per meglio dire dell'anonimato lecito,
ad una minor "disinvoltura", più volte viceversa emersa, di
comportamento nella intermediazione creditizia e finanziaria,
soprattutto nell'accettare ordini da clienti sospetti, quando
non addirittura ben noti per la loro criminosa attività.
Affermandosi una regola del genere, l'esigenza di
affrancarsi da profili di responsabilità collegati all'
"affidavit", potrebbe risolversi nell'indurre tali
intermediari a rendere noti alle Autorità giudiziarie ed
investigative importanti dati, atti a ricostruire il percorso
e la natura reale dell'operazione nonchè dei veri soggetti
coinvolti.
6. Gli strumenti legislativi nel contrasto al riciclaggio.
La Commissione ha dedicato una parte della sua attività
all'esame di strumenti legislativi di maggiore efficacia nel
contrasto al riciclaggio, approvando anche un documento di
proposta.
Con la legge 9 agosto 1993, n.328, l'Italia ha ratificato
la Convenzione fatta a Strasburgo l'8 novembre 1990, sotto
l'egida del Consiglio d'Europa, avente come oggetto il
riciclaggio, l'investigazione, il sequestro e la confisca
delle ricchezze criminali.
(40) Si tratta della Convenzione n.141
del Consiglio d'Europa. Lo stato delle firme e delle ratifiche
al marzo 1995 è il seguente: hanno firmato la Convenzione
ventidue Paesi, alcuni dei quali (come l'Australia) estranei
al Consiglio d'Europa; sette dei Paesi firmatari hanno
provveduto a depositare gli strumenti di ratifica: Bulgaria,
Finlandia, Gran Bretagna, Italia, Norvegia, Paesi Bassi e
Svizzera. La Convenzione è aperta alla firma di altri Stati.
La Convenzione obbliga gli Stati contraenti a prestarsi
reciproca assistenza e ad adeguare
Pag. 236
le proprie normative interne in guisa tale da rendere più
efficace e incisiva l'attività di indagine sulle ricchezze
criminali, sia al fine di facilitarne "l'identificazione e il
rintraccio" sia al fine di facilitare "la raccolta delle
relative prove" (art. 4), e ciò nella prospettiva di
consentire il sequestro e la confisca delle medesime ovunque
esse si trovino.
Il principio che emerge dalla Convenzione è quello di un
obbligo degli Stati a privilegiare le indagini patrimoniali
sulle ricchezze illecite (eventualmente anche attraverso
appropriate modifiche della normativa interna) nell'ambito dei
processi penali, posto che nell'art. 1 della Convenzione si dà
una definizione del termine "confisca" che - con riferimento
all'ordinamento italiano - è tale da ricomprendere la sola
confisca penale: "una sanzione o misura, ordinata da una
autorità giudiziaria a seguito di un procedimento per uno o
più reati, che consiste nel privare definitivamente di un
bene".
Ciò implica che, con riferimento alla normativa italiana,
si deve prendere atto che sul piano internazionale la confisca
penale ha un respiro ampio perchè potrà essere eseguita anche
all'estero, su beni ubicati in uno dei Paesi firmatari della
Convenzione, il che ha un grosso rilievo, posto che le
maggiori organizzazioni criminali hanno per lo più sfere di
interessi che spaziano al di là dei confini di un singolo
Stato. Mentre la confisca prevista dalla normativa sulle
misure di prevenzione ha un respiro corto, perchè è
sostanzialmente impossibile ottenerne l'esecuzione
all'estero.
Tutto questo non significa che il nostro Paese non debba
continuare a far tesoro anche delle misure di prevenzione
patrimoniali, ma significa che occorre rendere più incisive le
indagini sui cespiti di ricchezza dei gruppi criminali
all'interno dei processi penali per poter privilegiare il più
possibile la confisca penale rispetto alla confisca di
prevenzione. Sia perchè le prospettive della "confisca
internazionale" si muovono in questa direzione, sia perchè
l'Italia ha assunto in questo senso un obbligo internazionale
in forza dell'art. 4 della Convenzione, sia perchè solo così
si eleverà il livello investigativo degli inquirenti in
materia di riciclaggio e di economia criminale, incentivandoli
nella ricerca di prove sulle ricchezze delittuose e quindi,
indirettamente, nella ricerca di prove obiettive e
scientifiche sulle dinamiche interne ai gruppi criminosi che
formano oggetto di indagine penale.
La Commissione si è quindi posto il problema di come
agevolare e incentivare le procure della Repubblica nella
pratica sistematica delle indagini patrimoniali concatenate
all'interno dei procedimenti penali di criminalità
organizzata, sì da pervenire al sequestro e alla confisca
penale di porzioni sempre maggiori di economia criminale.
