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Testi integrali degli Atti Parlamentari della XII Legislatura

Documento


125474
SMC0214-0091
Bollettino Giunte e Commissioni n. 214 del 20 settembre 1995 - edizione definitiva - (SMC12-214)
(suddiviso in 103 Unità Documento)
Unità Documento n.91 (che inizia a pag.135 dello stampato)
Pag. 135 RELAZIONE ANNUALE
ZZSMC ZZRES ZZSMC200995 ZZSMC950920 ZZSMC000995 ZZSMC000095 ZZSMC214 ZZ12 ZZD
                            INDICE
  Premessa
  Attività della Commissione dal settembre 1994 al settembre
  1995
  Capitolo I.
  Verifica della congruità degli strumenti legislativi vigenti
  e dell'azione dei pubblici poteri nel contrasto al fenomeno
  mafioso
        1.  L'azione dell'autorità giudiziaria
        2.  L'azione delle forze dell'ordine
        3.  La Direzione Investigativa Antimafia
        4.  Le misure di prevenzione patrimoniali
        5.  I collaboratori di giustizia
        6.  Le iniziative della Commissione parlamentare
  antimafia
        7.  L'art. 41- bis,  comma 2, dell'ordinamento
  penitenziario.
  Capitolo II
  Mafia e Politica
        1.  Premessa
        2.  Mafia e Politica in Sicilia
        3. 'Ndrangheta e politica in Calabria
        4.  Camorra e politica in Campania
        5.  Rapporti collusivi tra criminalità e politica in
  Puglia
        6.  Una costante: lo stragismo mafioso
        7.  La presenza della criminalità organizzata negli enti
  locali.  La congruità della normativa sullo scioglimento dei
  consigli co-munali
        8.  Il sistema dei controlli
        9.  La criminalità organizzata nel Centro-Nord.
 
                              Pag. 136
 
  Capitolo III
   Mafia ed Economia
        1.  La situazione economica generale
        2.  La penetrazione mafiosa nelle attività economiche.
  L'imprenditoria mafiosa
        3.  Il fenomeno dell'usura: occasione di produzione e di
  reinvestimento di capitali mafiosi
        4.  La diffusione del reato di estorsione
        5.  L'attività di contrasto alla penetrazione degli
  interessi criminali nell'economia legale.  Il sistema bancario
  e l'attività di rici-claggio.
        6.  Gli strumenti legislativi nel contrasto al
  riciclaggio.
        7.  Gli strumenti di analisi per le indagini
  patrimoniali.
        8.  I nuovi indirizzi dell'economia ed il sistema delle
  privatizzazioni e delle dismissioni del patrimonio pubblico
  Conclusioni.
 
                              Pag. 137
 
                      RELAZIONE ANNUALE
  Premessa
      La presente relazione, dopo una necessaria premessa
  relativa all'attività svolta, è articolata per tematiche
  oggetto di esame da parte della Commissione parlamentare nel
  corso di questo primo anno di legislatura, secondo lo schema
  del programma datosi dalla Commissione stessa, strutturato
  principalmente su tre grandi linee direttrici, che si possono
  così sintetizzare: 1)Verifica della congruità degli strumenti
  legislativi e della loro operatività, nonchè degli indirizzi
  del Parlamento e dell'azione dei pubblici poteri nel contrasto
  al fenomeno mafioso; 2)Evoluzione del fenomeno mafioso nelle
  sue connessioni con il sistema politico centrale e locale;
  3)Espansione del fenomeno mafioso nel sistema economico
  nazionale e internazionale.
 
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                 ATTIVITA' DELLA COMMISSIONE
                              I
      La Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno
  della mafia e sulle altre associazioni criminali similari,
  istituita con legge 30 giugno 1994, n.430, ha proceduto alla
  propria costituzione il 13 settembre 1994, approvando il
  successivo 21 ottobre il proprio regolamento interno.
      Da allora la Commissione ha tenuto 67 sedute, delle quali
  35 hanno riguardato audizioni.  Nello stesso periodo si sono
  tenute 42 riunioni dell'Ufficio di Presidenza allargato ai
  rappresentanti dei gruppi.
      Il 18 ottobre 1994 la Commissione ha approvato il proprio
  programma di lavoro, unitamente ad un documento di indirizzo.
  Tale programma individuava tre grandi linee direttrici di
  azione, formulate nel modo seguente: 1)verifica
  dell'attuazione della legge n.646 del 1982 sulle misure di
  prevenzione e delle altre leggi dello Stato concernenti il
  fenomeno mafioso, nonchè degli indirizzi del parlamento nella
  medesima materia; 2)accertamento della congruità della vigente
  normativa e dell'azione dei pubblici poteri, con conseguente
  formulazione di proposte di carattere legislativo e
  amministrativo; 3)accertamento e valutazione dell'evoluzione
  del fenomeno mafioso e di tutte le sue connessioni, con
  particolare riguardo da un lato ai rapporti tra mafia e
  politica, dall'altro ai rapporti tra mafia ed economia.
      Al fine di agevolare tale lavoro - come del resto
  delineato nello stesso programma - la Commissione ha quindi
  proceduto, lo stesso 18 ottobre, alla costituzione di quattro
  gruppi da lavoro, che hanno tenuto complessivamente 22 sedute.
  Il primo gruppo "Congruità degli strumenti legislativi e
  strutture di contrasto della criminalità organizzata",
  coordinato dapprima dal deputato Arlacchi e poi dal Presidente
  Parenti, ha tenuto in totale 4 riunioni.  Il secondo
  "Criminalità organizzata e politica", coordinato dal
  Presidente Parenti, ha tenuto in totale 5 riunioni.  Il terzo,
  "Criminalità organizzata ed economia", coordinato dal senatore
  Ramponi, ha tenuto in totale 6 riunioni.  Il quarto,
  "Organizzazioni criminali omogenee e non omogenee nelle aree
  del Centro-Nord", coordinato dapprima dal senatore Serena e
  poi dal senatore Peruzzotti, ha tenuto in totale 7 riunioni,
  procedendo anche, in tale ambito, all'audizione di diversi
  prefetti e rappresentanti delle forze dell'ordine di alcune
  province del Centro-Nord, vale a dire Como, Varese, Bologna,
  Ravenna, Forlì, Venezia, Verona e Padova.
      L'approfondimento dei temi enucleati nel programma di
  lavoro è comunque avvenuto principalmente in sede di
  Commissione plenaria, attraverso l'effettuazione di una
  rilevante serie di audizioni.  Si sono quindi avviati numerosi
  contatti a livello istituzionale, che hanno condotto, in tempi
  diversi, all'audizione del Ministro dell'interno e del
  Ministro della giustizia del Governo Berlusconi, e
  successivamente dello stesso Presidente del Consiglio
  Berlusconi sulle prospettive generali della lotta alla
  criminalità organizzata e sul coordinamento dei mezzi di
  contrasto.  Per quanto concerne il Governo Dini, sono stati
  ascoltati il Ministro di Grazia e giustizia e il
  Sottosegretario di Stato per l'Interno Luigi Rossi.  Con
  particolare riferimento al tema dei rapporti tra
 
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  mafia ed economia, si è proceduto all'audizione anche del
  Governatore e del Vicedirettore generale della Banca d'Italia,
  mentre sulle prospettive dell'attività di contrasto sono stati
  ascoltati, anche in diverse occasioni, i vertici delle forze
  dell'ordine e degli organismi maggiormente impegnati nella
  lotta alla criminalità organizzata.  Particolare attenzione è
  stata poi naturalmente portata all'attività della
  magistratura, con l'audizione dei responsabili di numerose
  Procure, oltre che di un membro del CSM e di dirigenti del
  Ministero di Grazia e Giustizia.
      Accanto a ciò si sono d'altra parte effettuate alcune
  missioni esterne, in grado di consentire - oltre alla
  testimonianza della diretta presenza della Commissione in zone
  e in regioni di particolare importanza - anche l'acquisizione
  "sul campo" di elementi preziosi per l'attività conoscitiva
  della Commissione stessa.  Si è ritenuto doveroso effettuare
  missioni nelle regioni del Mezzogiorno maggiormente "a
  rischio", in primo luogo per testimoniare l'attenzione e la
  solidarietà dell'intera Commissione nei confronti di chi in
  tali zone deve combattere, spesso in mezzo a grandi
  difficoltà, organizzazioni criminali diffuse sul territorio in
  modo pervasivo.  Nel corso di queste missioni sono stati quindi
  privilegiati, oltre ai contatti con i responsabili della
  magistratura, in particolare delle DDA, e delle forze
  dell'ordine, anche gli incontri con le associazioni della
  società civile e con i rappresentanti degli enti locali, non
  raramente vittime di atti di intimidazione a causa della loro
  volontà di contrastare in modo incisivo la presenza delle
  organizzazioni mafiose.  In questo ambito vanno quindi
  ricordate, sia pure con modalità di svolgimento diverse, la
  missione in Sicilia (Gela, Niscemi, San Giuseppe Jato e
  Corleone) del dicembre 1994, quelle in Calabria (Reggio
  Calabria, Palmi, Locri, Catanzaro, Crotone e Vibo Valentia)
  del gennaio e del marzo 1995, quella in Campania (Napoli,
  Caserta e Salerno) del febbraio 1995 e quella in Puglia (Bari
  e Lecce) del maggio 1995.  Sono state poi effettuate missioni a
  Reggio Calabria sul caso Cordopatri nel settembre 1994, nel
  carcere di Spoleto nel gennaio 1995, in Liguria (Genova e
  Sanremo) nell'aprile 1995 e in Sardegna (Cagliari) nel luglio
  di quest'anno.  In tutte queste missioni sono stati quindi
  acquisiti elementi di sicuro interesse per l'attività
  conoscitiva della Commissione stessa, alcuni emersi nelle
  relazioni già approvate ed altri che emergeranno nelle
  relazioni che dovranno essere approvate.
      Va infine detto che, essendosi palesata l'opportunità di
  tale visita nel corso della missione in Puglia, il 25 luglio
  1995 la Commissione si è recata in Albania, a Tirana, dove si
  sono tenuti incontri con esponenti del locale Parlamento,
  guidati dal Presidente Arbnori, e con rappresentanti del
  Governo albanese, guidati dal Primo Ministro Meksi.  Per quanto
  concerne i rapporti con l'estero, vanno qui ricordati anche i
  due incontri (8 marzo e 4 maggio 1995) avuti con due
  delegazioni del Baden-Wurttemberg, una governativa e una
  parlamentare, incontri nei quali sono stati discussi gli
  argomenti di comune interesse a proposito della normativa e
  degli strumenti di contrasto della criminalità organizzata,
  con particolare riferimento alle questioni del riciclaggio e
  del sequestro di beni.
      Non può essere sottovalutata poi l'importanza della
  documentazione complessivamente acquisita dalla Commissione,
  consistente a
 
                              Pag. 140
 
  tutt'oggi in circa 700 documenti, 200 esposti e in 57 esposti
  anonimi, per la quale è stato proseguito il lavoro di
  informatizzazione già avviato dalla precedente Commissione
  antimafia.  Tra la corrispondenza in arrivo e quella in
  partenza sono stati protocollati complessivamente oltre 3300
  atti, riguardanti tematiche di grande vastità, quali il
  fenomeno dell'estorsione e dell'usura, l'attività delle
  strutture pubbliche e private operanti in tale settore,
  l'azione degli enti locali ai suoi diversi livelli, il
  funzionamento delle strutture di contrasto della criminalità e
  il mantenimento dell'ordine pubblico, il funzionamento degli
  uffici giudiziari e penitenziari.  Di fronte alle esigenze che
  sono state rappresentate, la Commissione ha svolto un ruolo di
  impulso e di sollecitazione nei confronti degli organi
  istituzionalmente competenti.
      All'interno della documentazione ricevuta, accanto alle
  relazioni e agli atti provenienti dalle strutture e dagli
  organi dell'Amministrazione statale, va comunque ricordata
  l'importanza degli atti acquisiti dal settore giudiziario,
  relativi sia a procedimenti giudiziari oramai definiti sia,
  per la maggior parte, a procedimenti giudiziari tuttora in
  corso.
                              II
      Nel corso di questo periodo sono stati approvati alcuni
  documenti e relazioni, che devono essere qui brevemente
  ricordati.
      Il 9 marzo 1995 è stato approvato, a conclusione
  dell'attività svolta dal gruppo di lavoro su "Mafia ed
  economia" e dopo l'effettuazione in Commissione plenaria di
  alcune audizioni - quella del rappresentante del Ministero del
  tesoro sull'attuazione della legge n. 197 del 1991, quella del
  Commissario straordinario del Governo per il coordinamento
  delle misure antiestorsione, quella dei responsabili di alcune
  associazioni impegnate nella lotta all'usura - un documento
  sull'usura, particolarmente rilevante se si considera il
  contemporaneo iter parlamentare del progetto di legge su tale
  argomento.
      Il 29 marzo dello stesso anno è stato approvato, al
  termine di una discussione svoltasi in Commissione plenaria,
  un documento di indirizzo sulle prospettive della lotta alla
  criminalità organizzata.
      Il 21 giugno 1995 è stato approvato un documento sulla
  situazione degli uffici giudiziari, dopo che su tale
  argomento, a conclusione dell'attività condotta da un
  informale gruppo ristretto di ricerca, erano stati ascoltati
  in Commissione plenaria il Ministro di Grazia e giustizia,
  alcuni dirigenti del Ministero di Grazia e Giustizia e un
  membro del CSM.
      Il 22 giugno 1995 - dopo che il 2 maggio era stata
  approvata una questione pregiudiziale sulla precedente bozza
  di relazione - è stato approvato un documento sulle
  problematiche relative ai collaboratori di giustizia.  Su tale
  argomento occorre ricordare che in Commissione erano stati in
  precedenza ascoltati il Direttore generale della Criminalpol e
  il Direttore del Servizio centrale di protezione, i
  rappresentanti di numerose Procure distrettuali, il Direttore
  della Direzione generale Affari penali del Ministero di Grazia
  e giustizia.
      Il 4 luglio sono state approvate distinte relazioni sulla
  missione
 
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  svolta in Sicilia, nei comuni di Gela, Niscemi, San Giuseppe
  Jato e Corleone.
      Il 26 luglio, a conclusione di una prolungata discussione
  in Commissione, è stato approvato un documento in materia di
  riciclaggio, mentre in pari data è stata approvata la
  relazione sul "Caso Cordopatri", dopo che la Commissione, in
  data 26 settembre 1994, si era recata direttamente a Reggio
  Calabria per approfondire la questione.
      Sempre in tale data è stata infine approvata la relazione
  sulla missione svolta il 6 aprile 1995 in Liguria, a Genova e
  a Sanremo.
      E' opportuno ricordare anche che nella seduta del 9
  febbraio 1995 era iniziata la discussione della relazione
  sull'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario, poi non
  proseguita per l'approvazione di una pregiudiziale.  Su tale
  argomento erano stati ascoltati in Commissione plenaria il
  Direttore generale del Dipartimento dell'amministrazione
  penitenziaria e i presidenti di cinque Tribunali di
  sorveglianza (Catanzaro, Napoli, Milano, Ancona e Perugia).
      Sono state inoltre avviate, pur non essendo ancora
  concluse, la discussione della relazione sulla situazione
  della Campania e quella della relazione sul caso Mandalari.  Su
  quest'ultimo argomento va ricordato che la Commissione ha
  proceduto a diverse audizioni, tra cui quella di alcuni
  parlamentari e di alcuni dirigenti delle forze dell'ordine.
      E' poi imminente il deposito delle relazioni sulla
  missione in Puglia e sulle missioni in Calabria, il cui esame
  potrà quindi essere avviato nelle prossime settimane.
      E' opportuno conclusivamente ricordare che la Commissione
  ha mantenuto una costante attenzione nei confronti
  dell'evoluzione di alcuni pericolosi fenomeni criminali
  verificatisi nel corso di quest'ultimo anno particolarmente in
  Sicilia, come è testimoniato dalle audizioni svoltesi su
  questi argomenti in tempi diversi, dal marzo al luglio, del
  Sottosegretario agli interni Luigi Rossi, del Prefetto di
  Palermo e dei vertici dell'Arma dei Carabinieri, della Polizia
  e dello SCO, e della DIA.
                             III
      Si ritiene infine di fornire qui un breve quadro delle
  sedute in Commissione plenaria finora tenute:
        1) 13 settembre 1994: costituzione dell'Ufficio di
  presidenza;
        2) 15 settembre 1994: esame del regolamento interno
  della Commissione;
        3) 19 settembre 1994: audizione del Ministro
  dell'interno, on. Roberto MARONI, sullo stato della lotta alla
  criminalità organizzata;
        4) 19 settembre 1994: audizione del Ministro di Grazia
  e giustizia, on. Alfredo BIONDI, sulla situazione
  dell'ordinamento giudiziario e penitenziario;
        5) 27 settembre 1994: audizione del prefetto Ferdinando
  MASONE, Capo della polizia, sullo stato della lotta alla
  criminalità;
        6) 28 settembre 1994: audizione del dott. Bruno
  SICLARI, Procuratore nazionale antimafia, sui rapporti tra
  procure distrettuali antimafia e direzione nazionale antimafia
  e sui rapporti tra procure distrettuali
 
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  e procure ordinarie; audizione del Gen.  Costantino
  BERLENGHI, Comandante Generale della Guardia di finanza, sulle
  infiltrazioni della criminalità nelle attività economiche e
  sulla struttura di controllo dei movimenti finanziari;
        7) 30 settembre 1994: audizione del Gen.  Giovanni
  VERDICCHIO, direttore della DIA, e del dottor Gianni DE
  GENNARO, direttore della Criminalpol, sulle prospettive delle
  attuali strutture di contrasto della criminalità e sul
  coordinamento con l'azione dell'autorità giudiziaria, sui
  risultati dell'attività investigativa e sull'attualità del
  sistema di analisi della criminalità;
        8) 4 ottobre 1994: audizione del Gen.  Luigi FEDERICI,
  comandante generale dell'Arma dei Carabinieri, sullo stato
  della lotta alla criminalità;
        9) 4 ottobre 1994: audizione del Gen.  Gaetano MARINO,
  direttore del SISDE, e del Gen.  Sergio SIRACUSA, direttore del
  SISMI, sul ruolo dei servizi nella lotta alla criminalità
  organizzata;
        10) 5 ottobre 1994: rinvio dell'esame del regolamento
  interno della Commissione;
        11) 7 ottobre 1994: audizione del Governatore della
  Banca d'Italia, dott. Antonio FAZIO, sulla normativa italiana
  ed estera relativa al settore finanziario e bancario, con
  particolare riferimento al fenomeno del riciclaggio;
        12) 11 ottobre 1994: esame del regolamento interno
  della Commissione;
        13) 18 ottobre 1994: esame ed approvazione del
  programma dei lavori della Commissione, unitamente ad un
  documento di indirizzo;
        14) 21 ottobre 1994: seguito dell'esame ed approvazione
  del regolamento interno della Commissione;
        15) 21 ottobre 1994: audizione del Presidente del
  Consiglio, on. Silvio BERLUSCONI, sulle linee programmatiche
  dell'azione del Governo nella lotta alla criminalità
  organizzata;
        16) 26 ottobre 1994: audizione del dott. Alessandro
  MARGARA, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze,
  sull'applicazione dell'art. 41-bis;
        17) 28 ottobre 1994: seguito dell'audizione del
  Presidente del Consiglio, on. Silvio BERLUSCONI;
        18) 28 ottobre 1994: audizione del dott. Adalberto
  CAPRIOTTI, direttore generale del D.A.P., sull'applicazione
  dell'art. 41-bis;
        19) 3 novembre 1994: audizione della dott.ssa Antonella
  Giuliana MAGNAVITA, magistrato presso il Tribunale di
  sorveglianza di Catanzaro, del dottor Salvatore IOVINO,
  Presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli, e del
  dottor Antonio MACI, Presidente del Tribunale di Sorveglianza
  di Milano, sull'applicazione dell'art. 41-bis;
        20) 4 novembre 1994: seguito dell'audizione del
  Presidente del Consiglio, on. Silvio BERLUSCONI;
        21) 4 novembre 1995: audizione del dott. Marcello
  GALASSI, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Ancona, e
  del dottor Piero POGGI, Presidente del Tribunale di
  Sorveglianza di Perugia, sull'applicazione dell'art.
  41-bis;
        22) 8 novembre 1994: audizione del dottor Gianni De
  GENNARO, direttore generale della Criminalpol e del generale
  Francesco
 
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  VALENTINI, direttore del servizio centrale di protezione, sui
  sistemi di protezione dei collaboratori di giustizia;
        23) 15 novembre 1994: audizione del dottor Giancarlo
  CASELLI, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di
  Palermo e del dottor Guido LO FORTE, Procuratore Aggiunto
  della Repubblica di Palermo, sui collaboratori di giustizia e
  sulla loro gestione;
        24) 30 novembre 1994: comunicazioni del Presidente;
        25) 1 dicembre 1994: comunicazioni del Presidente;
        26) 7 dicembre 1994: audizione del dottor Maurizio
  STRIZZI e del dottor Umberto CELOTTO, dirigenti superiori del
  MInistero del tesoro, sull'attuazione della legge n.197 del
  1991;
        27) 15 dicembre 1994: audizione del Prefetto Giorgio
  MUSIO, Commissario straordinario del Governo per il
  coordinamento delle misure antiracket, sui fenomeni
  dell'estorsione e dell'usura;
        28) 10 gennaio 1995: audizione del dottor Bruno
  SICLARI, Procuratore Nazionale Antimafia; del dottor Piero
  Luigi VIGNA, Procuratore della Repubblica di Firenze; del
  dottor Giovanni TINEBRA, Procuratore della Repubblica di
  Caltanissetta; del dottor Francesco Paolo GIORDANO,
  Procuratore della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di
  Caltanissetta; del dottor Gian Carlo CASELLI, Procuratore
  della Repubblica di Palermo; del dottor Antonio INGROIA,
  Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di
  Palermo;del dottor Marcello MADDALENA, Procuratore della
  Repubblica aggiunto presso il Tribunale di Torino; del dottor
  Franco MARZACHI', Procuratore della Repubblica aggiunto presso
  il Tribunale di Torino; del dottor Guido LO FORTE, Procuratore
  della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di Palermo; del
  dottor Manlio MINALE, Procuratore della Repubblica aggiunto
  presso il Tribunale di Milano; del dottor Paolo MANCUSO,
  Procuratore della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di
  Napoli e del dottor Loris D'AMBROSIO, direttore della
  Direzione generale affari penali del Ministero di Grazia e
  Giustizia, sul regolamento per la gestione dei collaboratori
  di giustizia;
        29) 10 gennaio 1995: audizione del dottor Piero Luigi
  VIGNA, Procuratore della Repubblica di Firenze, sulla
  situazione della criminalità organizzata di tipo tradizionale
  e non tradizionale nell'Italia centrale;
        30) 17 gennaio 1995: comunicazioni del Presidente sulla
  acquisizione degli atti processuali del caso Mandalari;
        31) 18 gennaio 1995: audizione del prefetto Pietro
  SOGGIU, sul problema delle tossicodipendenze;
        32) 1 febbraio 1995: audizione del dottor Alessandro
  PANSA, dirigente del nucleo centrale criminalità economica e
  informatica dello SCO della Polizia di Stato e del dottor
  Luigi SAVINA, dirigente della squadra mobile di Palermo,sul
  caso Mandalari;
        33) 2 febbraio 1995: audizione del deputato Giovanni
  MICCICHE', del senatore Filiberto SCALONE e del senatore
  Michele FIEROTTI, sul caso Mandalari;
        34) 9 febbraio 1995: discussione della relazione
  sull'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario ed
  approvazione di una questione pregiudiziale;
        35) 14 febbraio 1995: comunicazioni del Presidente in
  ordine
 
                              Pag. 144
 
  alla richiesta di convocazione straordinaria della
  Commissione ai sensi dell'articolo 9, comma 3, del regolamento
  interno;
        36) 21 febbraio 1995: comunicazione del Presidente
  sulla pubblicazione delle richieste di smentite e precisazioni
  a relazioni approvate dalla Commissione nella XI legislatura;
  comunicazioni del Presidente si sensi dell'articolo 8, comma
  1, del regolamento interno della Commissione, sul calendario
  dei lavori;
        37) 21 febbraio 1995: audizione della dottoressa Donata
  MONTI, coordinatrice del Cartello "Insieme contro l'usura",
  del dottor Roberto GIANNOLI, responsabile del credito
  nazionale Confartigianato, del dottor Franco CRUCIANI,
  coordinatore di Fedart-Fidi e del dottor Pasquale BUSA',
  coordinatore nazionale di SOS Impresa, sul fenomeno
  dell'usura;
        38) 28 febbraio 1995: discussione del documento sulle
  problematiche dell'attività di contrasto al fenomeno
  dell'usura;
        39) 8 marzo 1995: seguito della discussione del
  documento sulle problematiche dell'attività di contrasto al
  fenomeno dell'usura;
        40) 9 marzo 1995: seguito della discussione ed
  approvazione del documento sulle problematiche dell'attività
  di contrasto al fenomeno dell'usura;
        41) 15 marzo 1995: audizione del Sottosegretario di
  Stato per l'Interno, Prefetto Luigi ROSSI, sugli avvenimenti
  recentemente verificatisi in Sicilia;
        42) 15 marzo 1995: audizione del dottor Achille SERRA,
  Prefetto di Palermo, del generale Mario NUNZELLA, comandante
  del ROS dell'Arma dei Carabinieri, del dottor Gennaro MONACO,
  direttore dello SCO della Polizia di Stato, e del generale
  Giovanni VERDICCHIO, direttore della DIA, sulla situazione
  esistente in Sicilia;
        43) 16 marzo 1995: rinvio delle comunicazioni del
  Presidente sullo stato attuale e sulle prospettive dell'azione
  di contrasto alla criminalità organizzata;
        44) 17 marzo 1995: audizione del generale Mario
  NUNZELLA, Comandante del ROS dell'Arma dei Carabinieri, sulle
  questioni attinenti al suicidio del mar.  Lombardo;
        45) 21 marzo 1995: comunicazioni del Presidente sullo
  stato attuale e sulle prospettive dell'azione di contrasto
  alla criminalità organizzata;
        46) 29 marzo 1995: discussione ed approvazione di un
  documento sullo stato attuale e sulle prospettive dell'azione
  di contrasto alla criminalità organizzata; discussione della
  relazione sul regolamento dei collaboratori di giustizia;
        47) comunicazioni del Presidente;
        48) 2 maggio 1995: seguito della discussione della
  relazione sul regolamento dei collaboratori di giustizia ed
  approvazione di una questione pregiudiziale; discussione della
  relazione sul caso Mandalari;
        49) 9 maggio 1995: audizione del dottor Saverio Felice
  MANNINO, membro del Consiglio Superiore della Magistratura,
  del dottor Carlo Adriano TESTI, direttore generale, del dottor
  Giuseppe FALCONE, capo della segreteria, e del dottor Roberto
  PARZIALE, magistrato addetto alla segreteria
  dell'organizzazione giudiziaria e degli affari generali del
  Ministero di Grazia e Giustizia, sulla situazione degli uffici
  giudiziari;
 
                              Pag. 145
 
        50) 10 maggio 1995: audizione del dottor Filippo
  MANCUSO, Ministro di Grazia e Giustizia, sulla situazione
  degli uffici giudiziari;
        51) 13 giugno 1995: audizione del generale Francesco
  VALENTINI, direttore del Servizio centrale di protezione dei
  collaboratori di giustizia, sulla tutela dei collaboratori di
  giustizia;
        52) 14 giugno 1995: votazione per l'elezione suppletiva
  di un segretario;
        53) 20 giugno 1995: discussione del documento Bargone
  ed altri sulle problematiche relative ai collaboratori di
  giustizia; discussione del documento sulla situazione degli
  uffici giudiziari;
        54) 21 giugno 1995: elezione suppletiva di un
  segretario; seguito della discussione ed approvazione del
  documento sulla situazione degli uffici giudiziari;
  discussione del documento sulle misure di prevenzione
  patrimoniali;
        55) 22 giugno 1995: seguito della discussione ed
  approvazione del documento Bargone ed altri sulle
  problematiche relative ai collaboratori di giustizia;
        57) 4 luglio 1995: seguito della discussione del
  documento sulle misure di prevenzione patrimoniali; seguito
  della discussione ed approvazione della relazione sulla
  missione nei comuni di Niscemi, San Giuseppe Jato, Corleone e
  Gela;
        58) 5 luglio 1995: discussione della relazione sulla
  missione in Liguria;
        59) 11 luglio 1995: audizione dell'onorevole Silvio
  LIOTTA, sul "caso Mandalari";
        60) 12 luglio 1995: audizione del senatore Enrico LA
  LOGGIA, sul "caso Mandalari";
        61) 18 luglio 1995: audizione del Prefetto Ferdinando
  MASONE, capo della Polizia, e del generale Giovanni
  VERDICCHIO, direttore della DIA, sulle prospettive dell'azione
  di contrasto alla criminalità organizzata in seguito
  all'arresto di Leoluca Bagarella;
        62) 19 luglio 1995: Commemorazione della strage di Via
  D'Amelio; seguito della discussione della relazione sulla
  missione in Liguria; seguito della discussione del documento
  sulle misure di prevenzione patrimoniali; discussione della
  relazione sul caso Cordopatri;
        63) 26 luglio 1995: seguito della discussione ed
  approvazione della relazione sulla missione in Liguria;
  seguito della discussione ed approvazione della relazione sul
  caso Cordopatri; seguito della discussione ed approvazione del
  documento sulle misure di prevenzione patrimoniali;
        64) 27 luglio 1995: discussione della relazione sulla
  situazione della Campania;
        65) 28 luglio 1995: audizione del dottor Piero Luigi
  VIGNA, Procuratore della Repubblica di Firenze, sulle indagini
  relative alle stragi dell'estate 1993;
        66) 1 agosto 1995: seguito della discussione della
  relazione sulla Campania;
        67) 2 agosto 1995: seguito della discussione della
  relazione sulla Campania.
 