Infatti, sino ad oggi l'indagine patrimoniale in materia
di criminalità organizzata è stata per lo più impiegata,
nell'ambito delle relative inchieste giudiziarie, nei limiti
in cui ciò appariva strettamente indispensabile al fine di
acquisire elementi di prova a carico di questo o
quell'indagato e in ordine al reato associativo o a
determinati delitti-fine: una volta acquisiti elementi
sufficienti a sostenere l'accusa a carico dei soggetti
incriminati, l'indagine patrimoniale viene per lo più messa in
disparte. Orbene, la filosofia di Strasburgo impone un
ribaltamento dell'atteggiamento culturale sin qui dominante
nel senso che,
Pag. 237
nelle inchieste sui sodalizi imprenditorial-criminali e sui
relativi reati associativi di base, il pubblico ministero deve
acquisire l'abito mentale di considerare "sotto inchiesta" non
soltanto le persone (ai fini dell'eventuale sanzione penale
che potrà essere loro irrogata), ma anche le relative
ricchezze (ai fini dell'eventuale provvedimento di confisca
che potrà essere loro applicato a norma dell'art. 240 comma 1
c.p., dell'art. 416-bis comma 7 c.p., ovvero dell'art.
12-sexies D.L. n.306 del 1992). E deve quindi impiegare
l'indagine patrimoniale normalmente e a tutto campo, non solo
nei limiti in cui ciò può essere utile ad assicurare e
consolidare gli elementi di accusa contro le persone, ma anche
al di là di tali limiti e sino a quando non siano stati
raccolti tutti i necessari elementi di "accusa" contro le
ricchezze.
A questo fine le inchieste penali sui gruppi criminali
organizzati e sui relativi reati associativi di base esigono
indagini patrimoniali specifiche, mirate, concatenate tra loro
e finalizzate, nel loro insieme, a ricostruire le
acquisizioni, le trasformazioni e i reimpieghi delle ricchezze
illecite facenti capo ai gruppi criminosi oggetto di indagine.
Si deve trattare di indagini orientate verso traguardi
graduali e intermedi volta per volta ben determinati e
complessivamente proiettati verso il traguardo finale della
ricostruzione dei cespiti illegali. Ciò perchè l'indagine
patrimoniale può raggiungere il cuore economico delle
organizzazioni criminali calcando pazientemente ogni singolo
gradino della piramide. In altri termini, l'indagine
patrimoniale deve essere saldamente ancorata, in basso, ad uno
o più fatti criminosi specifici e ad un quadro probatorio di
base che consenta di ritenere la sussistenza di un sodalizio
imprenditorial-criminale (e quindi di un reato associativo) e
che consenta di considerare seriamente "indiziati" di origine
delittuosa determinati cespiti di ricchezza; e deve poi
svilupparsi come una catena, nella quale ogni singolo
accertamento è un anello che si aggancia all'accertamento
precedente e che costituisce la premessa dell'accertamento
successivo. Tutto questo non significa, sul piano del metodo
dell'indagine, che il primo anello della catena di
accertamenti patrimoniali debba necessariamente collocarsi
alla base della piramide probatoria, ove dovranno invece
collocarsi atti di indagine di varia natura, per lo più non di
tipo economico, volti ad accertare i fatti criminosi specifici
(ivi compresi quelli che, per loro natura, sono suscettibili
di produrre ricchezza) e le condotte di partecipazione al
reato associativo. Ed invero, dire che l'indagine patrimoniale
deve partire dal basso significa semplicemente che essa deve
partire da un livello di trasformazioni economiche che sia
ancora relativamente prossimo e facilmente ricollegabile a
quella base probatoria, vale a dire da cespiti di ricchezza
non genericamente sospetti, ma "indiziati", appunto, di
origine illecita in quanto chiaramente riconducibili -
ancorchè, magari, per interposta persona - a un determinato
sodalizio imprenditorial-criminale che è già configurabile
come tale in forza di un quadro probatorio di base.
In questo quadro saranno suscettibili di trovare
applicazione le due norme incriminatrici specifiche previste
dagli artt. 648- bis ("Riciclaggio") e 648-ter ("Impiego
di denaro, beni o utilità di provenienza illecita") del codice
penale. Queste due norme non concernono le condotte
Pag. 238
di riciclaggio primarie - vale a dire quelle poste in
essere direttamente da chi ha commesso i reati produttivi di
ricchezza illecita - ma sempre e soltanto eventuali condotte
complementari e secondarie rispetto a quelle, in quanto poste
in essere da soggetti diversi ed estranei ai
delitti-presupposto che si siano prestate consapevolmente ad
atti di riciclaggio di profitti criminosi ovvero ad atti di
reimpiego dei medesimi. Ma è evidente che la possibilità di
accertare e di perseguire penalmente tali condotte secondarie
(ancorchè, in ipotesi, di rilievo tutt'altro che secondario
sul piano sostanziale) sarà pressochè inevitabilmente
subordinata all'avvenuto accertamento delle condotte primarie,
necessariamente da accertare nel quadro delle inchieste
relative ai reati associativi di base.
Questa particolare relazione intercorrente tra condotte
di riciclaggio primarie e condotte di riciclaggio secondarie
riflette il rapporto giuridico che viene a configurarsi tra le
medesime, con particolare riguardo al reato associativo di
tipo mafioso.
I "riciclatori" interni al sodalizio mafioso, ivi
compresi quelli che avessero il compito stabile ed esclusivo
di "riciclaggio" sui profitti del sodalizio, non possono
essere chiamati a rispondere del reato di cui all'art.
648- bis c.p., posto che tale norma si applica soltanto
al di fuori dei casi di concorso nel reato presupposto. Che
per reato presupposto debba intendersi anche il reato
associativo di tipo mafioso (e non già solamente i
delitti-fine direttamente produttivi di ricchezza illecita) è
dimostrato dal settimo comma dell'art. 416- bis c.p., che
prevede, proprio con riferimento al reato associativo, la
confisca obbligatoria delle cose che costituiscono il prezzo,
il prodotto o il profitto del reato o che costituiscono
l'impiego dei predetti proventi. Del resto i proventi del
reato associativo di tipo mafioso - suscettibili di
riciclaggio e di reimpiego - ricomprendono indifferentemente
sia quelli derivanti dalla commissione di specifici
delitti-fine, sia quelli derivanti da condotte riconducibili
alle finalità paralecite dell'associazione (controllo di
attività economiche, ecc.), in guisa tale che spesso può
essere addirittura problematico distinguere i secondi dai
primi.
Di qui l'esigenza, di nuovo, che le condotte di
riciclaggio secondarie vengano investigate o comunque
ricondotte - attraverso concatenazioni di accertamenti
patrimoniali - nel quadro dell'inchiesta relativa al reato
associativo di base, preferibilmente partendo dalla relativa
base probatoria e passando attraverso l'indagine sulle
condotte di riciclaggio primarie: l'aver percorso in tal modo
l' iter investigativo "dal basso" comporterà il vantaggio
di avere già in mano la prova del legame tra le attività
delittuose del sodalizio ed i beni oggetto di condotte
secondarie di riciclaggio, nel momento in cui l'attività
investigativa raggiungerà tale livello.
L'indagine patrimoniale concatenata consente di
raggiungere, al termine del percorso processuale, il risultato
della confisca penale di quelle porzioni di economia criminale
di cui sia stato possibile ricostruire - con un supporto
probatorio sufficiente e nel contesto complessivo dello
smascheramento del rispettivo sodalizio criminoso -
l'effettiva origine illecita.
Peraltro, il limite della confisca penale prevista nel
settimo comma dell'art. 416- bis c.p. e nel primo comma
dell'art. 240 c.p. sta
Pag. 239
nella sua sostanziale incapacità di raggiungere e colpire
quelle fasce di economia criminale ormai da tempo consolidate,
di cui risulti impossibile ricostruire in maniera documentata
le trasformazioni più remote e, quindi, l'origine ultima.
E' su questo terreno che viene ad incidere efficacemente
il nuovo meccanismo normativo di cui all'art. 12- sexies
("Ipotesi particolari di confisca") del decreto-legge 8 giugno
1992, n.306 (articolo a sua volta introdotto dal decreto-legge
20 giugno 1994, n.399, convertito nella legge 8 agosto 1994,
n.501, e intitolato "Disposizioni urgenti in materia di
confisca di valori ingiustificati").
Quest'ultima norma, infatti, prevede un'ipotesi ulteriore
di confisca penale obbligatoria che, nel rispetto delle
necessarie garanzie, fissa taluni parametri precisi in base ai
quali un determinato cespite di ricchezza va considerato come
una porzione di economia criminale consolidata (e quindi come
un cespite confiscabile), condizionando rigorosamente
l'incidenza di tali parametri ad un'avvenuta pronunzia di
penale responsabilità del soggetto interessato per determinati
reati particolarmente congeniali alla imprenditorialità
criminale. A questa precisa condizione la norma prevede
obbligatoriamente la confisca dei valori ingiustificati: "è
sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre
utilità di cui il condannato non può giustificare la
provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o
giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a
qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito,
dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria
attività economica". I reati-presupposto sono i seguenti:
associazione di tipo mafioso; delitti comunque ricadenti nel
programma criminoso di un'associazione di tipo mafioso;
delitti commessi da soggetti estranei a un sodalizio di tipo
mafioso, ma finalizzati ad agevolare l'attività di
quest'ultimo; associazione per delinquere dedita al traffico
di stupefacenti; episodi rilevanti di narcotraffico ricadenti
o non ricadenti nel programma di un'associazione criminosa;
delitti di riciclaggio e reimpiego di profitti criminosi;
episodi rilevanti di contrabbando; delitti di estorsione e/o
di sequestro di persona a scopo di estorsione; episodi
rilevanti di ricettazione; delitti di usura e usura impropria;
trasferimento fraudolento di valori.
La confiscabilità dei "valori ingiustificati", come sopra
individuabili, nell'ambito del processo penale fa sì che i
medesimi cespiti di ricchezza diventino automaticamente
passibili di sequestro preventivo a norma dell'art. 321 comma
2 c.p.p. nel corso delle indagini preliminari relative ai
reati-presupposto.