                              Pag. 146
 
                    Prospetto riassuntivo
                      ...  (omissis) ...
    Documenti approvati dalla Commissione:
        1) 9 marzo 1995: Documento sulle problematiche
  dell'attività di contrasto al fenomeno dell'usura (rel: sen.
  Ramponi)
        2) 29 marzo 1995: Documento sullo stato e sulle
  prospettive dell'azione di contrasto alla criminalità
  organizzata (rel: on. Bargone)
        3) 21 giugno 1995: Documento sulla situazione degli
  uffici giudiziari (rel: sen. Imposimato)
        4) 22 giugno 1995: Documento sulle problematiche
  relative ai collaboratori di giustizia (rel: on. Bargone)
        5) 4 luglio 1995: Relazione sulla missione svolta nei
  comuni di Gela, Niscemi, San Giuseppe Jato e Corleone (rel:
  sen. Ramponi)
        6) 26 luglio 1995: Relazione sul caso Cordopatri (rel:
  on. Vendola)
        7) 26 luglio 1995: Relazione sulla missione svolta in
  Liguria (rel: on. Tarditi)
        8) 26 luglio 1995: Documento relativo alle indagini in
  materia di riciclaggio (rel: sen. Ramponi).
      Documentazione pervenuta:
      Documenti .........................        686
      Esposti ...........................        183
      Anonimi ...........................        57
      Totale ............................        926
      Totale corrispondenza (arrivo-partenza)  3.315
 
                              Pag. 147
 
                          CAPITOLO I
  VERIFICA DELLA CONGRUITA' DEGLI STRUMENTI LEGISLATIVI VIGENTI
  E DELL'AZIONE DEI PUBBLICI POTERI NEL CONTRASTO AL FENOMENO
                           MAFIOSO
  1.  L'azione dell'autorità giudiziaria
      1.1 La Commissione deve constatare sul piano giudiziario
  che lusinghieri, importanti risultati contro la criminalità
  organizzata di stampo mafioso sono stati ottenuti, grazie ad
  una continuo incremento dell'azione sviluppata principalmente
  dalle Direzioni distrettuali antimafia.
      Rispetto ad esse, la Direzione Nazionale Antimafia,
  ancora in fase di evoluzione verso uno standard operativo a
  règime, a causa dei tempi necessari alla definizione in tutti
  i suoi complessi aspetti della banca dati centrale alla cui
  costituzione è da tempo direttamente impegnata, oltre a
  potenziarne il ruolo con diffuse applicazioni di suoi
  magistrati, ha continuato a svolgere quella funzione di
  coordinamento, di impulso e di rafforzamento assegnatole dagli
  art. 371-bis c.p.p. e 110-bis R.D. 30 gennaio 1941 n.12.
      Sulla base delle ordinanze di custodia cautelare emesse
  dai G.I.P. distrettuali nei confronti di un gran numero di
  indagati, parte delle quali hanno già trovato positiva
  conferma nelle relative sentenze intervenute nei vari gradi di
  giudizio, può affermarsi il conseguimento di risultati fino a
  pochi anni fa irraggiungibili.  Sono state infatti delineate
  nuove organizzazioni mafiose; sono state approfondite le
  articolazioni interne di quelle già inquisite; sono state
  scoperte profonde ingerenze dei sodalizi di stampo mafioso nel
  tessuto socio-economico e politico.
      L'efficacia ed il coordinamento dell'azione giudiziaria
  ed investigativa, attraverso il reticolo costituito sul
  territorio nazionale dalle Direzioni distrettuali antimafia e
  dai Servizi centrali delle forze dell'ordine, sono valsi
  altresì a delineare l'imponente presenza della criminalità
  organizzata nel settore dell'usura, ed a conseguire
  importantissimi risultati nel settore del traffico degli
  stupefacenti e delle armi.  Emerge così uno spaccato delle
  associazioni di stampo mafioso ormai diffuse sull'intero
  territorio nazionale con consistenza e struttura
  imprenditoriale, sia per gli interessi economici di
  elevatissimo valore trattati, sia per il coinvolgimento
  numerico assai alto dei soggetti - vuoi organici vuoi
  indirettamente complici - dediti in maniera organizzata a tali
  delinquenziali attività.
      La scoperta di un reticolo criminale così radicato,
  diffuso ed allarmante, con effetti perversi in grado di
  inquinare la vita civile del Paese, rappresenta un fenomeno
  che la Commissione deve segnalare in tutta la sua potenziale
  pericolosità; una realtà alla quale solo in questi ultimi anni
  è stato possibile accedere e contrapporre, di conseguenza,
  quell'azione risanatrice che lo Stato ha decisamente
  imboccato.
 
                              Pag. 148
 
      L'utilità degli accertamenti condotti dalle Direzioni
  distrettuali antimafia va apprezzata in tutto il suo valore
  anche per l'attenzione con la quale esse hanno saputo seguire
  l'evoluzione e le metamorfosi del fenomeno mafioso.  Si sono
  saputi sviluppare interventi in ogni direzione mirando non
  soltanto alle attività delinquenziali tradizionali di simili
  sodali, quali il traffico di sostanze stupefacenti, le
  estorsioni, il settore delle pubbliche commesse, ma anche
  orientandosi verso nuove aree economiche, quali il riciclaggio
  di rifiuti solidi urbani, le frodi comunitarie, su cui la
  criminalità organizzata ormai punta in maniera evidente.
  1.2  L'impulso ed il coordinamento
      Il forte impulso dato negli ultimi anni alle
  investigazioni contro la criminalità organizzata di stampo
  mafioso, reso possibile soprattutto dalla normativa sui
  collaboratori di giustizia oltre che dalla creazione di
  strutture specializzate e dall'affinamento di strumenti
  processuali di indagine, ha incrementato l'avvio di numerose
  indagini preliminari che hanno impegnato ed impegnano al
  massimo le capacità funzionali delle D.D.A., per le quali si
  pone un rafforzamento di organici.
      La Commissione, nel corso dei suoi lavori, si è
  ripetutamente interessata a questa allarmante situazione, che
  rischia - in una prospettiva purtroppo non lontana - di
  vanificare l'enorme impegno in termini di uomini e di risorse
  profuso dallo Stato nello sviluppo di un'azione coraggiosa ed
  efficace contro la mafia.
      Nell'audizione del 10.5.1995 il Ministro di Grazia e
  Giustizia ha informato la Commissione che, per difficoltà di
  ordine economico, non si prevede la possibilità di sopperire a
  tali urgenze con nuovi aumenti di organici, rispetto ai quali
  sarebbe comunque agevole un rilievo di intempestività, dati i
  tempi necessari per esaurire i relativi concorsi, e parimenti
  - rispetto alla attuale emergenza - sono destinati a rivelarsi
  i risultati della apposita Commissione ministeriale incaricata
  di studiare la revisione generale delle piante organiche degli
  Uffici giudiziari.
      Il Consiglio Superiore della Magistratura, a sua volta,
  ha informato di aver privilegiato, nei trasferimenti, la
  copertura di quelle sedi non solo gravate da carichi di lavoro
  maggiori, ma caratterizzate da una più pesante presenza della
  criminalità organizzata.  L'analisi dei termini concreti
  conseguiti all'apprezzabile attenzione riposta, non appare
  perciò sufficiente a fronteggiare la emergenza della
  situazione.
      Per questo, la Commissione, ha approvato un documento,
  nel quale propone al Governo ed al Parlamento correttivi
  normativi urgenti, anche di natura economica, in grado di
  incentivare sia la permanenza di magistrati di prima nomina
  presso le sedi meridionali, notoriamente affette da un
  ricambio di organico che ne riduce la efficienza, sia la
  disponibilità ad essere ivi applicati.
      L'istituto dell'applicazione su disponibilità, proprio
  perchè caratterizzato da una elasticità e da una immediatezza
  in grado di superare gli aspetti negativi della rigidità degli
  organici degli uffici giudiziari, può costituire uno
  strumento, per quanto provvisorio e non risolutivo
 
                              Pag. 149
 
  della problematica, utile a fronteggiare gli allarmanti
  scenari processuali che si delineano.
      1.3 Sotto altro profilo l'istituto della applicazione è
  stato richiesto dai Procuratori ordinari della Repubblica -
  nel corso di diverse audizioni durante le missioni svolte sul
  territorio -, per ridistribuire la competenza in materia di
  "reati di mafia" (art. 51, 3^ comma bis c.p.p.) fra tutte le
  Procure della Repubblica, secondo il sistema previgente al
  D.L. n.345/1991.  Le richieste sono state fondate sul rilievo
  che la concentrazione delle indagini preliminari presso la
  Procura distrettuale, la quale a sua volta si avvale della
  DIA, dei Servizi Centrali e interprovinciali, finisce per
  escludere le Forze dell'ordine presenti in sede locale che, di
  riflesso, demotivate, o comunque non coinvolte in termini di
  operativo impiego adeguato, hanno finito per perdere contatto
  con l'andamento e l'evoluzione della criminalità organizzata
  locale, ponendosi in una posizione - in senso traslato, ma
  aderente alla realtà degli effetti seguiti - di "distacco per
  incompetenza" rispetto al fenomeno.
      A loro volta, le Procure della Repubblica ordinarie,
  nella trattazione degli affari penali di pertinenza, hanno
  apertamente riferito di non avere avuto ragione di
  approfondire determinati aspetti - ancorchè collaterali, ma
  non per questo secondari - proprio perchè legati a reati
  rientranti nel novero di quelli aggravati dal cd. "fine di
  mafiosità" e come tali non di loro competenza.
      Le conseguenze pratiche della segnalata situazione non
  sono di segno positivo.
      Manca una disposizione che realizzi un "interscambio", o
  per meglio dire, che assicuri non solo la concentrazione di
  dati conoscitivi, circa i reati di cui all'art. 51, 3^ comma
  bis c.p.p., ma anche la loro continua alimentazione,
  analogamente a quanto disposto dall'art. 3 del D.L. n.345/1991
  in materia di attribuzione alla D.I.A. rispetto agli altri
  organi di Polizia.
      Manca inoltre, sul piano normativo attuale, uno strumento
  giuridico che possa realizzare una funzione di raccordo tra le
  D.D.A. e le procure ordinarie, necessaria ad integrare, in una
  visione generale, tutte le notizie comunque acquisite
  dall'Autorità giudiziaria inquirente a proposito di delitti di
  stampo mafioso.
      Il relativo coordinamento resta così affidato ancora oggi
  alla iniziativa dei singoli magistrati, alla conoscenza ed ai
  buoni rapporti tra i titolari di indagini: insomma ad uno
  spontaneismo sicuramente apprezzabile, ma sul quale non si può
  sicuramente fare conto nell'ambito di un serio programma che
  consideri i dati, le notizie e le informazioni come una
  materia "unitaria", come un momento assolutamente necessario
  ed imprescindibile per lo sviluppo di un'azione di contrasto
  contro la mafia svolta sull'intero territorio nazionale.  E'
  proprio quest'ultimo dato, ossia il carattere espansivo
  assunto dal fenomeno mafioso, a qualificare ulteriormente
  detta esigenza ed a proporla quindi al legislatore in termini
  di urgenza e necessità non differibili.
      Nella prospettiva sarebbe opportuno che presso ciascuna
  Procura distrettuale fosse applicato, con impegno naturalmente
  rapportato anche
 
                              Pag. 150
 
  alle esigenze dell'ufficio di provenienza, almeno un
  magistrato per ciascuna Procura della Repubblica istituita
  presso i Tribunali che insistono nel distretto.
      Una configurazione del genere, ove assumesse quel
  carattere continuo e generalizzato che la Commissione auspica,
  consentirebbe di conseguire due importanti risultati.
  Assicurerebbe, da un lato, la continuità dello stesso
  rappresentante della Pubblica accusa dalla fase delle indagini
  preliminari alla fase dibattimentale, nei processi di
  criminalità organizzata celebrati in Tribunali diversi da
  quelli sedi di D.D.A., e dall'altro una reciproca
  valorizzazione dei dati e delle notizie di interesse
  funzionale nell'ambito delle rispettive competenze e una più
  articolata azione investigativa sul territorio.
  2.  L'azione delle Forze dell'ordine
      2.1 Deve convenirsi, alla stregua di inconfutabili
  diffuse conferme, che i crescenti risultati conseguiti dalla
  Magistratura e dalle Forze dell'ordine contro le associazioni
  a delinquere di stampo mafioso sono dovuti in parte
  determinante al contributo offerto dai collaboratori di
  giustizia.  La crescita geometrica di questi ultimi, rivelatasi
  fondamentale per la conoscenza del fenomeno criminale, anche
  in relazione alle dinamiche maturate al suo interno, ha
  comportato - come effetto indotto - un mutamento del costume
  processuale e, prima ancora, di quello investigativo.
      La funzione degli organi inquirenti, intesi in senso
  lato, rischia sempre di più di svilupparsi ormai in conformità
  a schemi di indagine costruiti secondo un metodo "deduttivo" e
  non "induttivo".
      In pratica la ricerca del colpevole non avviene più
  generalmente partendo dalla "generica" del reato e sviluppando
  fino in fondo gli spunti da essa proposti, ma ponendo in
  essere investigazioni dirette, a posteriori, a riscontrare le
  indicazioni fornite in proposito dal o dai collaboratori di
  giustizia.  Le investigazioni delle Forze dell'ordine, in tal
  modo, non "evolvono" verso la autonoma scoperta del colpevole,
  ma si impostano come una "verifica" a posteriori di un
  accusa-denuncia, con il rischio, non trascurabile, di indurre
  ad una disincentivazione della capacità investigativa di
  iniziativa delle Forze dell'ordine, appiattendola su moduli di
  accertamento burocratici e meno qualificante sotto il profilo
  tecnico.
      2.2 Il coordinamento: lo stato attuale - nella
  prospettiva di un rafforzamento
      Oltre al Comitato Nazionale per l'Ordine e la Sicurezza
  pubblica, organo ausiliario di alta consulenza del Ministro
  dell'Interno, al quale - tra l'altro - è demandato il compito
  di esprimersi sui "piani per l'attribuzione delle competenze
  funzionali e territoriali" e "sulle pianificazioni della
  dislocazione e del coordinamento delle Forze di polizia,
  funzione preminente assume - nella prospettiva in esame - il
  Consiglio Generale per la lotta alla criminalità organizzata,
  anch'esso sotto la presidenza dello stesso Ministro
  dell'Interno, composto dal Capo della Polizia - direttore
  generale della pubblica sicurezza, dai Comandanti generali
  dell'Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di
 
                              Pag. 151
 
  Finanza, dai direttori del SISDE e del SISMI.  Alle relative
  riunioni partecipa anche il Direttore della DIA che riferisce
  sul funzionamento dei servizi posti alla sue dipendenze e sui
  risultati conseguiti.
      Il Consiglio Generale per la lotta alla criminalità
  organizzata assomma funzioni di impulso attraverso la
  titolarità dei poteri di direttiva, di controllo e di
  coordinamento, al fine di definire ed adeguare gli indirizzi
  per le linee di prevenzione e anticrimine e per le attività
  investigative, "determinando una ripartizione dei compiti tra
  le forze di polizia per aree, settori di attività e tipologia
  dei fenomeni criminali, tenuto conto dei servizi affidati ai
  relativi uffici ed alle strutture - con particolare
  riferimento a quelle interforze - operanti a livello centrale
  e periferico" (v. art.1 della L. n.410 del 1991).
      Concorre inoltre alla determinazione delle direttive per
  lo svolgimento delle attività di coordinamento esercitate dai
  Prefetti dei capoluoghi di regione, ed individua le risorse, i
  mezzi e le attrezzature necessarie agli uffici ed ai reparti
  impiegati nell'azione antimafia, fissando "i criteri per
  razionalizzarne l'impiego".
      Allo scopo di realizzare un interscambio informativo più
  intenso, di pervenire ad una ripartizione di obiettivi tra le
  forze di polizia e la DIA, e di istituire un sistema integrato
  interforze, a livello periferico e centrale finalizzato alla
  stesura ed all'aggiornamento delle "mappe delle famiglie
  criminali", sono stati adottati dal Consiglio una serie di
  decreti.
        Il D.M. 22 gennaio 1992
      Con il D.M. 22 gennaio 1992 si è stabilito che, in
  attuazione del principio della reciprocità informativa, tutti
  gli uffici devono scambiarsi le notizie acquisite nel corso
  della attività conoscitiva ed operativa, anche attraverso una
  opportuna canalizzazione delle stesse negli archivi e negli
  schedari della Banca - Dati Interforze, nel rispetto del
  segreto di indagine.  E' poi sancita la istituzione di un
  sistema integrato interforze finalizzato alla attuazione della
  mappa delle famiglie criminali, organismo quest'ultimo
  denominato G.I.I.C. (Gruppo Integrato Interforze Centrale),
  attuato effettivamente attraverso il D.M. 15 luglio 1993.
      Attraverso la stesso provvedimento è poi avvenuta la
  ripartizione tra le forze dell'ordine in materia di proposte
  per l'applicazione delle misure di prevenzione personali e
  patrimoniali, in base al principio della "concentrazione di
  informazioni" in un determinato organismo di polizia.  Si sono
  inoltre fissati specifici criteri di intervento con
  determinazione di priorità tra le forze di polizia e la DIA
  nei settori: dei sequestri di persona; della ricerca dei
  latitanti; degli appalti di opere pubbliche; dei controlli da
  esercitare nei confronti di soggetti pericolosi (sottoposti a
  misure di prevenzione ovvero ammessi a particolari trattamenti
  previsti dall'ordinamento penitenziario).
        Il D.M. 12 febbraio 1992
      Con il D.M. 12 febbraio 1992, sono stati specificati i
  criteri per la dislocazione sul territorio dei presidi di
  polizia, allo scopo di migliorare l'impiego delle risorse e di
  rafforzare il coordinamento operativo delle forze di polizia.
  Si è così determinato di assicurare una distribuzione
 
                              Pag. 152
 
  differenziata sul territorio in base al principio per
  cui la Polizia di Stato privilegerà il rafforzamento della
  propria presenza nei centri capoluogo di provincia e l'Arma
  dei Carabinieri nelle altre località, mentre per quanto
  concerne la Guardia di finanza la sua dislocazione
  territoriale dovrà corrispondere alle specifiche finalità
  istituzionali del Corpo.
      Con quest'ultimo decreto sono state tra l'altro definite
  le modalità per l'attuazione delle interconnessioni tra le
  sale operative delle Forze di polizia e per lo scambio
  reciproco di informazioni in tempo reale.
        Il D.M. 21.2.1992
      Con il D.M. 21 febbraio 1992, infine, sono state fissate
  le linee di prevenzione anticrimine per le attività
  investigative della DIA con conseguente individuazione degli
  obiettivi strategici.
      Nella prospettiva di rafforzare il raccordo dell'attività
  di investigazione preventiva, il Ministro dell'Interno ha
  attribuito al Capo della Polizia - direttore generale della
  Pubblica sicurezza - l'incarico di porre in essere "ogni
  iniziativa volta a verificare la puntuale attuazione delle
  direttive al riguardo" (Direttiva del Ministro dell'Interno
  del 4 aprile 1995).
      Organi di raccordo a livello internazionale
      Nel settore delle attività internazionali, l'intervento
  delle forze di polizia è stato regolamentato, quanto alla
  funzione di raccordo, attraverso la "Segreteria Permanente e
  per i Comitati di collaborazione" che, costituita presso il
  Gabinetto del Ministro per l'Interno, cura gli aspetti
  politico - gestionali della collaborazione internazionale,
  dell'Ufficio di Coordinamento e Pianificazione e della
  Direzione Centrale della Polizia Criminale.  In questo stesso
  quadro si colloca l'attività della Divisione SIRENE, a
  composizione interforze, costituita nell'ambito della
  Direzione Centrale della Polizia Criminale, in esecuzione
  della Convenzione di Schengen e per le realizzazioni
  conseguenti agli accordi di Maastricht ed alla cooperazione
  Europol.
  3.  La Direzione Investigativa Antimafia
      3.1 Alla DIA, come è noto, la legge n. 410 del 1991
  affida il compito di assicurare lo svolgimento in forma
  coordinata delle attività di investigazione preventiva e di
  effettuare indagini di polizia giudiziaria relative
  esclusivamente a delitti di associazione mafiosa o comunque
  ricollegabili all'associazione medesima (in sostanza, ogni
  forma di manifestazione mafiosa ivi compreso il fenomeno delle
  estorsioni).
      Di particolare importanza si manifesta l'indicazione
  dell'art.3.3 della Legge n. 410 del 1991 che, sancendo
  l'operatività della DIA in stretto collegamento con gli uffici
  e le strutture delle forze di polizia esistenti a livello
  centrale e periferico, prevede in tale ottica la istituzione
  della figura del Vice Direttore Generale della Pubblica
  Sicurezza - Direttore Generale della Polizia Criminale.
  Proprio allo scopo di dare maggiore incisività al collegamento
  tra la DIA e le Forze di Polizia, è stata istituita con D.M.
  8.10.1992 una Commissione permanente,
 
                              Pag. 153
 
  da convocarsi a cura del vicedirettore generale della
  Pubblica Sicurezza, con lo scopo di affrontare tutte le
  problematiche " afferenti l'attribuzione di specifiche
  indagini ".
      Per quanto concerne le indagini di polizia giudiziaria,
  il ruolo centrale della DIA, nell'azione di contrasto alla
  criminalità organizzata, è stato poi concretamente confermato
  da una direttiva emanata dal Procuratore Nazionale Antimafia,
  in data 10 maggio 1993, con la quale sono state tracciate le
  linee generali di impiego e di coordinamento di tale
  organismo, dei Servizi centrali e delle articolazioni
  territoriali delle forze di polizia .  In tale provvedimento,
  si fa obbligo a tutti gli ufficiali ed agenti di p.g. dei
  Servizi Centrali ed Interprovinciali delle Forze di polizia,
  di informare costantemente il personale investigativo della
  DIA, incaricato di effettuare indagini collegate, di tutti gli
  elementi investigativi ed informativi di cui sono venuti
  comunque in possesso e di svolgere congiuntamente gli
  accertamenti e le attività investigative eventualmente
  richiesti.
      Sul piano delle analisi la Commissione deve osservare che
  sostanzialmente positive sono state le valutazioni espresse
  dai responsabilità della DIA e dei Servizi centrali in merito
  alla operatività del coordinamento rispetto al quale, anche
  durante le missioni compiute nei distretti finora visitati, i
  dirigenti locali delle forze dell'ordine non hanno mosso
  rilievi negativi.
      E' tuttavia rispetto alla linee di una futura politica
  del coordinamento delle forze di polizia che si sono delineate
  considerazioni e prospettive non sempre collimanti.  Alla
  esigenza manifestata dal Capo della Polizia di procedere
  " ad un ulteriore affinamento dell'azione di raccordo delle
  risorse disponibili ", attraverso il consolidamento delle
  funzioni attribuite all'Autorità centrale della P.S. ed alla
  rispettiva struttura di supporto, (ossia al Dipartimento in
  tutte le sue articolazioni tecniche), i Generali comandanti
  dell'Arma dei Carabinieri e della Guardia di finanza hanno
  espresso l'avviso che l'attuale impianto - avuto riguardo al
  livello di articolate attribuzioni funzionali raggiunto -
  " conserva ampi margini di manovra per realizzare l'impiego
  sinergico delle forze in campo, ove siano applicate
  rigorosamente le disposizioni emanate per il suo
  funzionamento " (v. nota del Comandante della G.d.F. n.
  153902 del 2.5.1995, p. 29 doc. 476).  Hanno inoltre rilevato
  che debba essere "esclusa l'ipotesi di dar vita ad ulteriori
  forme od a nuove strutture di coordinamento" e che "qualora si
  volesse comunque modificare il descritto attuale assetto del
  coordinamento", andrebbe evitata " l'attribuzione ad un
  medesimo organo, il Capo della Polizia, della duplice funzione
  di coordinatore (nella sua veste di Direttore generale della
  Pubblica sicurezza) e di coordinato (come vertice della
  Polizia di Stato) " - (v. nota del Comando generale
  dell'Arma dei Carabinieri, II Reparto S.M., protocollato il
  2.5.1995. n.478).
      3.2  Prospettiva di un rafforzamento
      La Commissione non può prescindere dalla constatazione
  che, da un lato, la molteplicità delle Forze di polizia
  chiamate a compiti di sicurezza e di ordine pubblico,
  dall'altro la mancanza di una differente, chiara definizione
  delle rispettive competenze, segnatamente per quanto riguarda
  le investigazioni preventive in materia di criminalità
 
                              Pag. 154
 
  organizzata, con una potenzialità di convergente ma autonoma
  azione, rendono indispensabile il ricorso alla funzione del
  coordinamento, inteso quale strumento giuridico in grado di
  regolare i rapporti tra autorità diverse in posizione di
  reciproca parità.
      Tuttavia, va salvaguardata l'esigenza che il
  coordinamento non venga esteso oltre il perimetro di quanto
  deve formarne oggetto, al fine di evitare una surrettizia
  attività integratrice delle forze dell'ordine di può ampio
  spessore, che rischierebbe di compromettere indirettamente,
  nella sostanza, l'autonomia delle forze collegate, rispetto ai
  residui settori di competenza diversi da quelli oggetto di
  coordinamento legislativo.  Si addiverrebbe altrimenti in
  pratica ad una unificazione strisciante, obiettivo fors'anche
  opportunamente perseguibile, ma con altri mezzi e per altre
  vie istituzionali.
      Nel rispetto di quest'ultima notazione, secondo la
  Commissione - che ha demandato al suo interno ad apposito
  gruppo l'approfondimento di tale delicata materia - i punti
  cardine di un rafforzamento di tale delicata azione di
  raccordo vanno individuati in particolare:
        in una sempre più incisiva e meditata ripartizione
  delle funzioni di prevenzione per aree, settori di attività e
  tipologie di reati da affidare alle singole forze, sia con
  riguardo alla evoluzione della dislocazione sul territorio
  delle rispettive risorse, sia con riferimento alla natura dei
  conseguenti interventi che tali dislocazioni finiranno
  prevedibilmente per implicare nei fatti.
        nello sviluppo, sempre più completo, tempestivo ed
  integrato di una banca dati interforze, che selezioni un'ampia
  massa di dati in conformità ad attente analisi, che consentano
  di anticipare i nuovi elementi conoscitivi, che, rispetto
  all'evoluzione metodologica di intervento, possano presentare
  interesse investigativo futuro;
        nel più razionale impiego, e non già nell'aumento,
  degli organismi deputati al controllo dell'azione di
  coordinamento.  Quest'ultimo risulta già caratterizzato, sotto
  diversi profili che interessano la competenza, da un
  consistente numero di strutture, delle quali sarebbe peraltro
  auspicabile la complessiva revisione, nell'ottica di una
  concentrazione che eviti rischi di dispersione delle energie
  complessivamente disponibili.
      Nodale sotto questo aspetto si configura il ruolo
  affidato dalla legge al Consiglio generale per la lotta alla
  criminalità organizzata, in base alle competenze succintamente
  sopra ricordate.  Di esso va rafforzato in modo particolare e
  concreto il compito di "verificare periodicamente i risultati
  conseguiti in relazione agli obiettivi strategici delineati e
  alle direttive impartite, proponendo, ove occorra, l'adozione
  dei provvedimenti atti a rimuovere carenze e disfunzioni e ad
  accertare responsabilità e inadempienze" (art. 1.1 lett. e)
  D.L. N. 355/91, conv. nella L. 410/91).
      Prima di modificare nuovamente il quadro normativo, è
  pertanto essenziale, in tale prospettiva, che sia rafforzata
  quest'ultima funzione di controllo, per cogliere se siano
  state rispettate le diverse attribuzioni, quali le positività
  e le negatività; se abbia avuto corso la diversa allocazione
  delle forze sul territorio e quali ne siano state le
  conseguenze; come si sia sviluppato il rapporto tra i servizi
  centrali e la
 