7. Gli strumenti di analisi per le indagini patrimoniali.
La normativa processuale del nostro Paese è allo stato
attuale tale da rendere estremamente problematica un'attività
di indagine realmente approfondita - come quella appena
descritta - e idonea a conseguire la confisca penale di
rilevanti porzioni di economia criminale in considerazione
della estrema complessità delle indagini che l'Autorità
Giudiziaria è chiamata ad operare sul fronte dell'economia
criminale. La tecnica degli accertamenti patrimoniali
concatenati è per lo
Pag. 240
più incompatibile - dati anche i tempi lunghi che
caratterizzano le procedure di assistenza giudiziaria
internazionale - con il termine massimo assolutodi durata
delle indagini preliminari, fissato in due anni dall'art. 407,
comma 2, c.p.p.
La Commissione, quindi, senza con ciò aver esaurito la
problematica si è posta il problema di individuare una strada
che, senza intaccare la filosofia complessiva del nuovo codice
di procedura penale e senza stravolgerne i principi
informatori, consenta di corrispondere all'esigenza sottesa
dalla Convenzione di Strasburgo, che è poi l'esigenza di una
più efficace attività di contrasto dell'economia criminale da
parte degli uffici inquirenti. In particolare la Commissione
si è posto il problema di come agevolare e incentivare le
procure della Repubblica nella pratica sistematica delle
indagini patrimoniali concatenate all'interno dei procedimenti
penali di criminalità organizzata, sì da pervenire al
sequestro e alla confisca penale di porzioni sempre maggiori
di economia criminale.
Tale strada potrebbe essere individuata in un'adeguata
modifica dell'art. 12- sexies del D.L. dell'8 giugno 1992
n.306 e del comma 7 dell'art. 416- bis del codice penale
con la previsione di un meccanismo processuale che permetta il
sequestro e la cofisca nei casi previsti dalla suddetta
norma.
8. I nuovi indirizzi dell'economia ed il sistema delle
privatizzazioni e delle dismissioni del patrimonio
pubblico.
8.1 La politica economica, intrapresa in modo più
incisivo e irreversibile a far data dal 1993, è nel segno
della soppressione dell'intervento straordinario dello Stato
nell'economia del Mezzogiorno e di un programma di progressiva
privatizzazione e dismissione di beni immobiliari dello Stato,
in pratica di una recessione della mano pubblica dall'impegno
diretto in molti settori produttivi.
In linea di principio un aeestesa privatizzazione degli
enti pubblici economici e non, un'estesa alienazione del
patrimonio immobiliare dello Stato, un'ampia
deregolamentazione a livello centrale e periferico, lo
spostamento delle sovvenzioni dallo Stato o dall'ente locale
agli istituti di credito agevolato, costituiscono un valido
sistema per contenere quel fenomeno di ampia e sistematica
corruzione, sia al Nord che al Sud, qui con le ulteriori
connotazioni di convivenza con la malavita organizzata, è
stato in rapporto direttamente proporzionale all'estensione
della economia pubblica e alla sua gestione dell'economia da
parte della classe politica, nella sua espressione deteriore
partitocratica.
Questo programma sta quindi nell'ottica di contribuire
alla creazione di un libero mercato di concorrenza
trasparente, l'unico che può incidere nel sistema collusivo e
corruttivo spezzandone i legami e gli intrecci, e quindi di
una soluzione al problema morale della vita pubblica.
Il sistema delle privatizzazioni e dismissioni - e su
questo tema dovrà incentrarsi l'attenzione della Commissione -
potrebbe tuttavia costituire un ulteriore veicolo di
riciclaggio e di inquinamento dell'economia
Pag. 241
nazionale da parte della criminalità organizzata, già
pervenuta ad elevato grado di "modernizzazione".
Si fa di seguito riferimento a quelle disposizioni di
recentissima emanazione che, tra gli altri fini, perseguono
anche quello di evitare infiltrazioni di capitali di
provenienza criminale nelle privatizzazioni e degli assetti
proprietari delle banche.
Si sottolinea comunque la necessità, da parte della
Commissione, di una verifica dell'adeguatezza in astratto e in
concreto di tale normativa rispetto alla finalità che si
propone, trattandosi,con tutta evidenza, di una problematica
che attiene al sano sviluppo della nostra economia e della
nostra democrazia.
Procedure di privatizzazione delle banche, controlli
degli assetti proprietari e azione di contrasto del
riciclaggio.
8.2 Le disposizioni in materia di privatizzazioni delle
partecipazioni azionarie dello Stato e degli enti pubblici,
prevedono che di norma l'alienazione venga effettuata mediante
offerta pubblica di vendita. L'utilizzo di procedure diverse,
segnatamente la trattativa diretta, deve essere autorizzato
dal Presidente del Consigli dei Ministri ovvero, per le
dismissioni deliberate dalle Fondazioni proprietarie delle ex
banche pubbliche, dal Ministero del Tesoro.
(41) Delibera cipe 30
dicembre 1992; legge 30 luglio 1994, n.474; direttiva del
Ministero del Tesoro 18 novembre 1994; circolare del Ministero
del tesoro 28 giugno 1995.
Nel ricorso al "private placement", l'intervento tutorio
delle autorità consente, tra l'altro, di scongiurare il
rischio di inserimenti nel processo di privatizzazione a fini
di riciclaggio.
In particolare, la direttiva del Ministro del tesoro 18
novembre 1994 prevede che gli "enti conferenti" (cioè le
Fondazioni) possono essere autorizzati a far luogo alla
trattativa privata quando: a) la cessione avviene nei
confronti di gruppi bancari, società finanziarie vigilate,
imprese assicurative; b) si intenda costituire un nucleo
stabile di azionisti. In quest'ultimo caso la successiva
circolare del 28 giugno 1995 prevede l'obbligo di indicare
preventivamente al dicastero del Tesoro i soggetti invitati a
partecipare alla trattativa.
Nell'ipotesi in cui la privatizzazione avvenga attraverso
offerta pubblica di vendita, occorre distinguere il caso in
cui i fondi di provenienza illecita vengano impiegati con
l'intento di impadronirsi della gestione della banca, ovvero
per finalità di mero investimento finanziario.
Nel primo caso, la legge 474 del 1994, recante norme per
l'accelerazione delle procedure di dismissione, prevede la
possibilità, per le banche interessate da processi di
privatizzazione, di inserire nello statuto un limite massimo
di possesso azionario riferito al singolo socio ed
all'eventuale gruppo, anche familiare di appartenenza; prevede
altresì l'obbligo di introdorre anche un'apposita clausola
diretta a prevedere l'elezione degli amministratori mediante
voto di lista (artt. 3 e 4). Assetti di questo genere tendono
ad impedire il formarsi di posizioni di dominio nell'ambito
della compagine sociale.
Nel secondo caso, invece, il contrasto antiriciclaggio è
rimesso agli obblighi generali di monitoraggio svolti dagli
intermediari finanziari,
Pag. 242
ai sensi della legge 197 del 1991 e si applicano anche ai
pagamenti connessi alla sottoscrizione di titoli di società
nell'ambito di o.p.v..
8.3 Un ulteriore momento di verifica della "qualità" del
sottoscrittore dei titoli, sia esso di nazionalità italiana o
estera, è rappresentato dal sistema dei controlli di vigilanza
sugli assetti proprietari delle banche.
(42) Fonti: decerto legislativo
1^ settembre 1993 n.385, artt. 19 e 20; istruzioni
di Vigilanza, cap. XLVII, Partecipazione al capitale delle
banche.
Le disposizioni - che si applicano anche alle
partecipazioni indirette- prevedono, infatti, che chiunque
intenda acquisire, a qualsiasi titolo, azioni di una banca per
quote superiori a soglie predeterminate (5 per cento, 10 per
cento, 15 per cento, 20 per cento, 33 per cento, 50 per cento
del capitale, ovvero il controllo) deve essere in via
preventiva autorizzato dalla Banca d'Italia. In particolare,
nel caso di offerte pubbliche di vendita, i soggetti
interessati non possono aderire all'offerta se non hanno
ottenuto la predetta autorizzazione.
Ai fini della valutazione della "qualità" dell'azionista
vengono in rilievo i requisiti di onorabilità, della
situazione finanziaria dei soggetti che presentano richiesta
di autorizzazione. Elementi informativi vengono acquisiti, tra
l'altro, in ordine alla situazione economico-patrimoniale del
soggetto che intende rilevare l'interessenza e alle eventuali
fonti di finanziamento da attivare per la realizzazione
dell'operazione.
Qualora la partecipazione venga acquisita da soggetti
appartenenti a Stati extracomunitari che non assicurano
condizioni di reciprocità (tra questi di norma rientrano i
c.d. centri off-shore), la banca d'Italia è tenuta a
trasmettere la domanda di autorizzazione al Ministro del
Tesoro, su proposta del quale il Presidente del Consiglio dei
Ministri può vietare l'autorizzazione.
Ai partecipanti al capitale delle banche è fatto inoltre
obbligo di tenere informato l'organo di Vigilanza delle
variazioni percentuali dell'interessenza detenuta, ferma
restando ovviamente la necessità dell'autorizzazione al
raggiungimento delle soglie previste.
In assenza dell'autorizzazione o nel caso sia stata
omessa la comunicazione, resta escluso per i titolari
l'esercizio del diritto di voto relativo alle azioni possedute
in eccedenza ai limiti fissati dalla normativa.
8.4 Si tratta, dunque, di una disciplina avente carattere
non solo formale ma anche spiccatamente sostanziale, con un
grado di elasticità che le consente di adattarsi a situazioni
particolari che dovessero verificarsi.
Ciò che, tuttavia, non deve esimere la Commissione da
quella attenta verifica di cui sopra si è detto.
Pag. 243
CONCLUSIONI
L'esame delle tematiche sopra rappresentate, che hanno
costituito oggetto del lavoro della Commissione Antimafia in
questo primo anno di legislatura, aprono ad alcune riflessioni
di carattere più generale.