                              Pag. 155
 
  D.I.A.; se e in quale misura abbia funzionato la
  centralizzazione informatica delle notizie.  Del resto non va
  dimenticato che la importanza della funzione di verifica è già
  stata tempestivamente colta dal Ministro dell'Interno che ha
  avvertito l'esigenza di affidare a questo riguardo incarichi
  specifici al Capo della Polizia con la già citata
  Direttiva.
      A fronte di questa impostazione di ordine generale ed ai
  risultati dell'azione svolta dagli organi di cui ai punti
  predetti, è necessario che la Commissione prosegua
  nell'approfondimento, con un'ampiezza di fonti cui non possono
  restare estranei gli Uffici requirenti, nella consapevolezza
  della valenza del momento operativo, quale parametro di
  controllo concreto di incertezze e disfunzioni nell'ambito di
  una sinergica azione di contrasto più incisiva della
  criminalità organizzata.
      Si tratta di una linea di opportunità tanto più
  imprescindibile in quanto specifici rilievi critici sono stati
  riferiti in modo eloquente alla Commissione da importanti
  uffici giudiziari, avendo il Procuratore della Repubblica
  presso il Tribunale di Napoli annotato quanto segue (v. doc.
  299 Procura Napoli ): " 4- I rapporti tra le forze
  dell'ordine per quanto concerne il coordinamento risultano
  senz'altro buoni allorchè ci si muove all'interno delle
  indagini delegate - in cui è ormai frequente che nello stesso
  procedimento, o addirittura nell'indagine sullo stesso fatto
  vengano assegnati compiti specifici, assecondando le
  rispettive competenze, alle diverse forze di polizia.  Al
  contrario, le indagini di iniziativa sono condotte
  isolatamente da ciascuna Arma allorchè affrontino temi
  investigativi su cui è noto l'interessamento di altre ").
  Del resto, a dimostrazione che non si tratti di un fenomeno
  isolato, la Commissione fa presente quanto in proposito
  osservato anche dal Procuratore della Repubblica di Salerno in
  occasione della missione compiuta dalla Commissione il giorno
  8 febbraio c.a.: " i rapporti tra le forze dell'ordine in
  sede investigativa non sempre consentono un perfetto
  coordinamento ", anche se non ha mancato di aggiungere che
  " le difficoltà sono in ogni occasione superate senza
  detrimento della relativa indagine
   (1) V. nota della Procura della Repubblica presso il
  Tribunale di Salerno, pervenuta alla Commissione
  parlamentare antimafia il 9.2.1995 prot. n.1507.>".
  4.  Le misure di prevenzione patrimoniali
      4.1 Unitamente alle sanzioni penali, le misure di
  prevenzione completano il quadro degli strumenti giuridici ai
  quali il Legislatore affida la più incisiva azione di
  contrasto nei confronti della criminalità organizzata di
  stampo mafioso.
      A differenza del processo penale, fondato sulla prova, le
  misure di prevenzione si muovono nell'area più sfumata del
  sospetto e tendono a rimuovere situazioni di potenziale
  pericolo con l'adozione di provvedimenti specifici, di natura
  personale rispetto a soggetti che, per un complesso di
  circostanze individuate dalla legge, appaiono poter
  compromettere le esigenze di tutela della collettività.  Oltre
  che sul piano personale, esse incidono su quello patrimoniale,
  essendo prevista la confisca di quei beni in ordine ai quali
  la persona sottoposta a misura
 
                              Pag. 156
 
  di prevenzione personale ai sensi della legge n. 575 del 1965
  e successive modifiche, non fornisca adeguati ragguagli sulla
  legittimità della loro provenienza.
      E' su quest'ultimo genere di misure di prevenzione che la
  Commissione deve richiamare l'attenzione del Governo e del
  Parlamento in considerazione del particolare rilievo che tali
  strumenti hanno assunto nel quadro dell'azione di contrasto
  contro la mafia.
      E' infatti facilmente intuibile che in un contesto
  investigativo e giudiziario, nel quale le indagini dirette ad
  individuare e sottoporre a confisca i proventi illeciti dei
  sodalizi criminali nella fase del reinvestimento e dunque del
  riciclaggio, segnano risultati non ancora fortemente
  significativi per le difficoltà che incontra la relativa
  azione soprattutto a livello internazionale e, più in
  generale, sotto il profilo probatorio penale, le misure di
  prevenzione patrimoniali, per la loro configurazione
  giuridica, si pongono attualmente quale co-primario, incisivo
  strumento per privare la criminalità organizzata degli
  illeciti profitti accumulati.
      4.2  Dati a livello nazionale aggregati per grandi aree
  geografiche
      I risultati conseguiti dalle forze dell'ordine e
  dall'autorità giudiziaria attraverso lo strumento delle misure
  di prevenzione patrimoniale sono di tutto rispetto in termini
  di valore.
      Il sequestro di tali beni, momento propedeutico alla
  eventuale confisca, ammonta in tutta Italia, negli anni
  compresi tra il 1982 ed il 1993, a L.3.918.217.000.000 così
  ripartiti: - nel nord Italia: 277.626 (milioni); - nel centro
  Italia 222.758 (milioni); - nel sud Italia: 3.417.833
  (milioni).
      Le confische, nello stesso periodo, ammontano ad un
  totale di L.697.760 (milioni), così ripartire nel nord Italia:
  82.735 (milioni); - nel centro Italia: 30.272 (milioni); - nel
  sud Italia: 584.753 (milioni).
      Per contro, i dissequestri ammontano nello stesso periodo
  a lire 1.187.631 (milioni), così ripartiti: nel nord Italia:
  126.754 (milioni); - nel centro Italia: 16.363 (milioni); -
  nel sud Italia: 1.044.514 (milioni);
      Nel 1994, i valori sequestrati in base alla legge n.575
  del 1965 ammontano in termini di milioni a L.1.782.062, di cui
  26.737 al nord, 571.260 al centro e 1.184.065 al sud.; quelli
  confiscati assommano, in milioni, a L.107.143, di cui: 6.710
  al nord, 10.480 al centro e 89.953 al sud.  Nel primo semestre
  del 1995, infine, per effetto abbinato della legge n. 575 cit.
  e dell'art.12-sexies della L. n.501/1994 sono stati
  sequestrati beni per un valore complessivo di 2.374.818
  (milioni); quelli confiscati nello stesso periodo ammontano a
  L.65.610 (milioni).
      4.3  Dati relativi all'anno 1994 aggregati per talune
  regioni meridionali
      Per quanto concerne l'Italia meridionale ove si è
  concentrata la maggior entità in termini di sequestri,
  dissequestri e confische, nell'anno 1994, risulta che:
        in Calabria, i sequestri ammontano a 61.433 (milioni) e
  le confische a L.7.067 (milioni);
 
                              Pag. 157
 
        in Campania, i sequestri ammontano a L.47.900 (milioni)
  e le confische a L.29.900 (milioni);
        in Puglia, i sequestri ammontano a L.59.518 ( milioni)
  e le confische a L.19.222 (milioni);
        in Sicilia, i sequestri ammontano a L.1.015.214
  (milioni) e le confische a L.33.764 (milioni) (v. doc. Min.
  int. n.42 e aggiornamento al giugno 1995).
      Riepilogando, con riguardo agli ultimi 5 anni, per
  effetto della legge n. 575 del 1965 e succ. mod., avuto
  riguardo all'intero territorio nazionale, sono stati
  sottoposti a vincolo giudiziario beni stimati per i seguenti
  ammontari:
        anno 1990 beni sequestrati: 76.107.000.000 beni
  confiscati: 37.112.000.000
        anno 1991 beni sequestrati: 165.612.000.000 beni
  confiscati: 56.203.000.000
        anno 1992 beni sequestrati: 810.587.000.000 beni
  confiscati: 38.895.000.000
        anno 1993 beni sequestrati: 886.557.000.000 beni
  confiscati: 92.188.000.000
        anno 1994 beni sequestrati: 1.782.062.000.000 beni
  confiscati: 107.143.000.000
      Relativamente a detto quinquennio, tale complesso di beni
  ha dunque formato oggetto di confisca per un ammontare,
  secondo studi del Ministero dell'Interno, di 331.941.000.000,
  anche se le cifre indicate esprimono valori in termini di
  stima e, come tali, suscettibili di variare rispetto ai prezzi
  commerciali.
      Per debito di completezza va inoltre segnalato che i
  termini sviluppati non sono in realtà "omogenei", nel senso
  che statisticamente essi non raffrontano i risultati
  all'interno di ciascuna procedura, ma accomunano, fino ad ora
  complessivamente su base annua, i beni sequestrati,
  dissequestrati e confiscati senza distinguere tra procedure in
  corso e procedure definite; sicchè rispetto ad essi appare
  ineludibile per una più chiara lettura l'esigenza di fissarne
  con norme regolamentari la raccolta.
      La positività comunque dei dati complessivi è di per sè
  tale da esonerare da ogni commento, mentre deve essere ancora
  focalizzata, nella sua valenza negativa, la ridotta
  percentuale che, pure a fronte dell'imponente valore di beni
  confiscati, separa questi ultimi dall'ammontare di quelli
  sequestrati.  Varie possono essere le cause.  Fra queste, di
  certo, primeggia la stessa complessità dell' oggetto del
  processo di prevenzione patrimoniale, soprattutto per quanto
  attiene alla individuazione dei beni potenzialmente passibili
  di confisca e alla prova della loro appartenenza reale e della
  loro provenienza.
      E' dal 1982, grazie cioè alla approvazione della legge
  denominata Rognoni-La Torre (legge n.646 del 1982) che
  l'azione di contrasto delle forze dell'ordine contro la mafia
  si è finalmente indirizzata, in maniera molto più penetrante,
  all'individuazione ed al sequestro dei patrimoni mafiosi.
 
                              Pag. 158
 
      Si è trattato di un passaggio necessario, di grande
  significato, il quale però, sul piano gestionale e del
  reimpiego dei beni sequestrati e confiscati, ha richiesto
  sforzi di adattamento alle strutture pubbliche, e risoluzioni
  di tematiche giuridiche, delle quali costituiscono prova le
  diverse leggi che si sono via via succedute per operare i
  necessari adeguamenti della originaria legge n.575 del
  1965.
      A prescindere da un'ulteriore verifica della Commissione
  in merito alla adeguatezza dell'attuale impianto legislativo,
  inteso a contrastare il mantenimento ed il reimpiego di
  capitali criminali attraverso il duplice binario rappresentato
  dal processo penale e dal processo di prevenzione, è possibile
  comunque, sulla base delle indicazioni raccolte e muovendo
  dalle conclusioni della precedente Commissione parlamentare
  antimafia, individuare taluni aspetti meritevoli di immediato
  intervento migliorativo da parte del legislatore.
      4.4  Revisione dell'attuale distribuzione delle
  competenze
      La competenza ad applicare le misure di prevenzione
  personali e patrimoniali, ai sensi della legge n. 575 del
  1965, è attribuita al tribunale avente sede nella provincia
  ove risiede il soggetto nei cui confronti viene formulata la
  richiesta, sia ad opera del Procuratore della Repubblica che
  del Questore.
      Nonostante la legge n. 575 sia diretta principalmente ad
  incidere contro soggetti indiziati di appartenenza ad
  associazioni di stampo mafioso e sebbene nel 1991 siano state
  istituite tanto la Direzione nazionale antimafia quanto le
  Direzioni distrettuali antimafia, la normativa in proposito
  non è stata rivista nel suo complesso, essendosi il
  legislatore limitato ad estendere, con l'art. 24 della legge
  n. 356 del 1992, anche al Procuratore nazionale antimafia la
  titolarità di richiedere l'applicazione di misure di
  prevenzione personale, siccome previsto dalla legge n. 575 del
  1965 e succ. mod.
      La competenza in siffatta materia è dunque, ancora oggi,
  articolata su base provinciale per quanto concerne l'ufficio
  del pubblico ministero richiedente e del tribunale incaricato
  di decidere.  Il raccordo in tema di iniziativa, a livello
  centrale, è viceversa assicurato dalla omologa funzione di
  iniziativa attribuita al Procuratore nazionale antimafia.
      Ove si consideri che con la istituzione delle D.D.A. si
  sono venute a concentrare presso gli uffici requirenti, aventi
  sede nel capoluogo del distretto, tutte le indagini
  preliminari in materia di criminalità di stampo mafioso e - di
  conseguenza - le relative preinvestigazioni, appare non
  soltanto più logico, ma anche più funzionale, concentrare la
  competenza in questione sui tribunali con sede nei capoluoghi
  di distretto.  Parallelamente, la titolarità di richiedere tali
  misure, ferma restando la potestà già riconosciuta a ciascun
  Questore, andrebbe riconosciuta, per quanto concerne gli
  uffici del P.M., al Procuratore della Repubblica istituito
  presso il Tribunale "distrettuale".
      In questo modo, sarebbe possibile superare proprie quelle
  potenziali disfunzioni, quei diaframmi che, nell'attuale
  assetto, possono frapporsi in termini di conoscenza del
  fenomeno mafioso tra D.D.A. e Procure ordinarie; osservazioni
  circostanziate in tal senso sono state raccolte dalla
  Commissione nel corso di varie audizioni di magistrati
 
                              Pag. 159
 
  ordinari e distrettuali.  In sintesi, poichè l'impostazione
  dell'attuale sistema normativo porta in modo convergente, per
  quanto concerne l'azione giudiziaria di contrasto alla
  criminalità organizzata, all'impianto costituito dalla DNA e
  dalle D.D.A., un ampliamento delle competenze funzionali di
  queste ultime, anche in materia di misure di prevenzione, ai
  sensi della legge n. 575 del 1965 e succ. mod., ne
  rafforzerebbe il ruolo, oltre a rendere più agevole, nelle
  conoscenze e nei tempi, lo svolgimento di tali
  procedimenti.
      La stessa competenza in proposito del Procuratore
  nazionale antimafia finirebbe per collocarsi in un quadro di
  riferimento più chiaro: l'omologa competenza ad esso
  attribuita dalla legge in via concorrente con le Procure
  ordinarie si potrebbe più agevolmente rapportare a quella
  stessa situazione di indirizzo e controllo che, nei limiti
  segnati dall'art.371-bis c.p.p., gli è attribuita dalla legge
  in materia di reati di mafia.
      Peraltro è da osservare che l'art. 24 della legge n. 356
  del 1992 ha conferito al Procuratore nazionale antimafia la
  competenza di richiedere, nell'ambito della normativa n. 575
  citata, l'applicazione, di fatto, delle misure di prevenzione
  "personali".  Ritiene la Commissione che la mancata
  attribuzione all'ufficio citato del potere di avviare gli
  accertamenti previsti dall'art. 2-bis della legge n. 575,
  necessari ad individuare i beni suscettibili di sequestro e di
  confisca nell'ambito della stessa procedura, sia frutto
  soltanto di una svista del legislatore; tanto più inspiegabile
  in quanto nel Procuratore nazionale antimafia dovrebbero
  radicarsi tutte le conoscenze sulla criminalità organizzata e
  sulle consistenze dei singoli sodalizi ai fini anche
  dell'elaborazione delle strategie contrasto.
      Si tratta di una evidente dimenticanza alla quale la
  Commissione ritiene che il legislatore debba porre rimedio
  estendendo, attraverso una modifica dell'art.2-bis della legge
  n. 575, i relativi poteri anche al Procuratore nazionale
  antimafia; modifica tanto più urgente e necessaria in quanto i
  dati riportati in questo capitolo comprovano l'importanza che
  sempre più va assumendo, in termini di risultato contro la
  mafia, l'assoggettamento dei capitali criminali al sequestro e
  alla confisca.
      4.5 La Commissione ritiene utile anche l'indicazione di
  un'ulteriore correttivo nel procedimento penale e di
  prevenzione, volto ad evitare la perenzione del sequestro dei
  beni, conseguente alla morte dell'indagato, dell'imputato o
  del proposto.
      Ove si verifichi, infatti, la morte di uno di questi
  soggetti, i relativi processi si estinguono ed i beni posti
  eventualmente sotto sequestro sono resi nella disponibilità
  degli eredi.  Tale effetto si produce naturalmente anche ove si
  tratti di beni passibili di confisca obbligatoria ai sensi
  dell'art.416, penultimo comma c.p. e come tali suscettibili di
  rientrare nell'ambito di operatività dell'art.12-sexies D.L.
  123 del 1994, dal momento che, per giurisprudenza, in caso di
  sentenza di proscioglimento o comunque di definizione delle
  relative procedure a causa della morte dell'interessato,
  possono formare oggetto di confisca obbligatoria soltanto le
  cose intrinsecamente criminose; quelle cioè insuscettibili per
  loro natura di lecito commercio, uso o detenzione.
 
                              Pag. 160
 
      Il sistema presenta così, e la prospettazione è
  tutt'altro che meramente ipotetica, se si considera il numero
  di omicidi che segna le guerre di "mafia" e la conseguente
  definizione con decisioni "processuali" nei confronti di non
  pochi indagati e imputati, casi in cui ricchezze criminali
  possono sfuggire in maniera, palese, ma del tutto formalmente
  legittima all'accertamento giudiziario.
      La Commissione auspica che sia possibile al legislatore
  intervenire quanto prima al riguardo e propone quale possibile
  soluzione normativa un'ampliata applicazione dell'art. 2-ter,
  7 comma della legge n. 575 del 1965 e succ. mod. La
  disposizione infatti prevede la possibilità dell'avvio di un
  procedimento ai soli fini dell'applicazione di misure di
  prevenzione patrimoniali e come tale esso potrebbe essere
  utilmente praticato, con opportuni adattamenti, anche nei
  confronti della curatela o di coloro che, in qualità di eredi,
  subentrano nella titolarità dei beni assoggettati a suo tempo
  a sequestro perchè, sproporzionati al reddito o all'attività
  economica svolta dall'originario titolare o perchè frutto di
  attività illecite o loro reimpiego.
      Si deve tuttavia conclusivamente osservare che, a
  tutt'oggi, permane una rilevante differenza in termini
  quantitativi, tra beni originariamente sequestrati e quelli
  effettivamente confiscati.
      E ciò anche nell'ambito del procedimento penale.  A tal
  riguardo va sottolineata la scarsa funzionalità, nella sua
  applicazione, dell'art. 12 sexies introdotto dal D.L. n. 123
  del 1994, per la complessità delle verifiche sulla consistenza
  dei soggetti investigati, sia durante l'indagine preliminare,
  che nel corso del giudizio.
      La lentezza propria di questo provvedimento si rileva
  anche dai dati riferiti dal Capo della Polizia: nel 1994, per
  effetto dell'art. 12-sexies, sono stati sequestrati beni per
  un valore di L.53.976.000, mentre le relative confische sono
  state stimate in L.2.004.000.000.
      4.6  L'amministrazione e la destinazione dei cespiti
  produttivi sequestrati - problematiche relative
      La tematica di maggior difficoltà, a fronte
  dell'esperienza maturata in questi ultimi anni, è
  rappresentata dalla gestione dei beni e delle attività -
  soprattutto se costituite da imprese o società - sottratti per
  effetto del vincolo giudiziario alla criminalità
  organizzata.
      L'auspicio di un intervento del legislatore è stato già
  formulato nell'ambito di studi elaborati nella specifica
  materia dal Ministero dell'Interno (v. doc. Minis. interno
  citato) principalmente nella prospettiva di assicurare:
        la prosecuzione delle attività produttive delle aziende
  in sequestro;
        il mantenimento dei livelli occupazionali;
        il naturale sviluppo delle realtà economiche locali.
      La Commissione comprende le ragioni per cui diffusa e
  profonda ormai a tutti i livelli è maturata l'esigenza di
  separare - a proposito dell'amministrazione dei beni - la
  responsabilità del titolare, soggetto mafioso, dal destino
  dell'impresa.  Poichè i sequestri e le confische, anche per la
  parte relativa alle aziende, hanno interessato soprattutto le
  regioni meridionali, ove il tasso di disoccupazione
  principalmente
 
                              Pag. 161
 
  giovanile, raggiunge livelli spaventosi, sarebbe infatti
  veramente improvvida un'azione investigativa e giudiziaria
  che, per debellare il reinvestimento produttivo criminoso,
  finisse per distruggere la stessa attività attraverso la quale
  esso si manifestava, così compromettendo il posto di lavoro
  dei dipendenti estranei a qualsiasi, relativa contiguità
  delittuosa.  E' fondamentale "riconvertire in termini di
  legalità" ed agevolare con strumenti normativi ed economici lo
  sviluppo di tali imprese, dal momento che, dalla loro
  chiusura, potrebbero maturare frustrazioni ingiuste, quando
  non atteggiamenti di rancorose reazione contro l'Autorità.
      4.7 Il legislatore ha colto la delicatissima esigenza di
  assicurare, per quanto possibile, la continuità della gestione
  aziendale, anche nei casi in cui sia intervenuto il sequestro
  in vista dell'eventuale confisca, introducendo nella legge n.
  575 citata (v.art.1 della L. n. 292/89) l'art. 2 sexies, il
  quale, tra l'altro, prevede che con il provvedimento con il
  quale dispone il sequestro, previsto dagli articoli
  precedenti, il tribunale nomina il giudice delegato alla
  procedura ed un amministratore, con il compito di provvedere
  alla custodia, alla conservazione ed all'amministrazione dei
  beni sequestrati, anche nel corso degli eventuali giudizi di
  impugnazione, ed incrementare, se possibile, la redditività
  dei beni.  Nella stessa disposizione si attribuisce al giudice
  il potere di autorizzare l'amministratore a farsi coadiuvare,
  sotto la sua responsabilità, da tecnici o da altre persone
  retribuite.
      E' facile cogliere che la disposizione, anche per il modo
  con cui ha trovato applicazione, finisce per svilupparsi in
  un' ottica di custodia e non già con quel taglio manageriale
  che, per ragioni di sopravvivenza, la stessa natura del
  bene-impresa richiederebbe.  E' dunque di primaria importanza,
  da un lato, che la scelta dei "custodi" cada su imprenditori,
  docenti di discipline economiche, o manager; dall'altro, che
  sia assicurato l'accesso al credito in misura non inferiore a
  quella di cui usufruiva in precedenza.
      A ciò si aggiunga che, come è stato denunciato dal Capo
  della Polizia nel corso di una specifica audizione avanti a
  questa Commissione, spesso l'amministrazione temporanea dei
  beni sequestrati non riesce ad essere efficace, sia per la
  difficoltà di recepire amministratori di adeguate capacità;
  sia per la difficoltà di assicurare il reale allontanamento
  dei mafiosi e delle influenze mafiose dall'amministrazione dei
  beni sequestrati; sia per l'immediata, costante crisi
  produttiva e occupazionale nelle imprese sequestrate.
      La Commissione legislativa della Camera ha di recente
  approvato, un testo unificato della proposta di legge n. 1778
  (Di Lello Finuoli ed altri), introduttiva di ampie modifiche
  sugli aspetti sopra evidenziati in materia di gestione dei
  beni sequestrati e confiscati.  Si tratta di un'iniziativa che
  incontra, nelle sue linee portanti, il consenso della
  Commissione, la quale anzi ne auspica la più rapida,
  definitiva approvazione, considerandolo un sicuro strumento
  per risolvere le principali problematiche sociali conseguenti
  alla gestione dei beni e delle aziende sottratte alla
  criminalità organizzata.
      Con essa si interviene opportunamente sulla designazione
  degli amministratori da scegliere attraverso un criterio che
  privilegia la
 
                              Pag. 162
 
  competenza giuridica ed economica, legittimando, quando si
  tratta di sequestro di aziende, ovviamente da tarare nella
  loro individuazione, la possibilità di nominare quanti
  svolgono o abbiano svolto funzioni di commissario per
  l'amministrazione delle grandi imprese in crisi ai sensi della
  cosiddetta "legge Prodi" (D.L. 30 gennaio 1979 n. 26 conv. con
  modificazioni, dalla legge 3 aprile 1979 n. 95).
      La medesima proposta di legge concerne altresì la
  estensione degli interventi straordinari di integrazione
  salariale e di collocamento in mobilità, "per ragioni di
  sicurezza e di ordine pubblico", ai lavoratori delle aziende
  sottoposte a sequestro e confisca ai sensi della legge del 31
  maggio 1965 n. 575.  La ampliata possibilità di ricorso a
  simili forme di "ammortizzatori sociali" rappresenterà la
  testimonianza tangibile di un programma strategico dello
  Stato, volto ad abbinare all'azione repressiva contro la
  criminalità organizzata, la coessenziale, indispensabile
  politica di salvaguardia dei posti di lavoro e delle locali
  realtà imprenditoriali sottratte alla proprietà mafiosa.
      4.8 Particolare attenzione merita la destinazione dei
  beni confiscati e del provento della loro liquidazione, che la
  proposta citata attribuisce al Ministro delle finanze e dunque
  ad autorità apicale amministrativa.
      Secondo la legislazione vigente (art. 4 della legge n.
  282/89) è rimessa al Prefetto la formulazione delle proposte
  di destinazione dei beni dei quali, in esito alla processo di
  prevenzione di cui alla legge n. 575 del 1965 e succ. modif.,
  sia stata disposta in via definitiva la confisca.
      Fra le soluzioni che il Prefetto può adottare, dopo aver
  consultato il Comitato provinciale dell'ordine e della
  sicurezza pubblica, la legge prevede:
        l'utilizzazione demaniale;
        il trasferimento a titolo gratuito ad un ente pubblico
  per finalità sociali;
        la cessione ad imprese a partecipazione pubblica per la
  continuità produttiva;
        la vendita per un prezzo non inferiore alla stima
  dell'U.T.E.
      La materia è stata affrontata anche dal Ministero delle
  Finanze che il 2 luglio 1993 ha emanato una circolare
  esplicativa.  Il Consiglio di Stato, allo scopo di evitare che
  le vendite dei beni immobili e di quelli costituiti in azienda
  con il sistema dei pubblici incanti, siano esposte a possibili
  turbative derivanti dal luogo di svolgimento, ha ritenuto
  praticabile in data 18 gennaio 1993, il ricorso alla
  licitazione privata, invitando a parteciparvi i soggetti
  ritenuti affidabili dal Comitato Provinciale dell'ordine e
  della sicurezza pubblica, nonchè dall'Intendente di finanza e
  dal Sindaco del luogo ove si trovi l'immobile da alienare.
      Entrambi gli aspetti accennati formano oggetto della
  suddetta proposta di legge (C. n.1778) che, in un quadro
  generale di maggiore elasticità, prevede la vendita per i beni
  mobili, mentre configura soluzioni più analitiche rispetto a
  quelle attualmente vigenti per i beni aziendali e per gli
  immobili.  Questi ultimi sarebbero mantenuti al patrimonio
 