Le indagini giudiziarie hanno disvelato uno scenario
davvero impressionante e mortificante dei valori e dei
principi istituzionali sanciti dalla Costituzione, a causa
della verificatasi occupazione delle Istituzioni da parte dei
partiti con perfetta logica spartitoria, dilagata nel volgere
degli anni; del grado di elevata illegalità e corruzione che
ne era conseguita, peraltro progressivamente proporzionale
alla inefficienza dell'apparato pubblico e alla mancanza di
solidità competitiva dell'imprenditoria; del sempre più
marcato distacco tra il cittadino e la politica. Uno scenario
che, per quanto ancora in gran parte da definirsi
processualmente sotto il profilo delle singole responsabilità
penali, raramente va oltre il 1992, anno di inizio delle più
importanti inchieste.
Non vi sono invece sufficienti conoscenze riscontrate
dell'evoluzione e dei cambiamenti che possono essere
intervenuti nè all'interno del meccanismo dei fitti intrecci
di corruzione, nè più specificatamente all'interno delle
organizzazioni mafiose, nè dei contatti che queste possono
aver attivato o proseguito nel mondo politico, nè di
un'eventuale continuità nei rapporti con i settori economici
ed imprenditoriali.
Ciò rende difficile un'analisi su cui basare fondatamente
delle prospettive di prevenzione rispetto a futuri specifici
accadimenti; non impedisce invero di delineare una prospettiva
di carattere generale.
Le inchieste giudiziarie, iniziate dalla Procura di
Milano nel 1992 e successivamente anche da numerose altre
Procure, in particolare del Sud, hanno, nel volgere di pochi
mesi, travolto gran parte del sistema politico esistente e dei
suoi esponenti di maggiore o minore rilievo, sotto il peso dei
reati di concussione, corruzione, finanziamento illegale ai
partiti e, nelle Regioni del Sud, anche di associazione
mafiosa e voto di scambio.
E' ragionevole ritenere che, quando nella primavera del
1993 i cittadini furono chiamati con referendum ad esprimersi
sul cambiamento del sistema elettorale, e si espressero a
larghissima maggioranza a favore del maggioritario, in realtà,
quel voto manifestava un deciso rifiuto dei partiti per il
malcostume da essi ingenerato, che rendeva ormai asfittica la
vita democratica del Paese.
Il sistema elettorale maggioritario, che non è il caso di
analizzare in questa sede, indubbiamente ha costituito una
"rivoluzione culturale" e di certo un forte ostacolo nei suoi
meccanismi ad un ritorno al passato, anche se il periodo di
esperienza è troppo breve per formulare giudizi di una qualche
fondatezza.
Un rilievo tuttavia deve farsi come premessa rispetto ad
una previsione di eventuali futuri cambiamenti: il
maggioritario, che era destinato ad assicurare una maggiore
stabilità di governo, indispensabile
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per un corretto funzionamento del sistema sociale ed
economico, si è dimostrato immediatamente deludente.
In pratica è oggi convinzione comune che il sistema
elettorale, se non accompagnato da integrate riforme
istituzionali, non basta da solo ad assicurare il cambiamento
del sistema politico.
Viviamo così oggi una sofferta fase di transizione, in
cui emergono vizi e limiti culturali e soprattutto la mancanza
di una coerente progettualità politica, celata dall'una e
dall'altra parte dietro l'alibi della "paura del tiranno". Si
viene così a negare anche il primo presupposto fondamentale
del bipolarismo e cioè la sostanziale legittimazione reciproca
delle due parti, contrapposte non su ideologie, ma sui
programmi relativi alle grandi tematiche di interesse del
Paese e sui metodi con cui affrontarle; e si viene altresì a
negare, o comunque a mettere ricorrentemente in dubbio,
l'altro presupposto fondamentale e cioè che la nostra
democrazia, dopo cinquanta anni di storia repubblicana, non
sia ancora un dato certo e definitivamente acquisito.
Sta di fatto che la lunga assenza della politica,
nell'accezione più nobile del termine, rischia di protrarsi e
di scadere ancor più nel vuoto ideale che oggi ci si va
rappresentando, amplificato e sostanziato da una informazione
che insegue piccoli e grandi scandali e scontri verbali e ne
fa tema esclusivo di politica.
E' difficile perciò prevedere quali orientamenti possa
avere oggi la mafia rispetto a questo quadro politico
generale, caratterizzato da incertezze, emotività e comunque
lontano da essere indirizzo della futura evoluzione sociale ed
economica del nostro Paese.
I quadri e referenti politici, sia a livello di individui
che, per gran parte, di tradizionali formazioni politiche,
sono scomparsi, travolti dal Nord al Sud da numerosissime
inchieste.
Il ricambio del personale politico è stato massiccio e,
anche se nel suo complesso non può dirsi totalmente "nuovo",
non avendo comunque una abitudine al potere e ancor più
sicurezza di stabilità, può non costituire, in generale, un
referente rassicurante per la mafia, che necessita per lo
sviluppo dei suoi interessi economici illeciti, ormai di
elevato livello e consistenza, di una certezza di
continuità.
Certezza peraltro che non è più comunque data a causa
dell'affermarsi del bipolarismo, e quindi della rottura di
quella continuità che il sistema proporzionale, nato per
ragioni nobili, quali evitare fratture irreparabili nella
società, ha assicurato per oltre quaranta anni.
Si dovrebbe arrivare così alla paradossale conclusione
che proprio questa situazione di grande incertezza e di
attuale commissariamento della Repubblica, in mancanza di un
governo, espressione politica di una maggioranza liberamente e
democraticamente eletta, sarebbe l'unica situazione per
depotenziare gli interessi mafiosi.
Certamente così non è, per l'ovvia considerazione che
l'indebolimento della democrazia e quindi la delegittimazione
dello Stato in tutte le sue articolazioni istituzionali, è
direttamente proporzionale alla legittimazione ed al
rafforzamento del potere mafioso che non conosce crisi e vuoti
di potere.
La causa dell'estendersi del potere mafioso non è la
politica, lo è stata la degenerazione della politica.
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Il punto quindi è di meglio focalizzare subito il cammino
più adeguato a produrre una netta inversione di tendenza.
Anche per rompere definitivamente ogni legame della
politica con la criminalità non basta il diverso sistema
elettorale, che pur tuttavia già costituisce un rilevante
progresso in tal senso.
Infatti anche nel sistema uninominale non si può
escludere che l'indicazione dei candidati, rimessa
esclusivamente ai partiti, sia il risultato di pressioni
mafiose, dirette o per interposti gruppi di interessi
contigui.
Neppure le elezioni primarie potrebbero eliminare questo
pericolo, ma anzi, nelle Regioni del Sud, potrebbero
addirittura aggravarlo, con un chiaro ritorno al recente
passato ed ai sistemi consolidati di controllo e di voto di
scambio.
In sostanza il sistema elettorale può rendere più
difficile, ma non eliminare i rischi di condizionamento della
mafia sulla politica, stante anche la capacità di adattamento
che la mafia ha dimostrato ad ogni cambiamento.
Occorre quindi una forte autodisciplina da parte delle
forze politiche nella selezione dei candidati, sia a livello
nazionale che locale, attraverso filtri di massima
trasparenza, che ne assicurino la piena affidabilità,
sottoposta al vaglio pubblico.
Un vaglio interno ed esterno che deve comunque proseguire
per tutto l'arco del mandato elettorale, perchè solamente
nell'agire politico e amministrativo e nel suo risultato è
dato riscontrare la validità della scelta.
E' chiaro che per questo riscontro anche il cittadino
deve essere dotato della possibilità di attivare seri e rapidi
controlli.
La democrazia, infatti, non è, o non è soltanto, una
qualsiasi forma di partecipazione che, peraltro, quanto più è
diffusa, tanto più vanifica la possibilità di individuare
specifiche responsabilità, ma soprattutto è controllo, ed
esercizio effettivo del controllo.
Il problema da risolvere con urgenza è, perciò,
l'individuazione e l'attivazione di sistemi di controllo che
nel settore amministrativo, contabile, finanziario, politico
possano accompagnare alla loro azione precise sanzioni,
indipendentemente da possibili risvolti penali, che prevengano
o blocchino sul nascere degenerazioni e collusioni
malavitose.
Il dato positivo riscontrabile nella popolazione del Sud
in questi ultimi anni, seppure in larga misura a ciò indotta
da tragici fatti di sangue, come la strage del '92 dei
magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e dei
rispettivi uomini di scorta, è l'avere preso coscienza di
vivere a libertà fortemente limitata nella esplicazione dei
propri diritti civili, dalla prepotenza cupa, sanguinaria ed
involutiva della mafia.
Ha dato vita a forme di associazionismo spontaneo che, in
particolare, si è indirizzato contro il racket delle
estorsioni e dell'usura, fenomeno, questo, di controllo del
territorio da parte della criminalità mafiosa; ha innalzato la
denuncia delle prevaricazioni mafiose comunque espresse; ha
alimentato e continua ad alimentare una irreversibile e nuova
consapevolezza, anche rispetto ai giovani, della gravità del
problema mafia tuttora incombente.
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Questa presa di coscienza ha cominciato ad investire
anche le categorie produttive, soggetti essenziali in questo
percorso di riscatto e rigenerazione.
Abbiamo visto come l'imprenditoria ha finito con il
"fondersi" nel Sud con le organizzazioni criminali.
Certamente i procedimenti penali hanno determinato una
forte scossa in questi perversi rapporti; parimenti può
contribuire ad una loro rottura il nuovo indirizzo, che vede
il ritrarsi progressivo della politica dall'economia ed il
cessare della incontrollata destinazione di risorse pubbliche
al Sud.
Ma poichè questi due fattori possono non rivelarsi
definitivi, stante la presenza tuttora massiccia della mafia
nelle aree del Sud, mentre è urgente dare vita ad una
imprenditorialità capace di assicurare uno sviluppo
continuativo libero da oppressioni politiche e criminali,
occorre che il mondo imprenditoriale prenda in seria
considerazione la necessità di darsi un codice etico. Codice
questo, che non è incompatibile con un'economia di mercato,
alla quale ci stiamo risolutivamente avviando, ma è anzi tanto
più essenziale, proprio perchè l'ingresso di ingenti capitali
illeciti porterebbe non solo allo squilibrio di una corretta
dinamica della concorrenza, ma rischierebbe di determinare la
subalternità alla mafia del tessuto imprenditoriale sano che
pure esiste, in larga percentuale, nel nostro Paese.