                              Pag. 163
 
  dello Stato o trasferiti, per finalità istituzionali
  o sociali, al patrimonio del comune ove l'immobile è sito;
  mentre i beni aziendali - ove non affittati o alienati -
  dovrebbero formare oggetto di liquidazione.  Positivo anche in
  questo caso è il giudizio della Commissione sulla soluzione al
  vaglio del legislatore.
      Da un'analisi delle esperienze maturate in altri Paesi,
  potrebbe poi utilmente muoversi per valutare la convenienza di
  dare ai proventi di origine delittuosa una destinazione
  maggiormente mirata nell'ambito di quelle stesse finalità di
  giustizia, di ordine pubblico e di protezione civile, cui la
  proposta di legge licenziata dalla Camera espressamente si
  richiama.  Non soltanto l'ipotesi di una concentrazione, a
  tempo indeterminato, di quanto confiscato presso un apposito
  fondo centrale, ma anche quella di una sua destinazione per
  fronteggiare specifiche spese di investigazione e di giustizia
  - come ad esempio, le spese relative ai collaboratori di
  giustizia - ovvero oneri di finanziamento o relative garanzie
  delle imprese sequestrate o confiscate, esalterebbero la
  finalità di rivolgere contro la mafia i suoi stessi illeciti
  guadagni.
  5.  I collaboratori di giustizia
      5.1 Sul tema dei collaboratori di giustizia, la
  Commissione si è soffermata in particolar modo, procedendo,
  attraverso l'audizione di magistrati, investigatori e
  rappresentanti degli organismi istituzionali più rilevanti,
  all'esame di aspetti di carattere generale, nonchè
  all'approfondimento di specifiche tematiche, quali
  l'emanazione del decreto interministeriale del 24.11.1994 in
  ottemperanza all'art. 103 della legge n. 82 del 1991 e alle
  critiche mosse da taluni collaboratori di giustizia sulla
  funzionalità del Servizio Centrale di Protezione.
      5.2 Sulla base di una diffusa e convalidata esperienza
  giudiziaria, la Commissione parlamentare antimafia afferma che
  non può assolutamente mettersi in dubbio la fondamentale
  importanza del contributo - tanto in termini di conoscenza del
  fenomeno, quanto di risultato investigativo e processuale -
  che i collaboratori di giustizia hanno apportato, e ancora
  oggi apportano, all'azione sviluppata dallo Stato per
  contrastare, circoscrivere e infine debellare, tra le altre
  manifestazioni di criminalità, la mafia e le associazioni a
  delinquere di stampo mafioso.
      Si doveva incidere sulla omertà e sulla intimidazione,
  quali strutturali connotati di tali sodalizi, che per lunghi
  anni hanno prosperato imponendo agli associati, alle vittime e
  a quanti direttamente o indirettamente sapevano di essi e dei
  loro misfatti, la ferrea regola del silenzio, sanzionando
  trasgressioni - come purtroppo è noto - con efferate,
  impressionanti, crudeli reazioni.
      Si doveva spingere la gente a superare questa paura,
  fornendo alla collettività prove concrete che, al di là delle
  affermazioni e dei proclami, lo Stato, nei fatti e con le
  leggi, aveva deciso di combattere in modo serio e radicale la
  mafia ed i fenomeni similari.  Si doveva fornire pubblica
  contezza che i poteri statali erano davvero in grado di
  salvaguardare i beni e l'incolumità di quanti, operando una
  scelta di
 
                              Pag. 164
 
  legalità, avessero dato un contributo alla magistratura ed
  alle Forze dell'ordine, istituzionalmente impegnate su tale
  fronte.
      Si configurava perciò una duplice esigenza: da una parte
  l'introduzione nell'ordinamento di una legislazione che
  inducesse forme di collaborazione; dall'altra la necessità di
  dimostrare che i competenti organi sono in grado di mantenere
  in concreto l'impegno di tutela che si assicura attraverso le
  norme.
      Operazione, dunque, di particolare delicatezza, rispetto
  all'assetto del vigente ordinamento giuridico, ove si
  consideri che i relativi strumenti legislativi dovevano
  collocarsi in un quadro improntato sia al principio
  costituzionale dell'obbligatorietà dell'azione penale, sia al
  rispetto di irrinunciabili fondamenti di garanzia processuale
  riconosciuti ed acquisiti quale patrimonio di civiltà.
      L'anno 1991 ha annoverato il varo di provvedimenti
  legislativi cruciali nella lotta contro la criminalità
  organizzata.
      Viene istituita con il D.L. 29 ottobre 1991 n.345, conv.
  con mod. nella legge 30 dicembre 1991 n.400, la Direzione
  investigativa antimafia (D.I.A.) con funzioni di polizia di
  prevenzione e giudiziaria specificamente nel settore della
  criminalità organizzata di stampo mafioso e delle
  manifestazioni delittuose alla stessa riconducibili, ivi
  compreso il fenomeno delle estorsioni.
      Le funzioni di coordinamento e di impulso nel settore
  delle indagini giudiziarie relative alle associazioni mafiose
  e ai "reati di mafia", vengono affidate ad una nuova struttura
  giudiziaria, la Direzione nazionale antimafia, che nasce
  temporalmente a distanza di poco meno di un mese dalla D.I.A.
  (v. D.L. 20 novembre 1991 n.367, conv. con mod. nella legge 20
  gennaio 1992 n.8).
      E' di quello stesso anno la legge n.203/1991 in conv. del
  D.L. 13 maggio 1991 n.152, che ha introdotto una riduzione
  consistente di pena per quanti, imputati, avessero
  concretamente aiutato l'azione giudiziaria contro le
  associazioni di stampo mafioso ed i reati connessi,
  avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis c.p.,
  consentendo altresì l'accesso alle misure di espiazione di
  pena alternative alla detenzione (semidetenzione, detenzione
  domiciliare e affidamento in prova al servizio sociale),
  svincolate dai limiti ai quali la loro applicazione è
  normalmente subordinata.
      E' ancora dello stesso anno la legge n.82/1991, in
  conversione del D.L. n.8/1991, con cui si è delineata in
  maniera più organica la disciplina giuridica sul piano
  processuale ed amministrativo del regime protettivo ed
  assistenziale che lo Stato assicura a quanti collaborano con
  la giustizia.
      In questa situazione il cosiddetto "diritto premiale" non
  appare ulteriormente dilatabile, se parametrato al principio
  di cui all'art.112 Cost., senza rischiare di violarne il
  sostanziale contenuto.
  5.3  Il Servizio Centrale di Protezione - il funzionamento
  - linee evolutive
      All'attuazione dello speciale programma di protezione
  provvede il Servizio centrale di protezione appositamente
  istituito nell'ambito del Dipartimento della pubblica
  sicurezza con decreto del Ministro
 
                              Pag. 165
 
  dell'interno, di concerto con il Ministro del tesoro, che ne
  stabilisce la dotazione di personale e di mezzi anche in
  deroga alle norme vigenti, sentite le amministrazioni
  interessate (art. 14, comma 1, del D.L. n 8/1991).  Di
  conseguenza, il Servizio assolve alla funzione di dar corso
  all'aspetto tutorio, sempre ricorrente in ogni speciale
  programma di protezione, ed ai contenuti assistenziali che
  eventualmente possono essere in esso inclusi.
      Si tratta di interventi individualizzati per la intuibile
  diversità delle situazioni dei collaboratori di giustizia,
  previa indefettibile valutazione della gravità ed attualità
  del pericolo connesso al ruolo da essi assunto.  La legge
  configura due categorie di ordine generale:
        misure di protezione adottabili ai sensi delle norme
  vigenti al momento della pubblicazione del D.L. 15 gennaio
  1991 n.8;
        speciali programmi di protezione.
      In base all'art. 9 citato, nell'ambito di tali due
  configurazioni, possono essere decise anche forme di
  assistenza.
      I contenuti specifici delle misure di tutela, dello
  speciale programma di protezione e delle forme di assistenza
  non sono analiticamente definiti dalla legge, che ne ha
  delegato la specificazione ad apposito decreto del Ministro
  dell'interno da emanare di concerto con il Ministro di grazia
  e giustizia, sentito il Comitato nazionale dell'ordine e la
  sicurezza pubblica e la Commissione centrale (v. art. 10,
  comma 3, del D.L. n.8/1991).
      La Commissione, sulla base di doglianze raccolte da
  Magistrati e collaboratori di giustizia, ritiene che il
  Servizio Centrale di Protezione abbia risentito, in
  particolare nell'ultimo anno, di una incompleta adeguatezza
  della struttura, dovuta sia al crescendo particolarmente
  rapido delle mansioni ad esso demandate dalla legge, dopo lo
  scioglimento dell'ufficio dell'Alto commissario, e soprattutto
  al progressivo aumento del numero delle persone interessate,
  che, alla data del 30 giugno, aveva raggiunto il numero di
  5.561, in ragione di 1.059 collaboratori e 4.502 familiari.
      In tema di organico, è stato precisato che il relativo
  personale ammonta a 191 unità, ma che, per l'attuazione della
  funzione tutoria, l'organismo si avvale anche delle forze di
  polizia presenti nelle varie province, Polizia di Stato,
  Carabinieri e Guardia di Finanza, che, coordinate dal Prefetto
  e in sede di Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza
  pubblica, hanno l'incarico di attuare i servizi di
  protezione.
      Sul fronte delle misure di protezione, forma sovente
  oggetto di doglianza da parte dei collaboratori di giustizia,
  oltre al costume di vedere trasmessa per televisione la loro
  immagine, l'impiego di personale in uniforme nello svolgimento
  di compiti di controllo, come pure il fatto di essere
  scortati, nei frequenti spostamenti, dalle località protette
  ai luoghi ove si celebrano i processi, da uomini diversi per
  effetto del meccanismo dei turni.
      Comunque la contestazione più ricorrente è l'aspetto
  economico sotto il profilo delle omissioni, dei ritardi e
  della inadeguatezza dei sussidi corrisposti.
      Le lungaggini connesse alla coincidenza di giorni festivi
  o ad altre difficoltà di ordine svariato, sono state indicate
  dal Direttore del
 
                              Pag. 166
 
  Servizio centrale di protezione, tra le cause che hanno
  provocato qualche ritardo nell'erogazione delle somme che,
  materialmente, lo stesso organismo corrisponde mediante
  spedizioni coincidenti con i primi giorni del mese attraverso
  istituti di credito.  Quanto alle residue doglianze, relative
  all'aspetto economico ed in particolare al rimborso di spese
  varie, il Servizio oppone che, nella valutazione delle
  relative istanze, pur tenendosi in debito conto il profilo
  assistenziale del programma non può corrispondersi ad ogni
  aspettativa, poichè l'amministrazione di fondi pubblici,
  automaticamente adeguati con i meccanismi previsti dal
  Ministero del tesoro, comporta una gestione improntata a
  massima, doverosa oculatezza.
      La Commissione è stata informata che sono in fase di
  elaborazione i criteri basilari per una revisione
  dell'organismo e delle norme che regolano la funzione del
  Servizio.  Essi consistono, da un lato, nella specializzazione
  e nel decentramento delle strutture, dall'altro,
  nell'attribuzione più formale di una posizione di terzietà di
  chi è addetto alla protezione e all'assistenza dei
  collaboratori, rispetto agli organismi con funzioni
  investigative, affinchè il personale di questi ultimi non
  venga in alcun modo distolto dai compiti istituzionali e di
  indagine.
      L'impostazione va condivisa, nel presupposto, più volte
  sottolineato, che il depauperamento di risorse umane di
  organismi investigativi specializzati, può provocare un
  indebolimento dell'azione di contrasto contro la criminalità
  mafiosa.
      L'ulteriore contesazione mossa dai collaboratori di
  giustizia, circa le difficoltà incontrate nei reinserirsi in
  un nuovo contesto sociale in cui svolgere un'attività
  lavorativa e permettere al proprio nucleo familiare una
  normale vita di relazione, si ritiene sia stata adeguatamente
  superata con il disposto degli artt. 10 e 11 del Regolamento
  del 24/11/94 che ha reso operativo il cambiamento di
  generalità, previsto dal D.L. 8/94, disciplinando al riguardo
  sia il registro di cui all'art. 3 del citato decreto, che
  l'autorità designata per le richieste di atti o certificati
  relativi alle nuove generalità, in pratica garantendo la
  riservatezza negli atti della Pubblica Amministrazione.
  6.  Le iniziative della Commissione parlamentare antimafia
      6.1 Lo sviluppo della tematica concernente i
  collaboratori di giustizia ha portato nella seduta del 31
  marzo 1995 alla presentazione di un documento di osservazioni
  e proposte, sulla base dei rilievi, non sempre tra loro
  concordanti, provenienti dai diversi procuratori distrettuali
  auditi dalla Commissione.
      Sullo stesso argomento, la Commissione parlamentare
  antimafia, dopo aver deciso di non passare all'esame della
  predetta relazione presentata dal Presidente, approvava nella
  seduta del 20 giugno 1995 una risoluzione a firma degli
  onorevoli Bargone, Bonsanti, Tripodi, Scozzari, Bertoni,
  Stajano, Viale, Scivoletto, Manconi e Grasso, con la quale si
  proponeva prioritaiamente che il Ministro dell'Interno,
  nell'ambito del suo bilancio, sentenziasse finanziamenti
  adeguati alle esigenze del Servizio Centrale di Protezione e
  alle urgenti necessità di rafforzamento.
 
                              Pag. 167
 
      Si segnalava al Governo inoltre la necessità che nel
  regolamento sui collaboratori di giustizia:
        fosse eliminata la dichiarazione preventiva diintenti
  ed individuata una soluzione che, senza interferire con
  l'autonomia dell'autorità giudiziaria, consenta di valutare il
  tipo e l'entità della collaborazione;
        fossero stabiliti criteri sicuri e precisi circa la
  concessione dei benefici al collaboratore, così da offrire a
  chi si appresta a collaborare la sicurezza della tutela;
        fossero stabiliti criteri non arbitrari nella
  valutazione del numero dei familiari dei collaboratori da
  sottoporre a protezione;
        fosse eliminato il parere obbligatorio
  dell'amministrazione penitenziaria per la detenzione
  extracarceraria dei collaboratori di giustizia.
      Con lo stesso atto, tutte le forze politiche venivano
  infine invitate "ad evitare ogni forma pretestuosa di
  delegittimazione dei collaboratori di giustizia i quali, al di
  là della buona fede dei singoli, creano grandi rischi per la
  vita dei collaboratori e di chi li protegge, minano l'azione
  delle forze dell'ordine e si traducono in eccezionali vantaggi
  per le organizzazioni mafiose".
      Alla luce del dibattito svolto in sede di Commissione e
  del recentissimo intervento modificativo della sentenza della
  Corte costituzionale N. 420 del 1995 possono di seguito
  svolgersi alcune osservazioni ed indicazioni.
      Per quanto attiene alla cosiddetta dichiarazione di
  intenti, si osserva che il D.L. N. 8/91, all'articolo 11 -
  commi 2 e 3, stabilisce che la proposta di programma speciale
  di protezione, proveniente dal procuratore della Repubblica o
  dal Prefetto, deve contenere le notizie e gli elementi
  concernenti la gravità e l'attualità del pericolo cui le
  persone sono o possono essere esposte per la loro scelta di
  collaborare con la giustizia.
      Nella proposta devono altresì essere elencate le
  eventuali misure di tutela già adottate o fatte adottare,
  nonchè i motivi per i quali le stesse sono da ritenersi non
  adeguate alle esigenze.
      Il parere del Procuratore della Repubblica, previsto
  obbligatoriamente quando la proposta non provenga dal suo
  ufficio, deve, secondo il 3^ comma del menzionato art. 11,
  fare riferimento specifico all'importanza del contributo
  offerto o che può essere offerto dall'interessato o dal suo
  prossimo congiunto per lo sviluppo delle indagini o per il
  giudizio penale.
      In quest'ambito, il Regolamento di cui al decreto
  interministeriale del 24/11/1994 ha dettagliato una serie di
  adempimenti, che hanno subito suscitato varie prese di
  posizione contrarie, in tutto o in parte dei Procuratori della
  Repubblica, così come emerso dalle audizioni in merito, nella
  seduta del 10/1/1995.
      Si stabiliva in particolare nel Regolamento che la
  proposta doveva includere i principali fatti criminosi sui
  quali il soggetto proposto sta rendendo le dichiarazioni;
 
                              Pag. 168
 
        le ragioni per cui queste ultime sono ritenute
  attendibili ed importanti per le indagini o per il
  giudizio;
        se risultino elementi che confermino l'attendibilità
  delle dichiarazioni acquisite e, nel caso si tratti di
  dichiarazioni rese da soggetto appartenente a gruppo
  criminale, di quale gruppo si tratti e quale ruolo in esso
  ricopra il soggetto proposto (art. 2.1 del Regolamento).
      Questi elementi dovevano trasfondersi in un atto
  denominato, "verbale delle dichiarazioni preliminari alla
  collaborazione", allegato alla proposta, ovvero esposto nel
  corpo della proposta medesima, in cui si evidenziava la
  volontà del soggetto interessato di collaborare con l'autorità
  giudiziaria, e, almeno in forma sommaria, i dati utili alla
  ricostruzione dei fatti di maggior gravità ed allarme sociale
  di cui fosse a conoscenza, oltrechè alla individuazione e alla
  cattura dei loro autori.
      Nel caso, invece, in cui il soggetto proposto risultasse
  estraneo a gruppi criminali e assumesse rispetto al fatto,
  ovvero rispetto ai fatti connessi o collegati, esclusivamente
  la qualità di persona offesa, testimone o persona informata
  sui fatti, il verbale delle dichiarazioni preliminari veniva
  sostituito dal verbale di informazioni ai fini delle
  indagini.
      La precitata sentenza della Corte costituzionale,
  esaminando il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato
  sollevato dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale
  di Napoli, in ordine al Regolamento emanato con decreto del
  Ministro dell'Interno il 24/11/94 ha ritenuto ammissibile il
  conflitto.  In particolare ha riconosciuto, come da sua
  giurisprudenza consolidata (sentenze n.462, 463 e 464 del
  1993), la legittimazione del P.M. a sollevare conflitti di
  attribuzione tra poteri dello Stato, esclusivamente quando
  agisce a difesa del principi costituzionale che rende
  obbligatoria l'azione penale, competenza riconosciutagli
  dall'articolo 112 Cost. e "in ordine alla quale è fornito di
  istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere".
      La Consulta, ribadito che l'obbligatorietà dell'azione
  penale, di cui all'art. 112 Cost., costituisce "la fonte
  essenziale della garanzia dell'indipendenza del pubblico
  ministero", ritiene la legittimità dell'art. 2, comma 1 del
  Regolamento, laddove stabilisce che nella proposta del
  procuratore debbono essere precisati oltre ai principali fatti
  criminosi su cui il soggetto sta rendendo dichiarazioni, anche
  i motivi per cui esse sono attendibili ed importanti per le
  indagini, nonchè gli eventuali riscontri a conferma della
  attendibilità.
      Non viene infatti in questo caso violato il principio
  costituzionale dell'obbligatorietà dell'azione penale;
  principio che osserva che osserva la Consulta non preclude al
  P.M. di compiere attività non che non siano direttamente
  finalizzate all'esercizio dell'azione penale.
      Per contro tale disposizione è volta a mettere in
  condizione la Commissione Centrale di svolgere al meglio e
  tempestivamente il suo compito e quindi di poter decidere
  fondatamente se ammettere o meno il proposto al programma
  speciale di protezione, fissandone anche contenuti e durata.
  "E non c'è dubbio, continua la Consulta, che a tal fine assuma
  principale rilievo il dato dell'importanza del contributo
  offerto (o che può essere offerto) dal soggetto proposto, di
  cui
 
                              Pag. 169
 
  ovviamente costituisce aspetto essenziale il requisito
  dell'attendibilità delle dichiarazioni rese".
      Ritiene inoltre che non sia neppure giustificata la
  doglianza relativa alla violazione del segreto investigativo,
  dal momento che il destinatario delle notizie e cioè la
  Commissione ha l'obbligo del segreto d'ufficio, cosicchè "il
  grado di riservatezza ne risulta sì attenuato rispetto al
  segreto investigativo, ma non certo annullato".
      Ciò nell'ottica di una "cooperazione istituzionale" tra
  autorità giudiziaria e l'organismo destinatario delle
  informazioni per il perseguimento di una migliore protezione
  del collaboratore e "più proficua prosecuzione dell'attività
  di indagine".
      Va comunque riconosciuto - precisa la Consulta - ai
  Procuratori della Repubblica un certo margine di
  discrezionalità in merito alla comunicazione di atti coperti
  dal segreto; ritiene che tuttavia "eventuali divergenze siano
  superate attraverso le opportune intese".
      Giudica, invece, la Consulta illegittima la cosiddetta
  dichiarazione di intenti, poichè, diversamente da quanto
  osservato sopra per la disposizione precedente, quella in
  esame (art.2 comma 2 e seguenti) stabilisce l'obbligo del P.M.
  di raccogliere in un atto dichiarazioni, con le forme e
  modalità previste dal c.p.p. su oggetti prestabiliti
  "concernenti fra l'altro il merito di tutti i principali fatti
  delittuosi sui quali il soggetto è in grado di riferire".
      Tale disposizione costituisce una violazione all'art. 112
  Cost., poichè impone al P.M. "il compimento di un atto di
  natura investigativa", incidendo così "direttamente
  sull'attività di conduzione delle indagini la cui strategia",
  "va lasciata - nei limiti, ovviamente, previsti
  dall'ordinamento, alla libera valutazione del Procuratore
  della Repubblica.  Pertanto, conclude la Corte, è necessario
  che, ai fini del ripristino dell'integrità delle attribuzioni
  costituzionali invocate", la redazione del verbale della
  dichiarazione d'intenti "sia rimessa alla discrezionalità del
  P.M.", fermo restando quanto osservato in merito al 1 comma
  dell'art. 2.
      La sentenza della Corte costituzionale ha offerto un
  decisivo contributo alla delineazione ed alla delimitazione
  delle competenze dell'autorità giudiziaria e della Commissione
  centrale, autorità amministrativa, ribadendo fondamentali
  principi costituzionali.
      Ciò non toglie che comunque sarebbe necessaria una
  riformulazione delle disposizioni contenute nel Regolamento,
  strumento peraltro inidoneo a regolare una simile materia,
  anche sotto altri profili. 6.2 In particolare la Commissione
  ritiene che sarebbe opportuna una ridefinizione anche in tema
  di individuazione dei criteri di concessione dei benefici e di
  relazione dei soggetti da sottoporre a protezione.
      Mentre in base all'art. 1- ter  del D.L. n.629/1982
  la tutela prevista dalla norma era originariamente limitata a
  quanti collaboravano "nella lotta contro la mafia, ovvero
  avessero reso dichiarazioni nel corso di indagini di polizia o
  di procedimenti penali riguardanti fatti riferibili a
  organizzazioni e attività criminose di stampo mafioso", tale
  categoria di soggetti è stata estesa dall'art. 9 del D.L.
  n.8/1991, alle persone "esposte a grave e attuale pericolo per
  effetto della loro collaborazione o delle dichiarazioni rese
  nel corso delle indagini
 
                              Pag. 170
 
  preliminari o del giudizio, relativamente ai delitti previsti
  dall'art. 380 del codice di procedura penale".
      Per l'ampiezza della definizione legislativa risultano
  inclusi tra coloro che collaborano con la giustizia sia "i
  testimoni", ai quali corrispondono nella indagine preliminare
  le persone informate sui fatti, sia "gli indagati" e gli
  "imputati".
      La Commissione rileva che, rispetto al tenore dell'art.
  1-ter del D.L. n. 629/1982, secondo cui era possibile
  estendere le misure protettive soltanto ai prossimi congiunti
  del collaborante, l'art. 9, comma 2, del D.L. n.8/1991, ha
  dilatato il novero di tali soggetti sancendo che le citate
  misure possono essere adottate oltre che nei confronti dei
  prossimi congiunti, anche a favore "dei conviventi e di coloro
  che sono esposti a grave ed attuale pericolo a causa delle
  relazioni che intrattengono con le persone" che collaborano
  con la giustizia.
      L'ammissione al programma speciale ha dei riflessi assai
  consistenti in termini di impegno economico, di strutture
  logistiche, di personale delle Forze dell'ordine, di
  conseguenze riflesse su un indeterminato numero di uffici
  dell'apparato dello Stato, per cui deve convenirsi sulla
  esigenza che si operi un effettivo vaglio sulle proposte in
  continua crescita, come dimostra il progressivo aumento del
  numero dei collaboratori sottoposti a protezione dalla
  Commissione centrale nel corso dell'ultimo anno.
      Va dunque affermata l'opportunità di un'attenta azione
  della Commissione centrale in tal senso selettiva, tanto più
  ove si consideri il crescente numero (ormai nell'ordine delle
  diverse migliaia) di soggetti da proteggere e le problematiche
  che da ciò scaturiscono.  A fronte delle quali si manifesta,
  una rigidità dell'organico delle Forze dell'ordine disponibili
  in un determinato momento, come tali suscettibili di aumento -
  a prescindere da altre difficoltà, collegate ad esempio al
  relativo incremento di spesa anche per quanto riguarda
  l'adeguamento delle dotazioni necessarie - solo con intervalli
  temporali assai lunghi quali quelli richiesti per esaurire le
  prescritte procedure di concorso.
      In questa realtà, proprio l'intento di rafforzare la
  pressione investigativa sulle organizzazioni a delinquere di
  stampo mafioso, impone alla Commissione parlamentare antimafia
  il dovere di richiamare l'attenzione del Parlamento e del
  Governo sulla esigenza di una pronta adozione di quegli
  strumenti legislativi che, pur mantenendo un complesso di
  disposizioni in grado di incentivare, soprattutto sotto il
  profilo qualitativo, forme di collaborazione e dunque di
  accrescere, con effetto scardinante, le dissociazioni dalle
  organizzazioni criminali - come è avvenuto anche nel caso di
  sodalizi assai pericolosi, quali "Cosa nostra" - consentano di
  operare una selezione più attenta rispetto ai soggetti
  destinatari di speciali forme di protezione.
      Sulla stessa linea si colloca l'auspicio di una riforma
  che, senza privare la normativa attuale dell'elasticità
  necessaria a fronteggiare anche casi eccezionali, selezioni in
  maniera più aderente alla realtà il novero dei familiari e dei
  terzi da proteggere; novero che diversamente, in mancanza cioè
  di una più rigorosa impostazione, potrebbe avviarsi, sulla
  base di proiezioni ipotetiche di pericolo sempre astrattamente
  configurabili, ad una crescente moltiplicazione dai confini
  sempre più indefiniti.
 