Può dirsi, non solo come elemento di speranza, ma oggi
come dato di fatto, che questa riflessione sta consolidandosi
e più sentita appare la coscienza e l'esigenza degli
imprenditori di liberarsi da quegli odiosi vincoli impositivi
della criminalità alla quale si erano assuefatti.
Questo periodo di transizione quindi, nonostante tutti i
suoi attuali aspetti negativi e di rischio ove, dalla sua
fisiologia riproducentesi ad ogni passaggio storico, scadesse
nella patologia di un vuoto politico, presenta estesi fermenti
positivi, nel mondo politico, economico e nella società; molte
prese di coscienza veramente importanti, che, in questo vivere
la politica come il quotidiano, non si riesce a valorizzare e
far emergere in tutta la loro forza propulsiva.
C'è da chiedersi, però, se a tutto ciò saremmo arrivati
senza l'intervento della Magistratura penale, se cioè il
cambiamento del sistema non fosse stato attivato dalla Procure
della Repubblica, e dal sacrificio in termini di vite umane di
magistrati e di appartenenti a forze di Polizia.
La risposta non può che essere negativa sulla base dei
fatti: il sistema così consolidato nei suoi fitti intrecci di
interessi corruttivi e collusivi da solo non si sarebbe
avviato, o quanto meno, non in tempi così rapidi, alla rottura
e alla rigenerazione.
E per quanto questo costituisca una profonda anomalia nel
panorama dei paesi civili, non sminuisce certamente il grande
impegno, la grande capacità di indipendenza da un sistema
tentacolare, i notevoli risultati, fondamentali per la vita
democratica di questo Paese, della nostra Magistratura. Essa
ha raggiunto il massimo della credibilità e, rimanendo l'unico
caposaldo nel crollo disastroso degli altri poteri, ha scritto
una pagina di storia, non solo giudiziaria, che resterà di
fondamentale importanza anche nella ridefinizione dei tratti
istituzionali della nostra democrazia.
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La polemica, di cui non può escludersi la strumentalità,
e che deve invece ricondursi ad una razionale riflessione,
torna periodicamente a riaccendersi dal versante della
politica e da quello della Magistratura, a cui viene
addebitato uno sconfinamento dai suoi poteri istituzionali.
Dal canto suo, la Magistratura, dopo l'iniziale grande
solidarietà, denuncia una sopravvenuta solitudine, una assenza
di interesse attivo dello Stato; e ciò riversa i suoi effetti
negativi in una minore tensione della società verso il grande
e tuttora irrisolto problema della criminalità organizzata.
E' una constatazione fin troppo ovvia e la storia ce ne
offre esempi significativi, che in assenza degli altri poteri,
l'unico rimasto, peraltro con prova di efficacia nella sua
azione, si assume, anche suo malgrado, quei compiti a cui gli
altri poteri non sono stati e non sono in grado di adempiere.
Ciò che ha comportato e comporta, a prescindere dalle
motivazioni dei singoli, una sovraesposizione della
Magistratura e la sua inevitabile investitura di poteri
maggiori di quelli che la fisiologia di un corretto e
democratico funzionamento politico-istituzionale potrebbe
consentire.
Occorre seriamente riflettere che, ove una tale
situazione dovesse intendersi come normalità, sarebbe
realistico temere una forte delegittimazione e paralisi della
Magistratura stessa. Ove essa permanesse, infatti, come
terminale unico di compiti di tale portata, non riuscirebbe,
inevitabilmente, a dare nè quelle risposte di natura
intrinsecamente politica, pur corrispondenti alle alimentate
aspettative della collettività ma sulle quali si deve invece
misurare il sistema politico, nè quelle sue proprie
istituzionali, di natura repressiva, che, sul piano
processuale, per la loro eterogeneità e quantità eccessiva,
vedrebbero sancita, nel dilatarsi oltre misura dei tempi, una
pericolosa inefficacia ed inefficienza del sistema
giudiziaria.
La Magistratura, proprio perchè è indispensabile che
mantenga il grado di credibilità oggi raggiunto, deve essere
messa in condizione di rendere al meglio delle sue capacità e
potenzialità, come oggi purtroppo, per la persistenza di
inefficienze strutturali, non riesce ancora a fare, e deve
essere soprattutto garantita e tutelata nella sua indipendenza
da qualsiasi tipo di condizionamento.
E' bene però non sottovalutare che la solitudine
lamentata dalla Magistratura esisterebbe davvero profonda ed
irreversibile, laddove rimanesse l'unica affidataria della
lotta alla mafia e ad ogni altra forma di corruttela.
Un simile impegno, perchè non finisca con l'inaridirsi su
un piano meramente simbolico e quindi alla fine improduttivo,
ha bisogno della contestuale e sinergica azione di soggetti
istituzionali diversi, che siano in condizioni di agire con
piena autonomia, legittimazione e responsabilità su piani
diversi ed integrati, in un progetto costruttivo ed evolutivo
di una società libera da prevaricazioni mafiose e statuali.
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