                              Pag. 171
 
      In questa prospettiva, può ipotizzarsi, ad esempio, di
  distinguere nell'ambito dei rapporti di parentela, i familiari
  più vicini al collaborante (moglie, figli, genitori) o quelli
  con lui conviventi, da considerare a rischio nel quadro di una
  configurazione di pericolo "presunto", mentre l'estensione del
  programma speciale a tutti gli altri parenti ed ai terzi
  potrebbe essere subordinata alla comprovata esistenza di
  pericolo concreto.
      Appare inoltre necessaria una meditata revisione
  legislativa nell'ottica di un ragionevole contenimento dei
  reati, rispetto ai quali l'ordinamento statuale prevede
  speciali programmi di protezione.  Si tratterebbe cioè di
  estrapolare, fra quelle attualmente previste dall'art. 380
  c.p.p.; cui l'art. 9 DL 8/91 fa riferimento, le più gravi
  figure delittuose che possono giustificare la disponibilità
  dello Stato e dunque della società civile, ad impegnarsi in
  misura così onerosamente massiva e con profili giuridici di
  chiara natura eccezionale per il conseguimento, in termini di
  elevate possibilità, di una rottura, dall'interno e
  dall'esterno, dei sodalizi criminali e quindi di una loro
  debellazione progressiva e definitiva.
  7.  L'art. 41-bis, comma 2 dell'ordinamento penitenziario
      7.1 Tra le disposizioni restrittive introdotte dopo le
  stragi di Capaci e di via D'Amelio, una delle più importanti è
  quella di cui all'art.41-bis, 2 comma dell'ordinamento
  penitenziario, varata con il D.L. 8.6.1992 n. 306, conv. con
  mod. nella legge 7.8.1992 n.356.
      L'applicazione di tale norma ha interessato diverse
  centinaia di detenuti, individuati come pericolosi, con
  procedure basate inizialmente su schede predisposte dalle
  Direzioni degli Istituti.
      Nel prosieguo, ed ancora oggi, l'art. 41-bis, secondo
  comma dell'Ord.  Pen., ha finito per essere applicato in modo
  analogo all'abrogato art. 90 citato, trasformando l'istituto,
  voluto come eccezionale dalla legge, in strumento con
  carattere di applicazione continuativa.  Di converso, l'art.
  14-bis, ossia il regime di sorveglianza speciale, ha finito
  per essere attuato nei confronti di un numero assai limitato
  di detenuti.
      Nell'ambito del programma relativo al controllo sugli
  strumenti giuridici deputati al contrasto alle associazioni di
  stampo mafioso, la Commissione si è impegnata ad analizzare il
  contenuto e le modalità con le quali è stato dato corso a tale
  norma fin dall'inizio dei suoi lavori, mentre si svolgeva il
  dibattito parlamentare sulla proroga dell'istituto.
      Attraverso le notizie acquisite tramite la audizione del
  direttore generale del dipartimento dell'amministrazione
  penitenziaria nella seduta del 28.10.1994, integrate da quelle
  desumibili dalla documentazione fornita dal Ministero di
  Grazia e Giustizia, emerge che il regime di cui all'art.
  41- bis comma 2 dell'Ord.  Pen., venne inizialmente
  applicato per la durata di un anno, con più provvedimenti
  contestuali nel luglio 1992 a n.367 detenuti, tutti ritenuti
  elementi di particolare pericolosità con posizione di
  preminenza nell'ambito di organizzazioni criminali e ritenuti
  capaci, nonostante la condizione di detenzione, di
 
                              Pag. 172
 
  mantenere legami con i sodalizi criminosi di appartenenza, di
  controllarne le attività illecite e l'esecuzione di
  delitti.
      I primi 367 provvedimenti furono emanati, a seguito della
  strage di Capaci e nell'immediatezza della strage di Via
  D'Amelio, sulla base di segnalazione del Ministro
  dell'Interno.
      Le numerose richieste di applicazione della disposizione
  in esame da parte di varie Autorità giudiziarie, determinava
  il Ministro di Grazia e Giustizia successivamente ad emettere
  ulteriori decreti, sicchè la sottoposizione al regime speciale
  finiva per riguardare, in totale, n.522 detenuti nell'anno
  1992 (v. anche il documento denominato "scheda A" prodotto nel
  corso della stessa seduta).
      In data 15 settembre 1992, con decreto dell'allora
  Ministro di Grazia e Giustizia, Claudio Martelli, il Direttore
  Generale ed il Vice Direttore Generale del competente
  Dipartimento furono delegati all'emissione di provvedimenti ai
  sensi dell'art. 41-bis, comma 2^, dell'Ordinamento
  penitenziario.  Da tale delega scaturì l'emissione, a partire
  dal 1^ novembre 1992, di n.7 decreti ministeriali attraverso i
  quali il regime speciale venne applicato, su segnalazione
  diretta delle Direzioni penitenziarie, complessivamente a
  ulteriori n.567 detenuti; elementi tutti inseriti nella
  criminalità organizzata, ma con ruoli non di primissimo piano,
  per cui nel periodo compreso tra la fine del 1992 e l'inizio
  del 1993 il totale dei detenuti sottoposti al regime speciale
  previsto dall'art. 41-bis comma 2 dell'Ord.  Pen., fu pari a
  1.089 unità (522 + 567).
      E' stato riferito alla Commissione che tutti i decreti
  emessi su delega del Ministro di Grazia e Giustizia,
  sostanzialmente a seguito di perplessità relative alla
  metodologia di scelta, dopo aver ascoltato le autorità
  investigative o giudiziarie competenti, non furono rinnovati a
  differenza degli altri, ai quali si sono aggiunti ulteriori
  provvedimenti del genere a firma dei Ministri Guardasigilli
  succedutisi nel tempo.
      La seguente tabella sinottica riepiloga, distinguendo per
  anni e per mesi, i dati numerici dei detenuti ai quali è stato
  applicato il regime speciale di cui all'art. 41-bis. comma 2
  dell'Ord.  Pen., con decreto del Ministro di Grazia e
  Giustizia:
                      ...  (omissis) ...
       Secondo l'appunto del D.A.P. - Ufficio detenuti
  n.568170/1-1 del 18.10.1994, in virtù di nuovi decreti emanati
  negli anni 1993 e 1994 nonchè di quelli rinnovati, si
  trovavano, in quel momento, sottoposti al regime speciale in
  argomento n.445 detenuti.  Il dato in questione veniva
  aggiornato, con riferimento al 22 ottobre 1994 per un totale
  di 436 detenuti, in base a quanto indicato dal citato
  direttore generale il
 
                              Pag. 173
 
  quale precisava che sino a quel momento dei soggetti gravati
  dal regime speciale di cui all'art. 41- bis  2^ comma
  dell'Ord.  Pen.131 appartenevano a "Cosa nostra"; 144 alla
  "Stidda" ed altre cosche mafiose; 41 alla "'ndrangheta"; 98
  alla "Camorra" e 22 alla "Nuova sacra corona unita"; numero
  complessivo pari cioè al 5,67 per cento dei 7.688 indagati per
  il reato di cui all'art. 416-bis c.p.
      Dall'esame degli atti acquisiti nel corso dell'inchiesta,
  risulta che i decreti ministeriali, adottati ai sensi
  dell'art. 41-bis, comma 2 dell'Ord.  Pen., disponevano, in
  genere, la sospensione delle regole di trattamento previste
  dall'Ordinamento penitenziario ed in particolare delle
  disposizioni che disciplinano:
        la corrispondenza telefonica (art. 18 dell'Ord.
  Pen.);
        i colloqui con i terzi (art. 18 dell'Ord.  Pen.);
        i colloqui con i familiari e conviventi (ammessi in
  misura non superiore ad uno al mese e di durata non superiore
  ad un'ora);
        la ricezione dall'esterno di somme di peculio eccedenti
  l'ammontare mensile di cui all'art. 54 D.P.R. n.421/1976 e
  l'invio di somme all'esterno, fermo restando il pagamento di
  spese inerenti alla difesa legale ed alla corresponsione di
  multe ed ammende (art. 25 dell'Ord.  Pen.);
        la ricezione dall'esterno di pacchi contenenti generi
  ed oggetti essendone ammesso solo uno al mese, contenente
  abiti, biancheria, ed indumenti intimi, nel rispetto dei
  limiti di peso già stabiliti;
        la partecipazione ad attività culturali, ricreative,
  sportive (artt. 15 e 27 dell'Ord.  Pen.);
        la nomina e la partecipazione alle rappresentanze dei
  detenuti e degli internati (artt. 9, 12, 27 e 31 dell'Ord.
  Pen.);
        lo svolgimento di attività artigianali per conto
  proprio o per conto di terzi (art. 20, comma 8, dell'Ord.
  Pen.);
        l'acquisto di sopravitto di generi alimentari, ove
  richiedano cottura, secondo l'uso comune (art. 9, ultimo
  comma, dell'Ord.  Pen.);
        la permanenza all'aria aperta per oltre due ore
  giornaliere (art. 10 dell'Ord.  Pen.).
      I dati sopra riportati, frutto delle acquisizioni
  documentali e delle audizioni disposte dalla Commissione,
  venivano integrati dai contributi conoscitivi che diversi
  Tribunali di sorveglianza, tra i quali quelli nei cui
  distretti insistono gli istituti prescelti (Cuneo, Ascoli
  Piceno, Spoleto, l'Asinara e Pianosa), riferivano in base
  all'esperienza maturata nei primi anni di applicazione
  dell'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario.
      La Commissione, a seguito della proroga in data 16.2.1995
  del regime di cui all'art.41-bis, 2 comma a tutto il 1999,
  intervenuta dopo il deposito della relazione ha ritenuto
  superata la problematica oggetto della inchiesta, volta alla
  verifica dell'effettivo funzionamento e dei concreti ritorni
  di tale normativa.  Problematica che comunque ha continuato a
  costituire oggetto di preoccupazioni in merito allo
  svuotamento della sua effettiva applicazione.
      Infatti, nei mesi di febbraio-marzo 1995, la D.A.P. ha
  provveduto ad acquisire il parere del Procuratore nazionale
  antimafia e del Procuratore della Repubblica presso il
  Tribunale di Palermo, in merito
 
                              Pag. 174
 
  alle ragioni che oggettivamente giustificano, nei confronti
  di esponenti di associazioni mafiose, le limitazioni
  solitamente imposte nei decreti di applicazione del regime di
  cui all'art.41- bis  suddetto, ma diverse volte ritenute
  parzialmente inefficaci da alcuni magistrati di
  sorveglianza.
      Si è paventata, in sede ministeriale, l'ipotesi infatti
  che il recente orientamento affermatosi in sede di
  legittimità, lungi dal superare la possibilità di modificare
  in sede giudiziaria talune prescrizioni contenute nei decreti
  in questione, possa risolversi in una incentivazione alla loro
  disapplicazione totale, ove talune restrizioni dovessero
  essere ritenute inadeguate alle ragioni dell'istituto in
  rapporto al singolo destinatario.
      Tali preoccupanti prospettive si assommerebbero a quelle
  derivanti dalla intervenuta creazione di una "nuova categoria
  giuridica" che in gergo carcerario è venuta qualificandosi
  come "art.41-bis attenuato", caratterizzata dalla mancata
  previsione nei provvedimenti amministrativi, di restrizioni
  sia al regime dei colloqui con i familiari ed i conviventi,
  sia alla possibilità di acquisto di generi alimentari da
  cuocere nelle singole celle, sia alla durata del c.d.
  "passaggio all'aria".
      Consta in particolare che toni parimenti allarmanti sono
  stati manifestati dal Procuratore nazionale antimafia mediante
  trasmissione, nel marzo 1995, al Ministro di grazia e
  giustizia di alcune osservazioni sul tema dell'art.41-bis
  dell'ordinamento penitenziario, "dettate dalla preoccupazione
  che tale applicazione valga a svuotare di effettivo contenuto
  la norma".
      Invero, i collaboratori dissociatisi da "cosa nostra"
  hanno concordemente affermato che uno degli strumenti
  maggiormente utilizzati dai detenuti per continuare a gestire
  il proprio potere, mantenere i contatti con gli altri
  associati e trasmettere ordini e direttive all'esterno del
  carcere, ricevere notizie importanti per la loro posizione e
  per il mantenimento della stessa, è proprio quello dei
  colloqui con i familiari.
      In tale prospettazione non può dunque negarsi che,
  l'emanazione di provvedimenti della magistratura di
  sorveglianza che hanno escluso limitazioni di colloqui con i
  familiari in casi particolarmente delicati, suscitando di
  riflesso valutazioni allarmate in quegli uffici giudiziari più
  impegnati contro la mafia, continui a riproporre - rispetto
  all'art.41-bis, 2 comma in esame - una serie di delicatissime
  problematiche non superate dalla semplice proroga
  dell'istituto.
      Si tratta di difetti - denunciati in più sedi oltre che
  in provvedimenti giurisdizionali dai competenti organi della
  magistratura -ai quali è possibile ovviare solo con precisi,
  consistenti modifiche legislative nell'ottica di rendere più
  coerenti alcuni aspetti della normativa penitenziaria;
  disfunzioni dunque cui non si è ovviato con un provvedimento
  di mera natura temporale, quale è appunto la proroga sancita
  dalla citata legge n.36.
      E' dunque preferibile orientarsi verso una diversa
  soluzione normativa che, accanto alle imprescindibili esigenze
  di sicurezza della collettività da tutelare rispetto ai
  detenuti mafiosi, tenga conto, nella individualizzazione del
  relativo trattamento penitenziario, del rispetto di
  fondamentali diritti e della stessa finalità che, in termini
  di recupero sociale, sono affidati all'espiazione della
  pena.
 
                              Pag. 175
 
      Con opportune correzioni normative, tale soluzione
  potrebbe muoversi nel solco già segnato dal legislatore con
  l'introduzione dell'art.4-bis dell'Ord.  Pen. a proposito della
  esclusione dell'assegnazione al lavoro esterno, dei permessi
  premio e delle misure alternative alla detenzione.
      Potrebbe così stabilirsi che i condannati per reati di
  cui all'art. 4-bis scontino la pena in appositi, selezionati
  istituti penitenziari e siano sottoposti, fin dal momento del
  loro ingresso per l'esecuzione, o dal momento del passaggio in
  giudicato della sentenza, se già ivi ristretti, ad un
  trattamento generalizzato riproducente quelle limitazioni
  attualmente fissate con i decreti ministeriali emanati ai
  sensi dell'art. 41- bis.
      Codesta impostazione non presterebbe il fianco a critiche
  di iniquità.  Non vi è dubbio che ai reati indicati nell'art.
  4-bis cit. il legislatore ha guardato già da tempo con seria
  preoccupazione adottando, con riguardo a quelli di stampo
  mafioso, deroghe normative di elevato spessore.
      La nuova impostazione giuridica che si propone si
  ancorerebbe così, in maniera logicamente coerente, allo stesso
  presupposto indicato dall'art. 4- bis;  presupposto che ha
  già superato positivamente il vaglio della stessa Corte
  costituzionale, la quale, con sentenza n. 306
  dell'11.6/8.7.1993, ha ritenuto non fondate le censure al
  criterio recepito dalla norma suddetta affermando che dalla
  commissione di determinati delitti di criminalità organizzata
  può dedursi una presunzione di persistenza dei collegamenti
  con questa, salva la dimostrazione della loro rottura come
  requisito da aggiungere a quelli già vigenti per l'ammissione
  alla misura alternativa alla detenzione.
      Sicchè, non dovrebbe stupire che, rispetto alla categoria
  di detenuti di cui all'art. 4- bis  dell'Ord.  Pen., così
  come è diverso il regime delle misure alternative, possono
  diversificarsi luogo di espiazione e metodi di trattamento,
  ossia che questi siano per legge inizialmente diversi da
  quelli prescritti per la restante popolazione carceraria.  Se i
  primi continuano ad essere accompagnati da questo giudizio di
  pericolosità "nel prosieguo della detenzione" al punto da non
  poter usufruire dei benefici previsti dal citato art. 4 bis,
  comma 1, se non nei casi eccezionali in precedenza trattati,
  non si vede ragione per cui, sul versante "interno", la stessa
  pericolosità non debba avere la stessa considerazione
  producendo necessari, paralleli effetti.
      Una soluzione normativa del genere non soltanto
  rispetterebbe la riserva di legge richiamata dal Giudice
  costituzionale, ma supererebbe la problematica aperta dai
  tribunali di sorveglianza che hanno ritenuto di modificare i
  contenuti dell'atto amministrativo.  Fissati per legge i limiti
  di trattamento, il gravame, di conseguenza, verrebbe limitato
  alla verifica del titolo a base della condanna.
      La norma potrebbe poi regolare la stessa congrua durata
  delle iniziali limitazioni nei confronti di tali categorie di
  soggetti, con previsione di proroghe mediante rinnovi quante
  volte, a seguito dell'accertamento compiuto dai competenti
  organi dell'amministrazione, previo parere del Consiglio di
  disciplina, risulti che il condannato non abbia dato positiva
  prova di avviarsi a superare il giudizio di elevata
  pericolosità emergente dai suoi delitti; se del caso anche
  attraverso la previsione
 
                              Pag. 176
 
  sione di forme eventualmente obbligatorie di partecipazione a
  programmi di istruzione o ad attività lavorativa,
      Si agirebbe altresì, rispetto ai detenuti, nell'ottica di
  una duplice prospettiva di risultato sul piano psicologico:
  non soltanto il soggetto automaticamente sottoposto ad un
  regime di limitazioni potrebbe sentirsi attivamente spinto a
  partecipare all'opera di rieducazione (profilo in ogni caso
  potenzialmente positivo e comunque aderente alle finalità
  della pena), ma la stessa assunzione di una attività
  lavorativa all'interno del carcere potrebbe valere a ridurre
  il carisma di cui, rispetto agli associati, godono i vertici
  di tali criminose organizzazioni.
      7.2 Ad una revisione normativa volta a superare le
  difficoltà di ordine giuridico incontrate nell'applicazione
  dell'art. 41-bis, comma 2 dell'Ord.  Pen., dovrebbe abbinarsi
  anche la correzione di alcune disposizioni processuali al fine
  di attenuare, se non di eliminare, inconvenienti di ordine
  pratico derivanti dal sistema giuridico attualmente in
  vigore.
      E' emersa in maniera diffusa la constatazione che le
  traduzioni collettive, consentendo l'incontro tra detenuti,
  limitano di fatto l'efficacia del regime speciale introdotto
  dall'art. 41-bis dell'Ord.  Pen.
      La Commissione non può fare effettivamente a meno di
  rilevare il carattere solo formale di un rigorismo che limita
  il numero di colloqui con i parenti e lo esclude nei confronti
  di terzi, dal momento che viene palesemente ed agevolmente
  vanificato da contatti con altri detenuti nel corso di
  traduzioni collettive, essendo queste ultime possibili
  occasioni per lo scambio di notizie e commissioni illecite,
  con ampio rischio di incontrollabili riflussi verso
  l'esterno.
      Le attuali tecnologie "video", sulla base anche di
  collaudata esperienza maturata in altri Paesi, quali gli Stati
  Uniti d'America, e con opportuno adeguamento normativo
  dell'art. 147-bis Disp.  Att. al c.p.p., ovvero con la
  introduzione di una disposizione ad essa analoga, potrebbero
  consentire il collegamento audio-visivo, e dunque la
  partecipazione a distanza dei detenuti indicati
  dall'art.41-bis, comma 2 in questione, alle udienze avanti ai
  Tribunali di Sorveglianza competenti per la trattazione dei
  reclami proposti ai sensi dell'art. 14- ter  dell'Ord.
  Pen..  Tecnologia peraltro estensibile ad ulteriori momenti di
  partecipazione processuale di tali soggetti, avanti alle
  diverse Autorità giudiziarie, quali la celebrazione di udienze
  preliminari o giudizi, a meno che il Giudice non ritenesse
  necessaria la presenza fisica dell'interessato.
      Il collegamento video ed audio tra il luogo di detenzione
  e l'Autorità giudiziaria ordinaria - peraltro già sperimentato
  fin dal 1992 sul territorio nazionale con riguardo alla
  vigente formulazione dell'art. 147-bis delle disp. att. coord
  e trans. al c.p.p. - ha formato oggetto di analitici studi
  alla stregua dei quali risultano prospettate varie soluzioni
  (2)V. "Video-tecnologie e processo penale - applicazione in
  Italia e all'estero, uso nelle indagini preliminari,
  collegamenti a distanza, modifiche normative"; di G. Di
  Federico, M. Fabbri, D. Carnevali, F. Contini, A. Nicoli.
  IRSIG-CNR 1994.
  In quanto idoneo ad evitare che i pericoli e le complesse
  procedure connesse alla traduzione, esso trova diffusi
  consensi all'interno
 
                              Pag. 177
 
  dei massimi livelli investigativi.  Vale ricordare in
  proposito che il Capo della Polizia, nel corso dell'audizione
  del 18 luglio 1995, espressamente ha riferito alla Commissione
  di aver cercato di sollecitare l'applicazione per quanto
  possibile degli interrogatori attraverso il sistema "video"
  per evitare la presenza fisica, senza essere assecondato in
  ciò da tutti i magistrati e da tutta la classe forense.
      Il tema delle traduzioni di detenuti sottoposti al regime
  di cui all'art. 41-bis, comma 2 dell'Ord.  Pen., in questa
  prospettiva, si avvantaggerebbe di una riduzione derivante da
  soluzioni tecnologiche come quelle accennate.  Oltre a
  recuperare ad altri servizi, non meno importanti, buona parte
  delle unità di personale impegnata a fronteggiare gli
  spostamenti di detenuti sottoposti al regime speciale,
  evitando anche i rischi connessi alle loro traduzioni,
  verrebbero in tal modo rese maggiormente operative e
  credibili, norme come quelle di cui all'art.41-bis, comma 2
  citato.
      E' intuibile che, ove non fosse praticabile su larga
  scala il ricorso in un prossimo futuro, a tecniche di
  collegamento audio-visive, nella prospettiva sopra indicata,
  gli inconvenienti connessi al modo di determinazione della
  competenza dei tribunali di sorveglianza, farebbero sentire
  maggiormente il loro peso (rafforzando la prospettazione di
  una diversa soluzione legislativa della problematica
  connessa), nonostante l'attuale art. 677 c.p.p. sia stato
  determinato da una opportunità condivisibile in linea di
  principio.  Quella cioè - come si legge nella relazione che ha
  accompagnato il progetto preliminare al codice di procedura
  penale - che sia "il magistrato del luogo di domicilio o
  residenza a conoscere e valutare il comportamento
  dell'interessato, allo stesso modo in cui è l'organo
  giudiziario più ad immediato contatto con l'istituto
  penitenziario dove si trova l'interessato" a dover verificare
  il suo comportamento carcerario ed i progressivi risultati del
  trattamento penitenziario.  Alla Commissione, in questo caso,
  non resterebbe altro che richiamare l'attenzione del
  legislatore sull'opportunità di approfondire le possibili
  alternative al vigente art.677 c.p.p.; alternative che, nel
  rispetto delle motivazioni di fondo sopra riportate,
  andrebbero, comunque, esplorate con particolare cautela onde
  evitare, da un lato, di attribuire alla Amministrazione
  penitenziaria il potere di scegliere il magistrato di
  sorveglianza più gradito attraverso assegnazioni o spostamenti
  preordinati; dall'altro, di rendere più complesso di quanto
  già non lo sia attualmente il movimento dei detenuti, ove
  l'Amministrazione penitenziaria volesse sottrarsi a critiche,
  articolate sotto la stessa angolazione, di aver agito in modo
  strumentale.
      L'istituzione dell'articolo 41-bis ha constituito e in
  parte ancora continua a costituire uno strumento di frattura
  tra i più pericolosi esponenti di organizzazioni mafiose e la
  restante popolazione carceraria, che spesso veniva affiliata
  proprio in virtù della codetenzione, nonchè soprattutto
  rispetto alla possibilità di una continuativa gestione dei
  traffici illeciti, condotta direttamente attraverso scelti
  emissari.
      A questi effetti, sicuramente positivi, deve essere
  aggiunto l'altro, di non inferiore portata, e cioè di aver
  costituito uno strumento di incentivazione alla collaborazione
  con gli organi inquirenti.
      In sostanza, poichè la sottoposizione al regime previsto
  dall'art. 41-bis, sancisce una delegittimazione ed un
  esautoramento totale degli
 
                              Pag. 178
 
  esponenti mafiosi, sul piano pratico ciò si è tradotto nella
  caduta del vincolo associativo quale elemento di forza e di
  prestigio.
      E' perciò importante che, in una immediata prospettiva e
  al di là di proroghe temporali che potrebbero a breve
  rivelarsi meramente simboliche, si rivitalizzi e si
  ridefinisca la struttura normativa portante di questo
  istituto.
 
                              Pag. 179
 
                         CAPITOLO II
                       MAFIA E POLITICA
  1 Premessa
      1.1 Nel corso della XI Legislatura la Commissione
  Parlamentare Antimafia ebbe ad affrontare la tematica dei
  rapporti tra "Mafia e Politica" ed approvò, nella seduta del 6
  aprile 1993, la relazione del presidente Violante.
      In quella sede, la Commissione (che limitò il suo esame
  al fenomeno mafioso siciliano) operò una ricostruzione storica
  ed offrì una lettura del processo oggettivo che determinò il
  nascere del rapporto della mafia con le istituzioni e la
  politica.  Rapporto che, per lungo tempo, fu caratterizzato da
  relazioni tra "distinte sovranità".
      Nella relazione furono indicate le condizioni "oggettive"
  che dettero luogo, o meglio favorirono, il processo
  dell'evolversi e radicarsi di tale rapporto: condizioni
  individuate, a partire dal 1943, nel
  bipolarismo dominante nel quadro politico, interno ed
  internazionale, sostanzialmente immutato dal dopoguerra alla
  caduta dell'Unione Sovietica, e nella  cultura separatista
  che caratterizzò la realtà regionale rispetto alle
  questioni nazionali  (sicilianismo).
      La Mafia si fece garante della lotta contro il comunismo
  ed interpretò lo stato di disagio di cui era portatrice la
  cultura separatista.  Appoggiò, non per convincimento
  ideologico, ma per convenienza e calcolo, la politica dei
  partiti di governo aventi interesse al mantenimento dello
  status quo.  Mise a disposizione del sistema la sua
  capacità operativa (il consiglio, l'intimidazione, il broglio
  e la violenza) per appoggiare singoli politici nelle campagne
  elettorali politiche ed amministrative.  Talvolta, si propose
  essa stessa come autonomo soggetto politico promuovendo propri
  affiliati a rappresentanze elettive ed a guida di enti
  pubblici, di enti locali e di regioni.
      La commistione di interessi tra le due  sovranità
  determinò, secondo la relazione dell'Antimafia del 1993,
  quel fenomeno di  coabitazione  che emerse dalle indagini
  di polizia giudiziaria, dalle dichiarazioni di molti ed
  importanti collaboratori di giustizia, dalle richieste di
  autorizzazione a procedere, da atti giudiziari e da processi,
  alcuni dei quali ancora non conclusi.
      1.2 Oltre alla pregevole opera di comprensione e di
  sintesi del fenomeno mafia, la Commissione Antimafia della
  scorsa legislatura è pervenuta al rilevante risultato,
  operando una decisa distinzione tra responsabilità di natura
  penale e responsabilità di natura politica, di non offrire più
  comodi spazi di interpretazione sulle responsabilità derivanti
  dai rapporti con le organizzazioni mafiose, e di far cadere le
  ambiguità di coloro che, negando autonomia alla responsabilità
  politica e rinviando ogni giudizio di disvalore all'esito
  delle decisioni penali
 
                              Pag. 180
 
  (3)Vedasi Relazione Commissione Parlamentare Antimafia XI
  legislatura - paragr. 16.
  di fatto non gradivano (anche a
  prescindere dalla commissione di reati di stampo mafioso) ogni
  giudizio di incompatibilità tra funzione e rappresentanza
  politica e frequentazioni mafiose.
      La necessità di una tale affermazione di responsabilità,
  nella quale si ravvisa il punto di arrivo della relazione
  della commissione Antimafia del 1993,
  (4) Sul punto della
  distinzione tra responsabilità penali e politiche, si richiama
  anche la relazione sulla Camorra della Commissione
  parlamentare antimafia, approvata il 21 dicembre 1993
  (paragrafo 20.)
  pur sembrando avviarsi ad una maturazione
  nella coscienza politica del Paese, tuttavia non può ancora
  considerarsi un principio acquisito nell'attuale sistema
  politico-istituzionale, per la perdurante inefficacia o
  inesistenza di sistemi di controllo diversi da quello penale,
  e dagli stessi partiti politici al momento della scelta dei
  candidati alle diverse competizioni elettorali.  E ciò,
  nonostante sia stato più volte riaffermato l'impegno di non
  consentire l'ingresso nelle proprie liste di soggetti aventi
  precedenti penali o, comunque, sospetti di frequentazioni
  mafiose.
  (5) Nel corso della X legislatura la Commissione
  Parlamentare Antimafia approvò (seduta del 23 gennaio 1991 -
  doc. XXIII, n.30) un "codice di autoregolamentazine dei
  partiti in materia di designazione dei candidati alle elezioni
  politiche ed amministrative".  I partiti politici furono
  chiamati a dare adesione a tale codice ed, in gran parte, vi
  aderirono.
      A ciò si aggiunga l'ulteriore rischio, tuttora presente,
  che anche candidati, per quanto esenti da pregiudizi penali e
  da pregresse frequentazioni con personaggi mafiosi, siano
  scelti dagli stessi, in virtù dell'appartenenza ad una forza
  politica cui la mafia abbia deciso di dare la sua preferenza,
  durante la campagna elettorale, così come è stato rilevato
  anche in questa legislatura, o dopo il positivo risultato
  elettorale.
      1.3 La non più rinviabile soluzione in concreto di un
  tale problema, non si ritiene che stia nell'addebitarsi l'un
  l'altra forza politica, in modo spesso strumentale e
  irresponsabile, l'appoggio di organizzazioni mafiose
  nell'esito delle consultazioni elettorali, a meno che non se
  ne provino precise volontà, bensì stia nello sforzo effettivo
  e comune a tutti i partiti di trovare il superamento delle
  reciproche diffidenze politiche nella chiara determinazione,
  e, nelle rispettive piene responsabilità politiche, di operare
  un pubblico reciproco controllo, durante e dopo le
  consultazioni elettorali, sia a livello di soggetti che di
  indirizzi politici.  Ciò che servirebbe, nella necessaria opera
  di risanamento politico, a misurare in concreto la
  responsabilità politica di ciascun partito rispetto al
  fenomeno mafia, e al tempo stesso a conferire ai partiti
  stessi quell'autorevolezza ed efficienza politica che solo può
  legittimarli come il primo e più efficace strumento di
  contrasto e di debellazione delle organizzazioni mafiose.
      1.4 Compito di questa relazione è una attualizzazione del
  fenomeno sia alla luce delle significative mutazioni
  intervenute nel sistema e nel quadro politico, sia nella
  maturazione delle inchieste giudiziarie ed all'avvio di
  importanti processi.  Nella mutata dimensione politica che ha
  aperto la XII legislatura e che ha fatto parlare di Seconda
 
                              Pag. 181
 
  Repubblica, cercheranno di cogliersi gli elementi di novità
  dell'operare e dell'organizzarsi mafioso nonchè gli elementi
  di continuità con il vecchio sistema.
      Tuttavia, per offrire all'osservazione del fenomeno
  carattere di scientificità e garanzie di oggettività, prima di
  analizzare la ricaduta delle novità del sistema elettorale e
  del quadro politico nei rapporti tra mafia e politica, appare
  necessario procedere ad un excursus degli atti giudiziari più
  significativi che interessano, nelle varie regioni, soggetti
  già investiti di funzioni politiche.
      Ciò anche perchè l'intensa attività di contrasto posta in
  essere nel corso della XI Legislatura, attualmente ha spostato
  l'attenzione sui problemi della mafia dalla polemica politica
  alla ipotesi giudiziarie, in questo aiutata anche dalla caduta
  del  filtro  dell'autorizzazione a procedere frapposto
  dalla vecchia formulazione dell'art. 68  Cost.,  che ha
  rimosso gli ostacoli allo sviluppo e talvolta, all'avvio ed al
  proseguimento di inchieste giudiziarie su numerosi
  parlamentari.
   (6)Si riportano le richieste di autorizzazioni
  a procedere per i reati di cui agli artt. 416 e 416bis C.P.
  relative alla XI legislatura: Camera dei Deputati: onorevoli
  CULICCHIA, PRINCIPE, OCCHIPINTI, MAIRA, MISASI, CIRINO
  POMICINO, VITO ALFREDO, MASTRANTUONO, D'ANDREAMATTEO,
  SBARDELLA NICOLOSI, RUSSO RAFFAELE, ROMEO, CONTE, DEL MESE, DE
  LORENZO, CURSI, ASTONE, CAPRIA E DEMITRY-MARTUCCI.
      Senato della Repubblica: Senatori RUSSO G., ANDREOTTI,
  ZITO, MEO e GAVA.
      Il dipanarsi delle inchieste ed il punto di arrivo degli
  atti giudiziari costituiranno, pertanto, la base per la più
  corretta lettura delle modificazioni intervenute e per
  individuare gli elementi di novità ovvero di continuità del
  fenomeno.
  2.  Mafia e politica in Sicilia
      2.1 Già nel 1988 la sentenza depositata a conclusione del
  primo grado del maxi-processo di Palermo, valutava in ben
  180.000 suffragi la forza posseduta dalla mafia in quella
  città.  Anche a voler prudenzialmente ridimensionare tale
  indicazione, si tratta di un dato impressionante che
  testimonia drammaticamente la dimensione di un fenomeno che,
  seppure ancora oggi non scientificamente misurabile, tuttavia
  caratterizza con certezza, fortemente condizionandola, la
  politica siciliana.
      Le ragioni in virtù delle quali si è reso (e si rende)
  possibile il verificarsi del fenomeno, debbono ricercarsi,
  rifuggendo per quanto possibile da astratte teorizzazioni,
  nella logica di scambio che ha sempre caratterizzato l'operare
  mafioso e negli interessi dell'imprenditoria e di alcuni
  esponenti politici.
      Storicamente, ancor prima dell'unità d'Italia, la mafia
  riuscì a legittimare sè stessa (e tale circostanza - secondo
  molti autori - ne determinò la nascita) facendosi garante
  dell'ordine e della sicurezza del corpo sociale.  Si è trattato
  di una legittimazione che nel tempo ha creato una sorta di
  Stato nello Stato e quel regime di  coabitazione  di cui
  sopra si è fatto cenno.
      Peraltro, la convivenza tra le due  sovranità  era
  ben lungi dall'essere incompatibile ma, anzi, era
  indispensabile perchè l'enorme massa di  profitti
  illeciti doveva necessariamente trovare adeguati
  investimenti
 
                              Pag. 182
 
  nell'economia  lecita  che, pertanto doveva essere
  governata e servire gli interessi mafiosi.
      Il progressivo processo di immedesimazione tra fattori
  illeciti e settori legali (almeno apparentemente) reso
  possibile anche dalla mancanza o inefficienza di un sistema di
  controllo preventivo, sia a livello locale che a livello
  nazionale, ha potenziato la componente finanziaria
  imprenditoriale di Cosa Nostra, che sembra ormai privilegiarla
  rispetto alla tradizionale componente militare, che pur
  restando operativamente molto forte e attiva, è
  prevalentemente strumentale al perseguimento di interessi
  affaristici.
      2.2 Si assiste, così, anche in Sicilia, attraverso
  l'osservazione dei flussi dei capitali ed all'indirizzo dei
  finanziamenti pubblici, ad un evolversi dell'operare mafioso,
  sempre più impegnato a rendere consistente l'intreccio con la
  politica, condizionandola senza, peraltro, rimanerne
  condizionato.  La realizzazione di tale progetto ha potuto
  compiersi grazie alla particolare situazione istituzionale ed
  economica dell'isola.  Essa non ha conosciuto uno sviluppo
  continuativo delle proprie risorse anche in termini di
  imprenditorialità, bensì ha usufruito di quarantennali
  cospicue erogazioni di denaro pubblico, prive di controlli
  nello stanziamento e nella spesa, volti principalmente a
  sostegno del reddito delle famiglie che non delle imprese, con
  la conseguenza di alimentare progressivamente un terreno
  sfavorevole ad uno sviluppo economico-imprenditoriale autonomo
  e autosostenuto.  I finanziamenti da parte dello Stato hanno
  peraltro predeterminato non solo i settori di sviluppo ma
  anche i soggetti delegati alla spesa.
   (7) Sotto tale profilo
  la Commissione ritiene che le ipotesi di federalismo fiscale
  sostenute da più forze politiche e che attualmente formano
  oggetto di dibattito politico e economico, possano
  considerarsi strumento utile per una non effimera azione di
  contrasto nei confronti del potere mafioso.
      Questa politica di tipo erogatorio e assistenziale,
  concretizzatasi nella onnipresenza e pervasività
  dell'intervento pubblico nell'economia, ha avuto l'effetto
  perverso di incentivare non lo sviluppo della
  imprenditorialità economica, capace di stare sul mercato,
  bensì della imprenditorialità politica, legata a protezioni di
  diversa natura e non ultima quella mafiosa.  Ha generato
  inoltre un clientelismo sempre più diffuso, e soprattutto ha
  costituito l'occasione della ricerca del controllo delle
  risorse pubbliche da parte della criminalità organizzata con
  il condizionamento della classe politica stessa alimentando
  vere e proprie forme di modernizzazione criminale.
      Di qui, la grande attenzione della mafia sulla
  designazione dei politici, nazionali, regionali e locali.  La
  gratitudine (ovvero il condizionamento) di costoro costituiva
  condizione indispensabile per il controllo dei flussi
  finanziari pubblici e per il condizionamento anche della
  imprenditoria privata fortemente subordinata alla
  imprenditoria pubblica.
      2.3 Non si dispone ancora di chiare chiavi di lettura per
  comprendere quale sarà la nuova strategia della mafia in
  corrispondenza della nuova situazione economica che ha visto,
  unitamente alla soppressione dell'intervento straordinario nel
  Mezzogiorno, il blocco delle
 
                              Pag. 183
 
  opere pubbliche, la compressione della spesa relativa agli
  enti locali, il maggior controllo sull'operato degli
  amministratori pubblici.
      La sussistenza di enormi capitali provenienti da attività
  illecite e la necessità del loro collocamento fanno presumere
  che la mafia si stia attualmente attrezzando per la conquista
  di nuovi mercati.  I riscontri (anche giudiziari) già
  registrati nel campo delle risorse comunitarie (frodi alla
  CEE), il collocamento di capitali in holding internazionali ed
  in paradisi fiscali, danno contezza del dinamismo dell'impresa
  mafiosa.  L'ampio programma di privatizzazioni varato dagli
  ultimi governi, in aderenza alla politica economica europea,
  potrebbe far temere che esso costituisca per la mafia un
  ulteriore occasione di impossessamento e controllo di
  importanti settori economici e di servizi.  E' tuttavia da
  rilevare, come sarà approfondito in altra parte della
  relazione, che sono state emanate disposizioni normative,
  delibere e direttive degli organi di vigilanza e del Ministro
  del Tesoro che, in materia di privatizzazioni e controllo
  degli assetti proprietari delle banche, prevedono una serie di
  cautele e presidi, che seppure non possono eliminare in
  assoluto il pericolo prospettato, tuttavia costituiscono uno
  strumento ritenuto allo stato valido a scongiurare il rischio
  di infiltrazioni criminali.
      D'altra parte il ricorso alle privatizzazioni, ove siano
  posti in atto tutti i controlli previsti e comunque
  perfezionabili, ha l'effetto positivo di rafforzare le
  istituzioni dell'economia di mercato, e di portare ad una
  forte riduzione dei condizionamenti dei partiti nell'economia,
  causa questa di una corruzione generalizzata e sistematica e
  in particolare al sud di un intrico di interessi tra
  pseudo-imprenditori, politici e organizzazioni mafiose.
      Oggi, più che mai, per il processo e il grado di
  "modernizzazione" cui è pervenuta, la mafia, dunque,
  rappresenta non solo più un problema di ordine pubblico, ma
  soprattutto un problema politico che deve portare, al
  coinvolgimento di tutti i settori della vita
  politico-istituzionale ed economica del paese in una positiva
  strategia di contrasto.
      2.4 E' indubbio che l'evoluzione del fenomeno mafioso ed
  i risultati conseguiti nella attività di contrasto e,
  soprattutto, il nuovo assetto politico hanno costretto la
  mafia a ricercare nuovi referenti politici.
      Da un lato, infatti, la cattura di latitanti storici, la
  confisca di numerosi e cospicui patrimoni mafiosi, la messa a
  punto di tecniche d'indagine sempre più sofisticate sia
  nell'azione sul territorio, sia nell'utilizzo dei dati
  informativi; il coordinamento delle investigazioni tra i vari
  livelli di polizia giudiziaria e tra procure distrettuali,
  hanno finito per svolgere una azione moltiplicatrice degli
  effetti positivi derivanti dall'utilizzazione delle
  informazioni provenienti dai collaboratori di giustizia.
      Si ritiene, da parte degli organi inquirenti che ciò
  abbia determinato la necessità, per le organizzazioni
  criminali, di approntare al proprio interno misure deterrenti
  e preventive atte a tutelare l'ambito di riservatezza dei
  propri appartenenti, in particolare sviluppando una attività
  di maggiore compartimentazione che serva ad assicurare
  l'inaccessibilità alle nuove investigazioni.
 
                              Pag. 184
 
      All'esterno si sono ricercate nuovi  bersagli nel
  sociale  abbandonando la strategia stragista del biennio
  1992/1993, carica di terrorismo e di simbologia, e colpendo
  invece soggetti impegnati a combattere la mafia non più solo
  sul terreno giudiziario ed investigativo, ma sul terreno del
  consenso sociale (sacerdoti, amministratori, esponenti della
  società civile).
      Un elemento di trasformazione si ritiene debba essere
  registrato anche nella leadership delle varie cosche i cui
  capi, messi fuori causa dai successi delle forze dell'ordine e
  da una sanguinosa conflittualità tra bande rivali sono stati
  sostituiti da altri capi.
  (8) Una interessante ipotesi su
  questo tema è stata formulata dal procuratore aggiunto della
  Repubblica di Caltanissetta secondo il quale i figli degli
  uomini d'onore appartenenti alle cosche cd.perdenti (gli
  scappati), divenuti in grado di contrastare, avrebbero
  innescato una sorta di rivalsa nei confronti dei discendenti
  delle cosche dei vincenti.  Di qui la possibilità che elementi
  emergenti delle cosche palermitane (come ad esempio, Pietro
  Aglieri) stiano portando a termine una scalata all'interno
  dell'organizzazione fino a subentrare ai Corleonesi.
      Con l'eliminazione di Salvo Lima e la caduta dei
  tradizionali referenti politici e la disgregazione dei partiti
  politici contigui, la mafia è costretta ad una rinegoziazione
  degli interessi su basi diverse da quelle del passato e,
  poichè la situazione politica rappresenta elementi di minore
  certezza che nel passato, la stessa organizzazione mafiosa
  sembra non possedere ancora tutte le chiavi di lettura per
  governare con certezza la nuova fase storica.  Più che al mondo
  della politica, sembra che, in questa fase, l'attenzione della
  mafia si rivolga sempre di più al mondo dell'economia, della
  finanza, nel quale mantiene ancora immutati referenti.
        2.5 La lettura dei più significativi atti
  giudiziari.
      Facendo più specifico riferimento, per i fini che
  interessano la Commissione, ai procedimenti penali più
  significativi, iniziati nel corso della precedente legislatura
  o nella presente, emerge quanto meno a livello di
  responsabilità politica, il coinvolgimento con la mafia di
  esponenti politici che avevano ricoperto anche rilevanti
  incarichi di Governo.
      I casi di coinvolgimento giudiziario di esponenti
  politici seppure a diverso livello e con imputazioni di
  connotazioni giuridiche differenti riguardano l'ex Presidente
  del Consiglio Giulio ANDREOTTI, l'ex ministro Calogero
  Mannino, l'ex ministro della difesa Salvo ANDO', l'ex senatore
  Santi RAPISARDA, l'ex deputato Luigi GRILLO, l'ex deputato
  repubblicano Aristide GUNNELLA, gli ex MAILA e OCCHIPINTI,
  alcuni componenti della Assemblea Regionale Siciliana.
          a)  Gli sviluppi delle inchieste sull'ex
  presidente del Consiglio Giulio Andreotti.
      Nel corso di quest'anno il GIP presso il Tribunale di
  Palermo ha disposto il rinvio a giudizio del Sen. Andreotti
  per rispondere del delitto di partecipazione ad associazione
  di stampo mafioso con riferimento ad attribuite collusioni con
  i vertici di "cosa nostra".
      E' di questi ultimi tempi anche la richiesta di rinvio a
  giudizio formulata dal P.M. presso il Tribunale di Perugia a
  carico, tra gli altri,
 
                              Pag. 185
 
  dello stesso Sen. Andreotti, accusato di correità
  nell'omicidio di Carmine Pecorelli, su uno sfondo nel quale si
  intrecciano moventi, in chiave criminale, di natura politica
  ed economica.
      I due processi, pur giuridicamente autonomi (l'uno,
  quello di Palermo: avente ad oggetto reato "di mafia",
  l'altro, quello di Perugia - relativo a delitto "della
  mafia"), ma legati dalla comune qualità "mafiosa" di buona
  parte dei personaggi coinvolti, si presentano particolarmente
  impegnativi, oltre che per l'estrema delicatezza dei temi in
  trattazione, anche per il riferimento a fatti delittuosi
  lontani nel tempo, che hanno sconvolto all'epoca l'opinione
  pubblica, quali il sequestro e l'omicidio dell'On. Aldo Moro e
  l'omicidio del Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa.
      In particolare l'accusa della quale deve rispondere
  avanti al Tribunale di Palermo l'uomo politico - che negli
  ultimi 20 anni ha rappresentato l'Italia ai massimi vertici
  governativi, essendo sufficiente ricordare che per ben 7 volte
  è stato Presidente del Consiglio dei Ministri - è articolata
  con riferimento all'azione spiegata nella sua qualità sia di
  statista che di uomo politico al vertice della Democrazia
  Cristiana ed investe l'uso del potere e della influenza che
  egli, sulla base di tale duplice caratura, avrebbe esercitato
  per rafforzare ed espandere l'associazione mafiosa in
  questione.
      A prescindere da ogni profilo di responsabilità penale
  del Sen. Andreotti e dalle soluzioni processuali. che i fatti
  contestatigli possano avere, bensì sul presupposto, di pari
  rilievo, dei gravi interrogativi che, a livello politico
  nazionale ed internazionale, sono stati sollevati, è urgente
  che un'adeguata risposta politica ad essi provenga dall'unica
  sede a ciò istituzionalmente deputata e cioè il Parlamento.
  Ciò anche come conferma dell'indirizzo che si intende seguire
  in merito alla reciproca infungibilità della responsabilità
  penale e di quella politica, così da restituire anche alle
  rispettive sedi naturali lo svolgimento, a ciascuna, dei
  propri compiti istituzionali.
      Peraltro l'analisi e la risposta politica non avrebbero
  solo il merito ed il valore, già di per sè fondamentale, della
  retrospettiva, di capire cioè, nella rilettura organica ed
  integrata di numerosi fattori interni ed esteri, il contesto
  politico ed economico nel quale si è reso possibile alla mafia
  di divenire arbitro delle più importanti decisioni, nei
  diversi settori interessanti la vita di tutta la Nazione,
  attraverso il rappresentante del vertice dello Stato stesso e
  leader per molti anni indiscusso di quello che era il primo
  partito italiano.
      Un ragionato esame di tal genere avrebbe, invero, altresì
  il valore della prospettiva: di evitare cioè il rischio
  virulento ed insidioso del permanere inalterato dei meccanismi
  che a quel sistema dettero vita ed alimento, e quindi di una
  sua possibile perpetuazione.
        b)  L'ex ministro Calogero Mannino.
      Altra vicenda giudiziaria che pure ha una grande
  risonanza pubblica è quella dell'ex ministro Calogero MANNINO,
  già esponente dell'importante corrente della DC in Sicilia e
  Segretario regionale del partito, e membro del Consiglio
  Nazionale nonchè in ultimo Ministro per gli interventi
  straordinari nel Mezzogiorno nel Governo Andreotti.  Nei suoi
  confronti è stato chiesto, il 6/9/1995 il rinvio a giudizio
  per il
 
                              Pag. 186
 
  reato di concorso in associazione di tipo mafioso, delitto
  per il quale nel febbraio del '95 è stato raggiunto da un
  provvedimento di custodia cautelare.  In particolare viene
  contestato a Mannino, sulla base delle dichiarazioni di un
  medico ex esponente politico palermitano, Gioacchino PENNINO
  di essere stato al centro di un "comitato di affari" che agiva
  condizionando l'attività amministrativa del territorio
  compreso tra Ciaculli, Brancaccio, Croceverde e Giardini.
          c)  L'ex ministro della Difesa Salvo Andò.
      Nei primi giorni di agosto del '95 hanno ricevuto un
  avviso di garanzia per concorso in associazione di stampo
  mafioso l'ex ministro della Difesa socialista Salvo Andò, e il
  deputato regionale Giorgio Campione, ex presidente DC della
  Regione Sicilia.  L'ipotesi di reato è stata formulata dalla
  DDA di Reggio Calabria nel corso dell'indagine su alcuni
  magistrati di Messina, tra cui l'ex presidente della Corte
  d'Assise d'appello Giuseppe Recupero.  La contestazione
  riguarda il presunto intervento dei predetti, secondo le
  dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, nell'iter
  del procedimento conclusosi con sentenza di assoluzione degli
  imputati, tra i quali i componenti della Commissione di Cosa
  Nostra Michele e Salvatore Greco, già condannati per
  l'attentato mortale al Consigliere Istruttore di Palermo Rocco
  Chinnici (29 luglio 1983).  Oltre ai due capimafia, tra gli
  assolti in appello vi furono due affiliati a Cosa Nostra, tali
  Vincenzo Rabito e Pietro Scarpisi.
      L'iter del procedimento conobbe invero diverse fasi tra
  loro contrastanti.
      La vicenda del processo per la strage Chinnici, istruito
  dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta in tempi
  rapidi, si concluse in primo grado con sentenza di condanna
  all'ergastolo per i Greco e a quindici anni di reclusione gli
  altri imputati.  La condanna venne poi confermata in secondo
  grado di giudizio, ma la Cassazione annullò la sentenza per
  vizio di forma rinviando gli atti alla Corte d'assise
  d'appello di Catania.  Anche la nuova sede confermò il verdetto
  e, di nuovo, la Cassazione lo annullò, per difetto di
  motivazione.  Il procedimento si concluse infine a Messina, con
  l'assoluzione di tutti.
  (9) Nella Relazione sui rapporti tra
  mafia e politica, la Commissione parlamentare Antimafia nella
  XI Legislatura ricorda, tra l'altro le vicende in questione:
  "Gli sono state contestate (al Dottor Carnevale, ndr.) non
  valutazioni interpretative, che sono insindacabili, ma gravi
  errori di fatto che si sono risolti in vantaggi di rilievo per
  i mafiosi.  Tra gli allegati della comunicazione del CSM si
  enucleano elementi specificamente relativi a gravi processi di
  mafia:
      (...) h) "procedimento penale di cui poi alla sentenza
  n.1942 del 3.6.1986 (ricorr.  Greco Michele ed altri: erronea
  individuazione del decisivo orario del fatto-reato)".
          d)  Le indagini sul commercialista Giuseppe
  Mandalari.
      Come si è sopra accennato, il primo caso di tentativo
  della mafia di influenzare il contesto politico nella XII
  legislatura del Parlamento repubblicano viene descritto
  nell'ordinanza di custodia cautelare a carico di Giuseppe
  Mandalari e della consorte Maria Concetta Imbraguglia.
  L'inchiesta fornisce un esempio paradigmatico di quella
  specificità della criminalità mafiosa - la costante ricerca di
  collegamenti con le istituzioni e l'azione sistematica di
  infiltrazione nel mondo politico
 
                              Pag. 187
 
  - che è stata messa a fuoco sin dagli anni Sessanta dalle
  commissioni parlamentari Antimafia.
      Per converso, l'analisi delle modalità, per l'appunto
  riattualizzate nel "caso Mandalari", può suggerire linee
  efficaci di difesa delle istituzioni, nonchè di autotutela
  delle forze politiche dai reiterati tentativi di interferire
  nella loro vita democratica interna.  Gli atti esaminati e i
  materiali delle sedute svolte dalla commissione in questa
  legislatura contengono, a tale proposito, spunti di
  riflessione di notevole interesse, sia ai fini della
  conoscenza che della proposta.
      In quest'ultimo senso è utile accennare, sia pure en
  passant, al codice di autoregolamentazione proposto nella X
  Legislatura dalla Commissione Antimafia presieduta dal Sen.
  Chiaromonte, e sottoscritto da tutti i partiti.  Quel codice
  (di cui la Commissione stessa verificò e denunciò nel 1992 i
  casi di violazione) venne concepito quando era in vigore il
  sistema proporzionale con possibilità di espressione di più
  preferenze.  Con il passaggio al maggioritario e con la
  limitazione, nei casi di sussistenza del "proporzionale", a
  una sola preferenza, è oggi possibile introdurre dispositivi
  più efficaci.
      La vicenda Mandalari permette di formulare delle ipotesi
  di interpretazione su come possano configurarsi oggi gli
  interessi mafiosi laddove sono alla ricerca di una proiezione
  elettoralistica.  In passato, quando sono emersi elementi
  dell'indirizzarsi del controllo elettorale della mafia verso
  vari destinatari spesso consapevoli, prevalentemente partiti
  di governo (non per un solo partito nè per tutto un partito),
  si sono creati degli sbarramenti che hanno ritardato la
  predisposizione di valide modalità di difesa della libera
  volontà degli elettori.
      Tutto questo avveniva per esponenti politici di varie
  formazione e di opposta collocazione, nel corso di varie
  elezioni, sia politiche, sia amministrative, sia europee.  In
  questo senso, la dimensione territoriale dell'attività di
  drenaggio del consenso elettorale si ritrovava nelle pur
  differenti occasioni di rinnovo di organismi democratici, sia
  a carattere locale che nazionale.
      Nel 1992 - anno che può considerarsi uno spartiacque
  storico - si è avuta l'interruzione traumatica dei
  tradizionali rapporti, per il venir meno del ruolo del ceto
  politico di riferimento, così come delineato nella relazione
  su mafia e politica approvata dalla Commissione Antimafia
  nella XI Legislatura.
      Quindi il caso Mandalari fornisce delle direttrici di
  analisi sulla tendenza a ricostituire dei canali di
  collegamento tra la mafia e gli ambienti politici nella nuova
  congiuntura storica.
      Dalle intercettazioni telefoniche e ambientali, disposte
  dalla DDA di Palermo sulle utenze e domicili in uso a
  Mandalari, con inizio anteriore alle elezioni politiche del
  27/3/1994 e cessazione successiva alle elezioni europee,
  emerge un "attivismo politico" (così definito nell'ordinanza
  di custodia cautelare) del medesimo soprattutto verso la nuova
  formazione politica "Forza Italia", nel corso della campagna
  elettorale per le elezioni politiche e in particolare contatti
  telefonici personali con il Sen. Filiberto Scalone di Alleanza
  Nazionale, con il Sen. Michele Fierotti, candidato nelle liste
  di Forza Italia, e la ricerca di accreditarsi con il Sen.
  Enrico LA LOGGIA, e l'on. Silvio Liotta, entrambi eletti nelle
  liste di Forza Italia, con i quali tuttavia non sono
 
                              Pag. 188
 
  emersi colloqui diretti.  La Commissione ha dedicato un ampio
  spazio all'esame di questi fatti, svolgendo anche audizioni
  dei sopracitati parlamentari, che pure le avevano sollecitate,
  e concludendo con una prima relazione, già depositata ed una
  successiva in corso di elaborazione definitiva, alle quali si
  rinvia per il dettaglio delle dichiarazioni rese e delle
  considerazioni svolte.
      Preme, invece, rilevare che, pur nella insussistenza di
  ipotesi di natura penale per i parlamentari sopra indicati, il
  fatto certamente impone un'attenta riflessione.
      Consapevoli come ormai siamo, che un tale sistema va ad
  incidere negativamente sul grado di consistenza della nostra
  democrazia, occorre che ciascuna forza politica affronti anche
  al proprio interno, prescindendo dalla teorica del sospetto,
  ma con senso di responsabilità e senza falsi pudori e timori
  di criminalizzazioni indiscriminate e strumentali, la
  problematica mai cessata, del rischio delle infiltrazioni
  mafiose, quale limitazione e delegittimazione della propria
  azione e rappresentatività politica.
  3. 'Ndrangheta e politica in Calabria
      3.1 E' necessario soffermarsi sulla struttura e sulla
  evoluzione della 'ndrangheta, la cui più approfondita
  conoscenza emerge dalle complesse indagini di Forze
  dell'ordine e Magistratura, in particolare le più recenti,
  "Olimpia" e "Galassia", rispettivamente della DDA di Catanzaro
  e della DDA di Reggio Calabria, per comprendere la capacità di
  controllo di ogni attività, anche politica oltre che
  economica, del territorio, esercitata da tale organizzazione
  criminale.
      La peculiarità che la caratterizza e la rende
  particolarmente chiusa ad infiltrazioni, minacce esterne ivi
  comprese le cosche rivali, e cedimenti interni, è la struttura
  parentale, basata soprattutto sul vincolo di sangue e radicata
  in un circoscritto territorio.
      La 'ndrangheta si organizza in una struttura gerarchica
  articolata per gradi, costituenti un cursus honorum di tipo
  criminale, che vengono attribuiti nel corso di cerimonie
  rituali, aventi lo scopo non solo di solennizzare la
  promozione dell'affiliato nella gerarchia 'ndranghetista, ma
  anche di rendere tangibile la crescita del suo potere
  personale riconosciutogli dall'organizzazione e che egli deve
  mettere a servizio della stessa per la sua espansione.
      A cursus honorum concluso con la scalata ai vertici
  dell'organizzazione, lo aendranghetista è un pericoloso
  antagonista dello Stato di diritto: ha codici alternativi,
  controllo territoriale, affiliati, dominio, e una struttura
  armata.
      Il primo e più basso scalino della gerarchia è
  rappresentato dal grado di "picciotto", il secondo grado
  "camorrista", da questo si passa al grado di "sgarrista" o
  "terzo".
      Il gradino successivo è quello di "santista", posizione
  strategica nella gerarchia criminale.  La Santa viene infatti
  conferita a personaggi di sicuro rilievo criminale, in quanto
  il Santista può battezzare nuovi affiliati e può aprire nuovi
  Locali anche in altri territori.  E' cioè il motore
  dell'espansione territoriale della 'ndrangheta, in quanto
  individua
 
                              Pag. 189
 
  località e uomini che, a suo giudizio insindacabile, offrono
  prospettive di insediamento e radicamento di quella
  organizzazione.
      Ulteriore gradino è "il vangelo".
      3.2 Proprio a livello di vertice la 'ndrangheta è
  collegata con la massoneria e sul punto le notizie sono
  precise, avendo il Gaetano Costa, con dichiarazioni rese ai
  magistrati di Reggio Calabria e di Palermo, riferito che
  soltanto chi raggiungeva il grado di "santista" poteva entrare
  a far parte della massoneria.  In ciò, secondo il Costa,
  consisteva la regola segreta della "santa"; principio
  trasmesso oralmente ai destinatari della "santa qualificata"
  secondo una specifica formula espressa in termini che, nel
  confermare l'autonomia reciproca tra le due organizzazioni,
  implicava un'anticipata promessa di adesione e di aiuto, ove
  richiesti, alla "famiglia del sacro ordine dei muratori".
      L'intreccio ramificato, profondo e pesante dei rapporti
  tra la 'ndrangheta e la massoneria dettato, in modo
  particolare, dagli interessi illegali delle cosche di
  acquisire e gestire le commesse relative ad opere pubbliche,
  ha trovato specificazioni anche nelle dichiarazioni del Lauro,
  prodigo di indicazioni non vaghe, ma specifiche, come quando
  forniva i nomi di Cosimo Zaccone, preside dell'Istituto
  magistrale, di Tommaso Gulli e di Pasqualino  Modafferi,
  asserito consigliere delle cosche associatesi ai De
  Stefano, includendoli tra i massoni più importanti che negli
  anni del quinto centro siderurgico di Gioia Tauro avevano
  aiutato la mafia a Reggio ed in provincia.
      Anche l'attribuzione da parte dello stesso Lauro al
  notaio Marrapodi Pietro di Reggio Calabria della qualifica di
  appartenente alla massoneria, conferma l'esistenza di oscuri,
  diffusi, preoccupanti legami con la 'ndrangheta, dando pieno
  titolo alla esigenza che si approfondiscano le indagini sui
  rapporti intercorsi tra la massoneria e le cosche.  Tanto più
  che la recente adozione contro il Marrapodi di una misura
  cautelare da parte del G.I.P. del Tribunale di Reggio Calabria
  proprio per essere stato organicamente inserito nel clan
  facente capo al De Stefano (per conto del quale, oltre al
  supporto legale fornito per le vendite compiute dalla società
  EDILINVEST, si assume che egli abbia compiuto, tramite la
  società I.M.M., attività nel settore edilizio finalizzata al
  riciclaggio di denaro della cosca), rafforza la sostanza dei
  riferimenti a siffatte forme di oscuri illeciti connubi.
      Sotto tale angolazione, delineano una situazione vieppiù
  grave e di vaste dimensioni, in parte ancora inesplorate, gli
  atti degli Uffici giudiziari di Reggio Calabria secondo i
  quali la storia politico-affaristica-criminale della provincia
  reggina si sarebbe sviluppata attraverso una subalternità
  della 'ndrangheta alla massoneria la quale ne avrebbe ricavato
  un utile diretto percentualizzato agli affari mediati per
  conto della prima, in virtù di una forte presenza di suoi
  adepti nelle istituzioni, tra i politici, gli imprenditori, i
  magistrati e gli appartenenti alle forze dell'ordine.
      Fino a quale punto si fosse spinto il grado di
  inquinamento derivante da simili collegamenti è agevole
  cogliere allorchè si indica che entrarono a far parte della
  famiglia massonica personaggi tra i quali Paolo De Stefano,
  Giuseppe e Francesco Nirta, Antonio Mammoliti,
 
                              Pag. 190
 
  Natale Iamonte o quando si rivela che vennero progettate le
  candidature alle elezioni comunali di Reggio Calabria
  dell'avv.  Giorgio De Stefano, cugino dell'omonimo Paolo e
  Pietro Araniti, cugini di Santo Araniti ovvero ancora che
  vennero fatte pressioni sul senatore Nello Vincelli (D.C.) per
  candidare alle elezioni politiche Vico Ligato, vicino alla
  famiglia Di Stefano, mentre magistrati, la cui iscrizione
  rimaneva occulta o erano rappresentati da altri "fratelli"
  regolarmente iscritti alle logge di Reggio Calabria e di
  Roccella Ionica, assumevano un ruolo di garanzia nella
  gestione dei vasti interessi economici prima descritti.
      3.3 Attesa l'esigenza di rafforzare la credibilità e la
  forza dell'azione sviluppata dallo Stato sia per il recupero
  socio-economico delle aree della Calabria, sia per contrastare
  sempre più vigorosamente la criminalità organizzata, la
  Commissione esprime l'esigenza che le competenti autorità
  giudiziarie ed investigative compiano ogni sforzo onde
  arrivare quanto prima, oltre che alla scoperta di tutti i
  pericolosi legami instauratisi tra la massoneria e la
  'ndrangheta, anche ad una necessaria chiarificazione in ordine
  alle accuse di sospetti rapporti, quando non losche
  implicazioni, rivolti ancora in tempi recenti a magistrati,
  funzionari, rappresentanti dello Stato e degli Enti pubblici
  per la loro appartenenza o contiguità massonica.
      3.4 Dall'analisi delle risultanze giudiziarie e
  investigative gravi si configurano, per le valutazioni di
  competenza della Commissione, prescindenti cioè dalla
  individuazione di specifiche configurazioni delittuose e di
  singole responsabilità, le compromissioni emerse tra esponenti
  politici rappresentativi delle istituzioni e di enti
  territoriali con la criminalità organizzata nella provincia di
  Reggio Calabria.
      Panorami densi di inquietanti prospettive hanno aperto in
  proposito le dichiarazioni di Lauro Giacomo Ubaldo,
  collaboratore di giustizia, del quale non va sottaciuta, tra
  l'altro, l'allusione in maniera inquietante al comportamento
  dell'On. Francesco Principe di Rende (P.S.I.), presidente
  della Commissione parlamentare per i problemi del Mezzogiorno
  e dunque sull'azione di persona investita di responsabilità di
  elevato livello in un settore di vitale importanza per le
  regioni del sud.
      Dallo stesso Lauro, l'On. Benedetto Mallamaci del
  P.S.D.I., già presidente della Commissione regionale
  antimafia, e dunque organo deputato al contrasto rispetto alla
  azione della 'ndrangheta, è stato indicato come il soggetto
  che doveva soprintendere agli interessi tra la CO.LA.S. e la
  Timperio-Timperio S.p.A., ivi compreso il COGITAU (cioè il
  consorzio di Gioia Tauro) e di conseguenza implicato nelle
  commesse relative alla realizzazione del quinto centro
  siderurgico di Gioia Tauro, la cui esecuzione, ha visto
  l'inserimento di interessi e soggetti mafiosi.
      3.5 Ulteriori acquisizioni hanno poi evidenziato e
  confermato il sistema per cui i finanziamenti pubblici
  finivano per essere convogliati, tramite fidati colossi
  dell'imprenditoria nazionale, verso imprese reggine
  controllate dalla 'ndrangheta, in cambio di voti e tangenti,
  in una configurazione nella quale il piccolo e medio
  imprenditore locale fungeva da tramite tra il potere politico
  e il mafioso così costituendo "un comitato di affari" che si
  rendeva portatore di interessi mafiosi.
 
                              Pag. 191
 
      La descrizione del gravissimo connubio ha trovato
  espressione nelle dichiarazioni rese all'autorità giudiziaria
  da Sebastiano Vincelli, già parlamentare, e da Licandro
  Agatino, attraverso le quali si disvela il meccanismo degli
  appalti vedendoli oggetto di aggiudicazione a quelle imprese
  nazionali cui doveva appunto spettare "secondo accordo".
  Queste, a loro volta, avrebbero dovuto associarsi con ditte
  locali prescelte dal "comitato di affari", e per esso
  specificamente da Cozzupoli Domenico.  A questo sistema si
  collegavano due distinti ordini di tangenti: quelli da
  corrispondere, a cura della o delle imprese nazionali e quelle
  da erogarsi al "comitato di affari" da parte delle ditte che
  di fatto finivano per svolgere i lavori.
      D'altro canto, nella città di Reggio Calabria la
  commistione fra la criminalità organizzata, imprenditoria ed i
  pubblici amministratori ha già superato una prima verifica
  dibattimentale attraverso la sentenza pronunciata il 21
  febbraio 1994 dal Tribunale di Reggio Calabria.  Dal documento
  giudiziario, il quale muove dalle dichiarazioni rese dall'ex
  Sindaco di Reggio Calabria, Agatino Licandro, emerge uno
  squallido panorama della vita pubblica della città intessuto
  di rapporti politici ed amministrativi diffusamente corrotti e
  profondamente deviati rispetto ai fini della istituzione
  comunale.
      Tanto più fortemente va richiamata l'attenzione delle
  competenti istituzioni dello Stato affinchè opportunamente
  riflettano sul fenomeno di coinvolgimento dei pubblici
  amministratori con criminosi sodalizi e del ricorso dei primi
  a metodi marcatamente delittuosi ove si consideri che il
  Licandro affermava che il sistema era valso per tutti quei
  sindaci espressi dalle relazioni intercorrenti nei partiti
  tradizionali della città di Reggio Calabria; sistema secondo
  il quale la D.C., il P.S.I. ed i partiti laici minori si
  alternarono al Governo.
      Lo spaccato sociale che emerge offre dunque alla
  Commissione un'impressionante, ininterrotta sequenza di
  illeciti accordi, di compromissioni di uomini politici, di
  finanziamenti che vengono sollecitati presso le autorità
  centrali della Capitale per poi svilupparsi in attribuzioni di
  commesse pubbliche alle quali sono correlate forme di
  peculato, corruzione, concussione e di abusi di ufficio,
  secondo una logica spartitoria che vede la cointeressenza,
  sotto questo aspetto parimenti illecita, di una variegata
  imprenditoria a sua volta referente delle formazioni politiche
  interessate alla illegale spartizione del pubblico denaro.
      Fornendo spunti più precisi, giova ricordare che le
  dichiarazioni del Licandro hanno riguardato essenzialmente la
  realizzazione di due opere pubbliche: il centro direzionale
  dei servizi e le c.d. fioriere.  L'appalto del primo venne
  aggiudicato alla società Bonifica di Giorgio De Camillis e,
  per una parte minore, al Consorzio di imprese C.M.C., ove era
  quella di Vincenzo Lodigiani ad avere la maggior
  consistenza.
      3.6 A conferma poi delle dimensioni dei collegamenti tra
  la criminalità e la politica, diffuse nella provincia anche a
  livello periferico, la Commissione richiama il procedimento
  pendente presso gli uffici giudiziari di Palmi a carico di
  Viola Marcello cui si addebita di essersi fatto promotore di
  iniziative politiche-elettorali in Taurianova
 
                              Pag. 192
 
  mediante la creazione di una lista civica piegata, secondo
  l'accusa, a strumento di criminalità per gestire direttamente
  dall'interno la "res publica".  Fatto sicuramente non isolato
  ove si ponga attenzione alla circostanza che lo scioglimento
  del Consiglio comunale di Camini, cui sopra si è fatto cenno
  si basa sul coinvolgimento degli amministratori, derivante dal
  cosiddetto voto di scambio, al fine di ottenere, da parte
  delle cosche, non solo la semplice acquisizione di appalti per
  ditte da esse controllate, bensì un più ampio e generalizzato
  controllo di tutte le attività finanziarie proprie del
  Comune.
      Altri casi ancora, in fase di indagini preliminari, di
  voto di scambio sono ipotizzate nei confronti dell'ex ministro
  democristiano Riccardo Misasi, il quale secondo alcuni
  collaboratori di giustizia avrebbe ottenuto l'appoggio di
  alcune organizzazioni criminali della fascia ionica, dell'ex
  sottosegretario socialista Salvatore Frasca e due componenti
  già del PLI per le elezioni dell'aprile 1991, BASTIANINI e
  MATACENA, oggi dell'U.C.D.
      3.7 Dalle indagini svolte dalla DDA di Reggio Calabria
  nell'ambito della vasta operazione denominata "Olimpia", è
  emersa una nuova struttura della aendrangheta, quale più
  adeguato e raffinato strumento di condizionamento del mondo
  della politica e delle istituzioni.
      Alcuni collaboratori di giustizia e in particolare
  Gaetano Costa, già inserito ai massimi vertici della
  'Ndrangheta, hanno infatti parlato dell'esistenza di una forma
  di verticizzazione della organizzazione, definita COSA NUOVA,
  realizzata dopo la pacificazione tra le "famiglie" a Reggio
  Calabria nel 1991, al termine della seconda guerra di
  mafia.
      La funzione di COSA NUOVA è di garantire la pace tra le
  "famiglie", in particolare anche intervenendo nell'ambito
  delle faide familiari per eliminare il pericolo di vendette
  isolate e personali, introducendo invece la decisione
  concertata a livello collegiale di eliminazione di quanti
  vengano individuati come nemici .  Ha inoltre la funzione di
  instaurare un'organizzazione a livelli stagni, così da evitare
  che eventuali collaboratori possano riferire su circostanze e
  persone.
      Infine COSA NUOVA ha il compito di salvaguardare le
  alleanze interne e quelle con le organizzazioni similari di
  matrice siciliana, campana e pugliese, che, peraltro anche in
  regioni diverse da quelle di tradizionale origine hanno
  mostrato non di rado una reciproca tendenza alla
  collaborazione nello sviluppo di azioni delittuose
  prefigurando potenziali, future disponibilità a prestarsi
  reciproco appoggio.
      COSA NUOVA, inoltre, avrebbe costituito, secondo le
  dichiarazioni di Costa, degli organismi, detti "camere di
  controllo", uno nella locride ed uno nella piana, con il
  compito di controllare tutta l'organizzazione.
      Le "camere di controllo" composte dalle famiglie più in
  vista delle cosche calabresi, avrebbero anche riunioni comuni
  per le cose più importanti.
      Tale riorganizzazione, a detta del Costa, avrebbe creato
  una saldatura e dato vita ad un piano strategico comune con
  Cosa Nostra, con la Camorra, e la Sacra corona Unita, per
  salvaguardare i processi in corso o già celebrati, le
  ricchezze accumulate, e in particolare "la
 
                              Pag. 193
 
  gestione di comune accordo con massoneria, politica,
  istituzioni deviate".
      Questa nuova strutturazione, che va a potenziare la
  capacità di penetrazione della 'ndrangheta nella pubblica
  amministrazione, nel mondo economico-imprenditoriale e
  politico, e che si aggiunge alla sua comprovata capacità di
  espansione nelle Regioni del Nord-Italia e all'estero (USA,
  CANADA, AUSTRALIA e GERMANIA), evidenzia tutta la pericolosità
  di tale organizzazione criminale.
      Gli interventi di ampio raggio di forze dell'Ordine e
  Magistratura hanno certamente inciso in profondità nella
  struttura criminale.  A fronte di tale encomiabile lavoro e
  impegno, che porta a ben sperare per il futuro, permangono
  tuttavia in Calabria condizioni di disordine amministrativo,
  mancanza di attivazione di controlli, degrado ambientale,
  livelli elevati di confusione disoccupazione, ed adattabilità
  ad un generale sistema di compromesso.
      Sotto il profilo economico, l'assenza di un'articolata
  struttura produttiva di base, e di scelte di mercato
  opportunamente calibrate, la carenza di impegno da parte dello
  Stato, che per tanti anni si è limitato ad intervenire con
  forme di elargizione rivelatesi improduttive, di rendere
  adeguate ed efficienti le articolazioni pubbliche,
  contribuiscono a mantenere inalterate le condizioni nelle
  quali si è rafforzata la criminalità organizzata.
  4.  Camorra e politica in Campania
      4.1 L'analisi più recente e più completa dedicata dalla
  commissione Antimafia ai rapporti della criminalità
  organizzata con la politica in Campania, la si ritrova nella
  relazione sulla Camorra del dicembre 1993.
  (10) Relazione "Camorra e politica" approvata dalla
  commissione parlamentare antimafia il 21 dicembre 1993
  (Doc.n 12. XI Legislatura, Paragrafo 18, Parte III.
      In quell'occasione, l'indagine riguardò quel fenomeno che
  fu denominato "il blocco politico-camorrista negli enti
  locali", fenomeno che apparve di particolare rilievo in
  considerazione del fatto che, in quella Regione, erano stati
  sciolti (fino a tutto il 1993) ben trentadue comuni per
  condizionamenti mafiosi.  Le relazioni prefettizie che
  accompagnarono i decreti di scioglimento dei consigli
  comunali, denunciarono un livello di penetrazione del tutto
  peculiare da parte della camorra nella politica locale e
  nazionale.  Si legge, nella relazione anzidetta: " Gli organi
  elettivi subiscono condizionamenti da parte della criminalità
  organizzata la quale, in molti casi, non si accontenta di
  essere rappresentata nel Consiglio e nella Giunta, ma designa
  direttamente esponenti del sodalizio nelle cariche di sindaco,
  assessore e consigliere".
        Non mancano, in quel periodo, riscontri giudiziari
  sulla forza elettorale della camorra e sulle forze politiche e
  sui singoli politici esplicitamente sponsorizzati
  dall'organizzazione mafiosa..  Funzionavano dei veri e propri
  comitati elettorali che finanziavano e preparavano le campagne
  elettorali e predeterminavano gli incarichi da ricoprire.
  Seguiva, poi, la spartizione, in favore delle imprese legate
  alla camorra, delle commesse e degli appalti pubblici.
 
                              Pag. 194
 
      A parte alcuni casi in cui i voti sono stati concentrati
  intorno a partiti minori,
  (11) E', per esempio, il caso del
  Comune di Quindici (AV.) dove ben 17 consiglieri su 20 furono
  eletti nella lista del P.S.D.I., caduta nelle mani del clan
  Graziano che designo il suo capo (Carmine Graziano) alla carica
  di sindaco.
  le forze politiche di riferimento della Camorra
  furono, in Campania, la Democrazia Cristiana ed il Partito
  Socialista Italiano.
      Occorre, ora, verificare se, in relazione alla efficace
  azione di contrasto posta in essere dalle forze dell'ordine e
  dalla magistratura campane e al mutato quadro politico che ha
  visto scomparire dallo scenario quegli stessi partiti che
  erano stati interessati (più o meno volontariamente) dal
  fenomeno di sponsorizzazione, la organizzazione campana
  continui ancora a percorrere la strada dell'infiltrazione nel
  tessuto socio economico attraverso la politica, ovvero se
  abbia trovato nuove modalità di presenza per influire nelle
  scelte di amministrazione del territorio.  Tra tutti, infatti,
  il caso campano, è quello che presenta più variabili possibili
  di un nuovo modo di operare; e ciò, perchè, in quella Regione,
  più forte è stato il riconoscimento della camorra con i
  partiti politici non più esistenti.
      4.2 Dall'esame degli atti giudiziari, in particolare
  della Procura della Repubblica di Napoli, emerge, per quanto
  di competenza della commissione e quindi a prescindere dalle
  singole eventuali responsabilità di natura penale, il fondato
  convincimento che l'apparato pubblico, a livello locale come a
  livello nazionale, sia stato permeato da comportamenti
  delinquenziali per gli illeciti legami con la criminalità
  camorrista, di diffusione tale che, anche per la loro
  persistente impunità, erano ormai divenuti un costume.
      Si tratta di collegamenti che non possono non suscitare
  grave allarme per quantità e qualità, come è dimostrato anche
  dall'arresto negli ultimi due anni di alcuni ex-parlamentari,
  anche con alte funzioni governative; di alcuni magistrati e
  appartenenti alle Forze dell'ordine, anche di grado
  elevato.
      Anche a livello di amministrazioni locali, la vastità
  delle compromissioni con la criminalità organizzata, appare
  nella sua vastità ove si consideri che in 92 comuni in
  provincia di Napoli, 71 sono stati sciolti e 16 per
  condizionamento con la malavita, e in tutta la Campania, per
  gli stessi motivi ben 32.
      Le collusioni, di estesa portata, assumono in Campania
  così come nelle altre regioni meridionali, un rapporto
  trilaterale di interazione tra esponenti politici,
  imprenditoria privata e coopertivistica e camorra, che in
  pratica è valso ad introdurre, in modo organico e su di un
  piano paritario, tale organizzazione criminale nel settore
  delle commesse pubbliche secondo un meccanismo consolidato che
  ha trovato un'ulteriore conferma nell'esito delle indagini
  della recentissima operazione della DDA di Napoli, denominata
  "KATANA".
      A prescindere da casi specifici il meccanismo per tutte
  le imprese, private e cooperative, era il medesimo.
      Un esponente politico si adoperava per l'affidamento
  dell'appalto di un'opera pubblica ad una impresa di "fiducia".
  La stessa impresa doveva versargli per tale attività una
  tangente e doveva poi entrare in
 
                              Pag. 195
 
  contatto con l'organizzazione camorrista che controllava il
  territorio sul quale doveva insistere l'opera pubblica e
  pagare un'altra tangente, quantificata nel 3 per cento.  La
  camorra inoltre imponeva subappalti o altro tipo di contratti
  (come ad es. i noli, movimenti terra ecc.) ricambiando poi il
  politico, quale soggetto motore dell'operazione, con il
  controllo del voto da convogliare verso il medesimo e con
  altri scambi di favori da concordarsi secondo un'intesa di
  ampia collaborazione.
      Un meccanismo, questo, peraltro non nuovo, ove si
  consideri che Carmine Alfieri riferisce di come, dopo il
  sequestro Cirillo, tutta l'attività economica di alcuni
  imprenditori risentì dell'intreccio che si era creato tra i
  cutoliani e il sistema politico-economico, e che proprio
  all'origine dello scontro tra il clan Nuvoletta e quello dello
  stesso Alfieri vi era il controllo delle attività
  imprenditoriali.  I Nuvoletta già da tempo avevano instaurato
  tali rapporti con il potere imprenditoriale e il potere
  politico.  Lo scontro tra i due clan non era perciò finalizzato
  a realizzare tangenti bensì l'ingresso nel circuito delle
  assegnazioni delle grandi concessioni di opere pubbliche.
      Il politico gestiva l'assegnazione dell'appalto facendo
  da mediatore tra le grandi imprese private e cooperative del
  nord e centro Italia e la camorra ai fini della imposizione
  delle tangenti e dei subappalti a ditte locali gradite alla
  camorra stessa, in una gestione complessiva della operazione
  da parte di politici, imprenditori e camorristi direttamente
  rappresentati "in totale fusione".  Ciò consentiva secondo lo
  stesso Galasso, a ciascuna ditta-appaltatrice o
  subappaltatrice di pagare le tangenti ai politici e alla
  camorra attraverso le false fatturazioni o sovrafatturazioni
  che destinava anche ad una propria autonoma finalità di
  profitto.  Le sovrafatturazioni e false fatturazioni non
  servono infatti ai diversi imprenditori soltanto a procurarsi
  fondi "neri" per pagamenti imposti dalla criminalità, ma come
  è stato constatato dall'autorità inquirente di Napoli nelle
  indagini in questione, anche per costituire occulte riserve
  destinate al pagamento di tangenti a forze politiche, o alla
  costituzione di depositi in nero all'estero.
      In questa "totale fusione", raggiunta negli anni
  attraverso accordi di vantaggi reciproci sempre più estesi e
  programmati difficilmente l'imprenditore può rappresentarsi
  come vittima, fruendo peraltro anche del vantaggio della
  alterazione delle gare d'appalto, quasi sempre pilotate, e
  degli stessi termini contrattuali nel corso dello svolgimento
  dell'opera pubblica.
      Infatti, secondo le emergenze delle indagini in
  questione, è nella fase esecutiva degli appalti che si
  realizza l'illecito rapporto tra imprenditoria, comunque
  connotata, politici e burocrati corrotti e la componente
  camorrista locale, attraverso lo strumento rappresentato
  dall'affidamento in subappalto di una quota di lavori,
  talvolta anche superiore al 40 per cento, limite introdotto
  dalla legge n.55 del 1990, ad imprese rappresentanti gli
  interessi della camorra, così che per le ditte del nord
  l'impresa o le imprese collegate nel luogo al clan camorrista
  erano un punto di riferimento.
      Una circolarità di interessi intersecantisi ma anche
  autonomi, elevati a sistema, ed un costo altissimo per la
  collettività, che sembra comunque non essere cessato.
      Proprio per tale verifica la Commissione ha deciso di
  effettuare
 
                              Pag. 196
 
  un'inchiesta sulla realizzazione dei lavori dell'Alta
  Velocità sulla rete ferroviaria Roma-Napoli.
      4.3 Il momento di accelerazione e del salto di qualità
  della collusione, via via più generalizzata e sistematica, tra
  potere camorristico, politico e imprenditoriale, viene
  individuato dalla A.G. di Napoli nei complessi retroscena del
  sequestro Cirillo.  L'organizzazione camorristica, che fino a
  quella vicenda aveva esperito e controllato un ampio spettro
  di attività criminali dal contrabbando al traffico di
  stupefacenti, dalle estorsioni a commercianti e imprenditori,
  peraltro già sistematizzate, assurge a soggetto "legittimato"
  a interloquire, in una posizione, peraltro, sempre più di
  forza, con politici, nazionali e locali, e imprenditori, per
  lo sviluppo ciascuno dei propri interessi nella totale
  illegalità dei metodi adottati.
      Questo rapporto perverso iniziato in conseguenza del
  sequestro Cirillo con Raffaele Cutolo, è proseguito fino ad
  epoca recente con il clan vincente dell'Alfieri, che pure
  sostiene di avere iniziato quel medesimo tipo di rapporti, già
  molto tempo prima dell'affermazione di Cutolo, con numerosi
  esponenti del mondo politico, come ad esempio con l'ex
  senatore PATRIARCA, stretto collaboratore di GAVA e altri
  politici che pure avevano richiesto il suo sostegno.
      4.4 Lo sviluppo delle indagini sulle ipotesi di reità già
  emerse dal 1993, poste in rilievo dalla Commissione
  parlamentare della precedente legislatura, hanno supportato e
  ancor più ampliato le responsabilità dell'ex ministro
  dell'interno Antonio GAVA e della sua corrente nella
  contiguità con ambienti della camorra.
      Nel settembre 1994 la DDA di Napoli ha chiesto e ottenuto
  dal GIP l'emissione di provvedimenti cautelari per l'ex
  senatore Gava.  Tra le altre ipotesi di reato, è contestato a
  Gava l'intervento effettuato a metà degli anni '80 per
  impedire lo sviluppo delle indagini in corso a Foggia volte ad
  accertare i rapporti tra la camorra e Pasquale Casillo, tratto
  in arresto nell'aprile 1994 per vari reati e associazione a
  delinquere di tipo mafioso.
      Inoltre gli accertamenti giudiziari ipotizzano che Gava e
  Cirino Pomicino, già ministro del Bilancio, sostenevano
  ciascuno gli interessi di due oligopoli dell'industria
  agroalimentare, rappresentati rispettivamente da Pasquale
  Casillo e Franco Ambrosio, peraltro in violento conflitto tra
  loro per il dominio di quel mercato e dei relativi
  finanziamenti pubblici.  Secondo l'accusa la composizione del
  contrasto avvenne per l'intervento del capo della camorra
  "vincente" Carmine Alfieri e si concluse con l'impegno di
  Pomicino di risarcire Casillo con un nuovo patto per la
  filiera cerealicola.
      Infine il 17 luglio 1995 il GIP del tribunale di Napoli
  ha rinviato a giudizio Antonio Gava per concorso in
  associazione a delinquere di stampo camorristico.  Peraltro nel
  procedimento a carico del clan Alfieri, sono stati tratti in
  arresto per associazione mafiosa altri quattro ex parlamentari
  e indagati altri tre, tra cui l'ex ministro del Bilancio
  Cirino Pomicino.
      4.5 Dopo le dimissioni del prefetto di Napoli Umberto
  Improta, da lui stesso presentate per agevolare e rendere più
  rapido il corso degli accertamenti giudiziari, la recente
  richiesta del GIP di Napoli di autorizzazione
 
                              Pag. 197
 
  all'arresto per il senatore Carmine Mensorio,
  attualmente parlamentare del CCD, e presidente della
  Commissione Parlamentare d'inchiesta sull'attuazione della
  politica di cooperazione nei Paesi in via di sviluppo, indica
  un terreno di indagini per molti versi inedito.  Il 9 agosto
  scorso la Giunta per le autorizzazioni a procedere ha accolto
  a maggioranza (con 12 voti a favore e 8 contrari) l'istanza
  del giudice di merito.  Qualora l'assemblea del senato dovesse
  confermare l'orientamento della Giunta, si tratterebbe del
  primo caso nella XII legislatura di un parlamentare sottoposto
  a misura cautelare, secondo una procedura che ha ridotto al
  solo passaggio delle misure restrittive il filtro del potere
  legislativo sulle inchieste penali a carico di un suo
  componente.
      Da un lato la DDA di Napoli ipotizza il concorso
  dell'esponente politico nell'associazione camorristica, con
  l'accusa di aver favorito il rilascio della licenza a un
  istituto di vigilanza privata controllato dalla camorra.
      D'altro lato è proprio tale oggetto dell'interesse
  camorristico che sarebbe stato protetto (in concorso peraltro
  con pubblici funzionari addetti al controllo di polizia) a
  suscitare inquietanti interrogativi.
      Se venissero confermate la accuse degli inquirenti, i
  fratelli Antonio e Carlo Buglione, concessionari della polizia
  privata "La Vigilante 2" creata con capitali di provenienza
  del crimine organizzato, rappresenterebbero la punta emergente
  di un più grave fenomeno: il passaggio a forme sistematiche e
  pubbliche, perchè legalmente configurate, di attività di
  controllo del territorio, oltre che di speculazione in un
  settore delicatissimo.
      Dalla guardiania illegale l'evoluzione avrebbe condotto
  al servizio di protezione imposto sotto l'ombrello di una
  regolare licenza; dall'estorsione violenta si sarebbe arrivati
  all'intimidazione indiretta ed impersonale e con
  l'ostentazione di coperture istituzionali esplicite; dalla
  custodia clandestina di armi si sarebbe usufruito della
  possibilità di promuovere l'organizzazione legale di uomini
  armati, addestrati e accasermati; dalle bande di quartiere e
  di paese il taglieggiamento verrebbe demandato a un corpo di
  pretoriani ufficializzato.
      I legami che la DDA indica tra i titolari della
  "Vigilante 2" e la camorra di Carmine Alfieri aprono un
  panorama di accertamenti, da condurre in modo analitico, su
  una delle forme in cui può manifestarsi la legittimazione
  della forza di intimidazione del vincolo mafioso sul
  territorio e, in particolare, su categorie bersaglio
  privilegiato dell'estorsione, quali i piccoli imprenditori.
  Laddove infatti lo Stato non è in grado di garantire la
  sicurezza dei beni, e dunque concede a dei privati di
  surrogarne il ruolo con l'organizzazione di servizi e di
  uomini armati, l'accaparramento della vigilanza privata da
  parte dell'associazione criminale rappresenta, per così dire,
  la conclusione di un processo circolare: la consacrazione di
  un'area di contropotere del crimine.
  5 Rapporti collusivi tra criminalità e politica in Puglia.
      5.1 In tutta la Regione si è registrato un
  condizionamento diffuso e talvolta una vera e propria
  collusione tra esponenti politici e l'organizzazione
 
                              Pag. 198
 
  criminale denominata Sacra Corona Unita, tale che,
  per quanto questa organizzazione non presenti le
  caratteristiche di radicamento profondo, consolidato e
  pervasivo di ogni strato sociale da esercitare un controllo di
  tutte le attività del territorio, come nelle regioni fin qui
  esaminate, ha comunque fatto sentire i suoi effetti negativi,
  in particolare nel settore degli appalti di opere pubbliche,
  dello smaltimento dei rifiuti, delle frodi comunitarie e
  soprattutto nel settore della sanità privata.
      5.2 Emblematica, infatti, del sistema affaristico
  clientelare tra classe politica, criminalità organizzata e
  imprenditoria, è la vicenda della gestione delle Case di Cura
  riunite a Bari, oggetto di indagine, e in parte già conclusa
  con la verifica processuale, della Direzione Distrettuale
  Antimafia di quel capoluogo.
      Lo scorso 1^ luglio il tribunale di Bari ha inflitto, con
  giudizio abbreviato, a Francesco CAVALLARI, titolare e
  amministratore della suddetta struttura sanitaria, la pena di
  22 mesi di reclusione per numerosi reati di tipo societario e
  fiscale e per associazione per delinquere di tipo mafioso.
      L'esiguità della pena è dovuta alla collaborazione del
  CAVALLARI che dopo il suo arresto, nel luglio 1994, ha reso
  agli inquirenti ampie dichiarazioni che hanno consentito di
  ripercorrere tappe e collusioni della illecita e rapida
  carriera del Cavallari stesso.
      Costui, approfittando del momento di particolare crisi in
  cui versava il servizio sanitario pubblico e in particolare il
  policlinico di Bari, di cui peraltro furono chiusi con
  interventi della Autorità Giudiziaria alcuni padiglioni negli
  anni 1983/84, e agevolato da una legislazione statale che
  negli anni '70 era diretta a favorire l'iniziativa privata nel
  settore sanitario, iniziata la sua attività come semplice
  rappresentante, si inseriva nella imprenditoria sanitaria,
  fondando nel 1976 la società "Nova Salus" e nel 1978 le "Case
  di Cura riunite s.r.l.".
      Nel giro di pochi anni Cavallari riuscì poi ad acquisire
  otto cliniche private e a costruirne due nuove, grazie anche
  al momento parimenti favorevole offerto da una classe politica
  prevalentemente protesa ad affermare il proprio potere
  personale anche contro l'interesse generale, che gli
  consentiva appunto di sviluppare la sua politica
  imprenditoriale con metodi clientelari e truffaldini e accordi
  di tipo mafioso.
      L'accordo stretto da Cavallari, da un lato con politici
  disponibili e corrotti, dall'altro con la criminalità
  organizzata operante nel territorio cittadino gli apportava un
  duplice vantaggio: il controllo, attraverso l'organizzazione
  criminale, della propria struttura imprenditoriale
  dall'interno contro ogni manifestazione di dissenso; la
  possibilità di far convogliare, sempre tramite quella
  organizzazione, i voti a quei candidati che, in elezioni
  politiche e/o amministrative, gli avessero garantito di
  ricambiare l'illecito sostegno ricevuto con cospicui vantaggi
  economici di svariate decine di miliardi in danno della
  Regione Puglia.
      Questo sistema veniva mantenuto da Cavallari anche
  accrescendo enormemente il numero dei dipendenti delle C.C.R.,
  arrivati ad un ammontare di 2260, alla data dell'accertamento
  del 18/11/1993, a
 
                              Pag. 199
 
  fronte di 984 posti letto.  Tra il personale molti collegati
  alla criminalità organizzata, molti i detenuti e relativi
  familiari, molti fatti assumere da sponsor malavitosi, che non
  solo percepivano indebitamente lo stipendio non essendo quasi
  mai o mai presenti sul posto di lavoro, ma percepivano anche
  somme aggiuntive per le più diverse causali.
      Pertanto, per quanto Cavallari potesse fare ricorso ai
  metodi mafiosi della criminalità organizzata per intimidire la
  concorrenza, così come nel caso della clinica privata Villa
  Anthea, i cui titolari furono in pratica costretti a cedere
  l'impresa, per "risolvere" controversie sindacali e di lavoro,
  tuttavia il gruppo societario facente a lui capo, viveva in
  una precaria situazione finanziaria.  Egli, infatti non solo si
  era trovato ad affrontare un maggior costo economico per il
  personale in esubero e nullafacente dell'importo di decine di
  miliardi, ma anche ad accollarsi un ulteriore aggravio
  determinato dal ricorso massiccio al credito bancario.
      Un quadro assolutamente inquietante e anche sconcertante
  per l'interrogativo di come tali fatti possono essersi
  protratti per molti anni, tanto più ove si consideri che già
  dal 1986 erano state avviate indagini sulla base di denunce e
  altri indizi, ma conclusesi con formale proscioglimento
  istruttorio.
      5.3 Parimenti emblematica dell'esistenza di sacche di
  interazioni delittuose tra esponenti politici, imprenditori e
  malavita organizzata è il caso dell'incendio del teatro
  Petruzzelli a Bari, per il cui ex gestore Francesco Pinto è
  stato richiesto il rinvio a giudizio dalla DDA di Bari a fine
  luglio 1995 per il reato, tra gli altri, di associazione di
  tipo mafioso con associati alla criminalità organizzata
  locale.
      A prescindere dall'esito del procedimento non può non
  sottolinearsi la serie concatenata degli atti di corruzione
  esercitata sugli organi di controllo della Pubblica
  Amministrazione.
      La vicenda, peraltro molto complessa negli accertamenti,
  trova la sua origine negli interessi convergenti di politici,
  amministratori e imprenditori locali di trasformare il teatro,
  ad incendio avvenuto, da proprietà privata in ente pubblico,
  al fine di ottenere l'accesso ai finanziamenti per gli enti
  lirici, elargiti dall'allora Ministero del Turismo e dello
  Spettacolo.
      Interessi questi, secondo l'accusa, che andavano peraltro
  a convergere con gli interessi specifici del Pinto, oberato da
  ingenti debiti e costretto a prestito usuraio, che pure bene
  introdotto nel mondo politico, manteneva frequentazioni con
  ambienti della criminalità organizzata.
      5.4 Si richiama anche la vicenda dell'imprenditore
  Casillo, già citata nell'ambito delle collusioni criminali in
  Campania, per il quale la magistratura di Foggia nel 1985
  aveva individuato i collegamenti con la camorra.  Le indagini
  all'epoca furono ostacolate da probabili pressioni, tant'è che
  solo dopo quasi 10 anni i magistrati della DDA di Napoli hanno
  ripreso, con risultati positivi, il procedimento per
  associazione a delinquere di stampo mafioso a carico del
  Casillo e altri.
      5.5 Non può non menzionarsi il caso dell'attuale sindaco
  di Taranto Giancarlo Cito, già sospeso dalla sua carica di
  consigliere comunale nel 1993 per i suoi numerosi trascorsi
  penali e rinviato a giudizio
 
                              Pag. 200
 
  nell'autunno del 1994., per favoreggiamento e concorso in
  omicidio volontario.
      Nel provvedimento si fa riferimento alla collusione del
  Cito con al criminalità organizzata della provincia ed in
  particolare con il clan dei fratelli Riccardo e Gianfranco
  Modeo.
      Sicuramente una vicenda controversa nel merito delle
  accuse, nelle quali è inopportuno entrare, ma dalla quale
  comunque è opportuno trarre un motivo di riflessione circa la
  compatibilità di un mandato elettivo con simili ipotesi di
  accusa, fondate o meno che siano, e la inadeguatezza della
  normativa al riguardo.
      Le inchieste intraprese dalle DDA di Bari e di Lecce
  dalla primavera del 1993 consentono di ricavare le
  caratteristiche di un modello molto evoluto ed originale di
  connessione tra ceto politico, settori imprenditoriali anche
  di dimensioni monopolistiche e organizzazioni criminali sul
  territorio.
      5.6 La relazione approvata nel 1993 dalla Commissione
  nella XI Legislatura denunciava "segnali di interferenze della
  criminalità organizzata nella vita politica; segnali che vanno
  nella direzione della collusione tra presenze criminali ed
  amministratori pubblici (vi sono casi di amministrazioni
  disciolte e di amministratori sospesi) ovvero nella direzione
  opposta e cioè nelle intimidazioni nei confronti di quegli
  amministratori che cercano di creare fronti comuni contro la
  criminalità (comuni di Francavilla Fontana, Cellino,
  Torchiarolo, Sandonaci, S. Vito dei Normanni)".
      Quanto agli "organi preposti al controllo" - proseguiva
  la relazione - "non appaiono in grado di incidere, in modo
  determinante, sulla correttezza sostanziale dell'attività
  delle Amministrazioni controllate".
      Due anni dopo il panorama presenta dei significativi
  cambiamenti.  Si è interrotta, a quanto sembra, la spirale di
  violenze dirette agli amministratori locali.  Sono state
  disciolte altre amministrazioni locali (Gioia del Colle,
  Modugno, Trani, Terlizzi) ed è stata prolungata la gestione
  commissariale di altre.
      Alcune inchieste in corso segnalano tuttavia la
  persistenza di legami tra ex appartenenti alla classe politica
  e la criminalità comune.  Uno dei settori in cui tale incontro
  si verifica è quello dell'usura (caso dell'ex parlamentare
  Visibelli).
  6.  Una costante: lo stragismo mafioso.
      6.1 Con gli attentati della primavera-estate del 1993 si
  è avuta la dimostrazione ulteriore di come il modus operandi
  della criminalità di tipo mafioso comprenda, in particolari
  congiunture, il ricorso all'attentato stragista.
      Nei casi in cui si è manifestato il ricorso alla
  carneficina indiscriminata, affiora un tratto comune: la
  strage come comunicazione dissuasiva rivolta alla "politica"
  affinchè intervenga per bloccare delle indagini in corso sul
  crimine organizzato, quando esse presentano rischi tali da
  ledere interessi strategici delle cosche.
      E' risultato essere di questa natura la reazione di Cosa
  Nostra, dopo che la risposta istituzionale segnò una svolta
  storica nel settembre
 
                              Pag. 201
 
  del 1984 quando l'Ufficio istruzione del Tribunale di
  Palermo emise gli ordini di cattura per oltre 400 affiliati a
  Cosa Nostra.  La mafia siciliana replicò con una carneficina,
  consumata il 23 dicembre 1984 sul treno Rapido 904.  Una
  sentenza passata in giudicato ha messo in evidenza che
  l'attentato fu realizzato mediante la cooperazione tra Cosa
  Nostra (per il tramite di Giuseppe Calò, componente della
  Commissione di quella organizzazione), la camorra e settori
  del terrorismo di destra.  Di recente si sono riaperte le
  inchieste per l'attentato al treno nei pressi di Reggio
  Calabria, in concomitanza con i violenti disordini del 1970
  nella città.  Egualmente in questo caso si indaga sulla
  cooperazione tra 'ndrangheta ed eversione.
      Anche in altre regioni la criminalità organizzata ha
  compiuto dei tentativi di strage ai danni di viaggiatori sui
  treni, come è stato constatato nel 1991 in provincia di
  Lecce.
      Da numerosi processi emergono diversi elementi che fanno
  ritenere lo stragismo un'ulteriore modalità di aggressione
  delle "mafie", tra gli altri esempi vale menzionare come anche
  nel procedimento che trae spunto a Napoli dalle indagini sugli
  appalti ricevuti dall'impresa camorrista AGIZA si trovano
  riferimenti sull'ipotesi stragista (in questo caso di Cutolo
  nel 1979) come modalità di interlocuzione con il personale
  politico collegato: nel caso di "tepidezza" nell'assicurare
  protezione o neutralità giudiziaria verso l'associazione
  mafiosa.
      E' impressionante come l'ipotesi della strage a scopo
  dimostrativo sia stata presa in esame più volte in circa 20
  anni (ve n'è traccia anche nell'inchiesta sul banchiere
  Sindona).  Con la sentenza definitiva per la strage del 23
  dicembre 1984 è divenuta una tesi giuridicamente confermata.
  Anche lo sviluppo delle recenti indagini sugli attentati della
  primavera-estate del 1993 ripercorre uno schema incentrato
  sull'"avvertimento".
      La strage come mezzo di annientamento degli avversari
  resta comunque una costante nella storia della mafia: da
  Ciaculli (1963) a Viale Lazio (1970) fino alle autobomba per
  eliminare i magistrati titolari di inchieste (Chinnici,
  Palermo, Falcone, Borsellino).
      Se risulterà fondata l'attribuzione a Cosa Nostra della
  responsabilità delle devastazioni a Roma in via Fauro e alle
  Chiese di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano, a
  Firenze all'Accademia dei Georgofili e in via Palestro a
  Milano, dovranno essere valutate le implicazioni che rinviano
  a nuove modalità di regolazione dei rapporti con la politica:
  dalla collusione al conflitto.
  6.2  Gli attentati del 1993
      Il 28 luglio 1995 la Commissione ha dedicato una seduta
  all'approfondimento della "questione stragi" dell'estate 1993,
  ascoltando il Procuratore della Repubblica di Firenze, che
  tratta unitariamente, per competenza, tutti quegli episodi.
      Il Procuratore che in quella sede ha fornito alla
  Commissione ulteriori atti processuali, oltre quelli già
  inviati compatibilmente con lo stato delle indagini ed il
  correlato segreto che allo sviluppo di esse si impone, ha
  ribadito, come già in precedente audizione, che tutti gli
  episodi, secondo concordanti dichiarazioni di collaboratori di
  giustizia, configurerebbero un'azione di pressione sullo Stato
  per variare le
 
                              Pag. 202
 
  norme del regolamento penitenziario ed in particolare il
  regime dell'art. 41-bis.
      In particolare il Procuratore della Repubblica di Firenze
  sottolinea come questi episodi stragisti attuino una strategia
  di livello diverso rispetto a quello tradizionale, consistita:
  nell'agire con attentati, molto complessi eppure ben
  organizzati nella loro attuazione, fuori della Sicilia;
  nell'avere fatto proprie tecniche e modalità di terrorismo
  indiscriminato; nell'avere mutato obiettivo dalle persone alle
  cose di interesse artistico in quanto, nella loro
  insostituibilità, avrebbero recato un danno irreparabile allo
  Stato.  Peraltro le motivazioni in alcuni episodi si
  diversificano: l'attentato alle chiese sopraindicate in Roma,
  avrebbe dovuto essere la risposta alla posizione del Pontefice
  di netta e accesa condanna della mafia, espressa nel suo
  viaggio in Sicilia nel maggio 1993; l'attentato a Maurizio
  Costanzo sarebbe stato diretto a colpire il giornalismo
  "antimafia", avendo il medesimo manifestato, nel corso di una
  trasmissione televisiva, il proprio compiacimento per
  l'arresto di Riina e avendo sottoposto a domande considerate
  "imbarazzanti" una donna della famiglia Madonia.  Trattandosi
  di fatti che, al di là della individuazione degli autori
  materiali, presentano una grande complessità per quanto
  attiene la ideazione degli stessi, stante il carattere di
  assoluta novità che presentano il Procuratore della Repubblica
  di Firenze ha riferito di avere operato un altro fascicolo
  processuale nel quale raccogliere tutti gli elementi utili ad
  accertare la più ampia strategia ad essi sottesa, gli
  strateghi e le convergenze di interessi diversi.
  6.3  Lo stragismo della 'ndrangheta.
      Lo sviluppo delle indagini della DDA di Reggio Calabria
  (Operazione Olimpia, luglio 1995) consolida un'ipotesi che
  prese corpo nel 1984 dall'istruttoria del c.d. maxiprocesso di
  Palermo: la tessitura di una trama tra settori dell'eversione
  di destra e la mafia.  Riattribuendo le responsabilità per
  l'attentato stragista che nella primavera del 1970 fece
  numerose vittime nei pressi di Gioia Tauro tra i passeggeri
  del treno "Freccia del Sud", la Procura reggina individua un
  collegamento tra la cooperazione 'ndranghetista-eversione
  neofascista in occasione della rivolta per l'attribuzione del
  capoluogo di regione, e il tentativo del capo del Fronte
  Nazionale (gruppo di estrema destra) Junio Valerio Borghese di
  ottenere dal boss Luciano Liggio la partecipazione di Cosa
  Nostra al golpe programmato per l'8 dicembre del 1970.  Di
  queste vicende parlò, in udienza, il collaboratore di
  giustizia Tommaso Buscetta.  Esse vennero, involontariamente,
  confermate dallo stesso Liggio nel corso di un confronto con
  il primo disposto nell'aula del processo dal presidente della
  Corte d'assise.
      Il sabotaggio del treno "Freccia del Sud", e le vittime
  innocenti che provocò, suggellarono l'avvio di un legame che
  in diverse occasioni si è riattualizzato.  In ogni caso
  affermarono una delle vocazioni che troveranno espressione
  negli anni successivi: la strage come monito allo stato e, al
  tempo stesso, espressione di una collusione con i settori
  deviati degli apparati pubblici.
 
                              Pag. 203
 
  7.  La presenza della criminalita' organizzata negli enti
  locali.  La congruità della normativa sullo scioglimento dei
  consigli comunali.
      7.1 Nel corso di questa legislatura la Commissione
  parlamentare antimafia ha visitato quindici comuni di cui
  quattro in Sicilia; sei in Calabria; tre in Campania; due in
  Puglia.
      Ha, inoltre, esaminato le realtà locali di altri sedici
  comuni in Calabria, e quindici in Campania, per un totale,
  quindi, di quarantasei comuni.
  (12) In Sicilia sono stati visitati
  i Comuni di Gela, Coerleone San Giuseppe Jato e Niscemi.
      In Calabria la Commissione si è recata a Reggio Calabria,
  Catanzaro, Crotone, Locri, Palmi e Vibo Valentia.  Inoltre sono
  stati sentiti i capi delle amministrazioni (sindacati e
  commissari straordinari) dei comuni di Gioia Tauro, Molochio,
  Lametia Terme, Isola Capo Rizzuto, Cutro, Cirò Marina, Petilia
  Policastro, Stefanaconi, Cessaniti, Nicotera, Rombiolo,
  Limbadi, Acquaro, Arena, Serra san Bruno e San Calogero.
      In Campania La Commissione ha visitato Caserta, Napoli e
  Salerno ed ha sentito gli amministratori (sindaci e commissari
  straordinari) di Santa Maria Capua Vetere, Casal di Principe,
  Aversa, San Cipriano di Aversa, Pignataro Maggiore, Villa
  Literno, Acerra, San Antonio Abate, Torre Annunziata, San
  Antimo, Giugliano, Casandrino, Nocera Inferiore, Scafati e
  Pagani.
      In Puglia la commissione si è recata a Bari ed a
  Lecce.
      In tali Comuni si è proceduto all'audizione di sindaci,
  assessori comunali, consiglieri comunali, commissari
  straordinari, realtà socio-economiche locali.
      Sono state redatte relazioni specifiche sui comuni di
  Niscemi, San Giuseppe Jato, Corleone e Gela per la Sicilia;
  Reggio Calabria e Catanzaro per la Calabria; sulla Campania e
  sulla Puglia.
      Dall'inizio della legislatura sono stati sciolti per
  infiltrazioni mafiose negli organi elettivi, - sulla base
  delle disposizioni contenute nel D.L. 31 maggio 1991, n. 164,
  convertito nella legge n. 221 del 22 luglio 1991 - n.7
  consigli comunali.
  (13) Si ritiene utile riportare stralci del testo della
  disposizione di legge:
      "1 - Fuori dei casi previsti dall'art. 39 della legge 8
  giugno 1990, n.142, i consigli comunali e provinciali sono
  sciolti quando, anche a seguito di accertamenti effettuati a
  norma dell'art. 14, comma 5, emergono elementi su collegamenti
  diretti ed indiretti degli amministratori con la criminalità
  organizzata o su forme di condizionamento degli amministratori
  stessi, che compromettono la libera determinazione degli
  organi elettivi e il buon andamento delle amministrazioni
  cimunali e provinciali, nonchè il regolare funzionamento dei
  servizi alle stesse affidati ovvero che risultano dati da
  arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della
  sicurezza pubblica.  OMISSIS
      2 - Lo scioglimento è disposto con decreto del Presidente
  della Repubblica, su proposta del Ministro dell'Interno,
  previa deliberazione del Consiglio dei Ministri OMISSIS
      3 - Il decreto di scioglimento conserva i suoi effetti
  per un periodo da dodici a diciotto mesi e nei novanta giorni
  successivi si procede al rinnovo degli organi.  OMISSIS
      4 - Con il decreto di scioglimento è nominata una
  commissione straordinaria per la gestione dell'ente...
  OMISSIS
      5 - quando ricorrono motivi di urgente necessità, il
  prefetto, in attesa del decreto di scioglimento, sospende gli
  organi dalla carica ricoperta, nonchè da ogni altro incarico
  ad essa connesso, assicurando la provvisoria amministrazione
  dell'ente mediante invio di commissari." OMISSIS.
      Dall'entrata in vigore della predetta normativa, sono
  stati complessivamente sciolti per fatti legati ad
  infiltrazioni mafiose ben 83 consigli comunali di cui 24 in
  Sicilia, 36 in Campania, 21 in Calabria, 7 in Puglia, 1 in
  Basilicata ed 1 in Piemonte.
  (14) Per l'elenco dei consigli
  disciolti per infiltrazioni mafiose si rimanda al documento
  n.625 acquisito dalla Commissione in data 14 luglio 1995
  protocollo n.3000.
 
                              Pag. 204
 
      Per 61 Comuni si sono tenute nuove elezioni
  amministrative e si è tornati a gestione ordinaria A tutt'oggi
  sono ancora in regime di commissariamento n.22 consigli
  comunali.
      7.2 I dati come sopra proposti indicano che, nel corso
  dell'ultimo biennio vi è stato un progressivo ridursi dei
  provvedimenti di scioglimento.  A fronte di tale dato la
  Commissione deve interrogarsi sulle ragioni della contrazione
  del fenomeno e cioè se essa sia stata causata da una sorta di
  risanamento della vita amministrativa locale, da una maggiore
  oculatezza degli elettori nella scelta dei candidati ; da
  modificazioni esterne causate dal mutamento del quadro
  politico generale ovvero da una crisi dello strumento dello
  scioglimento e quindi ad un ripensamento sull'efficacia della
  stessa normativa antimafia contemplante le specifiche sanzioni
  nei confronti degli enti locali.
      Probabilmente la risposta più congrua al quesito è nel
  senso che vi è stato un concorso delle varie cause sopra
  indicate a determinare il fenomeno.  Tuttavia i dati obiettivi
  raccolti in occasione dell'osservazione di singole realtà
  locali, impongono un esame più puntuale.
      7.3 Occorre, innanzitutto, tentare - sulla base di una
  attenta lettura dei decreti di scioglimento,- uno screening
  dei motivi che hanno determinato il provvedimento, o, meglio,
  analizzare le peculiarità che hanno caratterizzato le singole
  amministrazioni, ricercando - al di là delle vere e proprie
  attività criminali - i tratti comuni dell'amministrare
  mafioso.
      Si tratta di un processo ricognitivo che si ritiene
  indispensabile perchè soltanto attraverso la piena
  comprensione delle complesse procedure di appropriazione da
  parte della criminalità organizzata di una intera
  amministrazione, ci si può dotare di adeguati strumenti di
  contrasto.  Ed anche perchè, considerata la gravità della
  sanzione che, di fatto consiste in una sospensione della
  democrazia rappresentativa, occorre ricercare e dettare
  criteri uniformi per non lasciare alla mera discrezionalità
  dei prefetti la possibilità, o no, di intervenire nella
  delicatissima materia.
      Occorre individuare, quindi, (utilizzando un processo
  cognitivo per quanto possibile neutrale) gli  indici  che
  esprimono la  mafiosità  ed il grado di penetrazione
  nell'ente locale; i parametri per misurare - al di là di ogni
  possibile arbitrio - i livelli di condizionamento da parte
  della criminalità organizzata sulla vita istituzionale e sulle
  opzioni politiche degli enti territoriali.
      7.4 Va, preliminarmente, premesso che le organizzazioni
  criminali di stampo mafioso, anche là dove godono di un totale
  controllo del territorio, non possono prescindere da una sorta
  di consenso sociale da parte della popolazione residente che,
  in una certa misura deve interpretare la presenza mafiosa
  anche in chiave di scambio tra reciproche utilità.
      Ed, infatti, l'organizzazione criminale, oltre ad
  garantire una sorta di pax mafiosa (che, normalmente viene
  turbata solo quando i vari clan hanno motivi di conflitto
  territoriali) assicura, attraverso un modello amministrativo
  che appare ricorrere in tutte le entità colpite dai
  provvedimenti di scioglimento, vantaggi ed una sorta di
  benefit  alla cittadinanza
 
                              Pag. 205
 
  che, in qualche modo, si ritiene compensata dalla
  compressione di talune libertà.
      L'esame dei bilanci e delle gestioni dei comuni disciolti
  presentano tutti, infatti, le seguenti caratteristiche:
        - non vengono riscossi (nella totalità o parzialmente)
  i tributi comunali, soprattutto quelli relativi alla raccolta
  ed allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, alla erogazione
  dell'acqua e della elettricità;
        - non vengono erogate sanzioni di carattere
  amministrativo e non vengono notificati processi verbali di
  accertamento da parte di altri organi;
        - non vengono effettuati controlli sul pagamento delle
  tasse di proprietà dei veicoli e sui canoni televisivi;
        - vengono effettuate numerose assunzioni di personale
  precario (per pochissimi mesi, con incarichi rinnovati più
  volte, il che genera la necessità di dovere continuamente
  rivolgersi al proprio protettore) per l'espletamento di molti
  servizi comunali.  Ciò, nonostante gli organici dei comuni
  rimangano perennemente carenti;
          - non vengono varate le normative secondare (piani
  regolatori, regolamenti di polizia urbana, regolamenti per
  l'esercizio delle attività artigianali e del commercio) sicchè
  viene consentito a tutti di praticare (con il consenso delle
  famiglie egemoni, con il pagamento della tangente ovvero, più
  semplicemente, con il complice silenzio delle autorità locali)
  il più ampio abusivismo in tutti i settori.
      Tutti questi fattori, oltre che a coinvolgere gran parte
  della cittadinanza nella pratica della illegalità, hanno
  creato un oggettivo cemento di interessi intorno al modello
  dell'amministrare mafioso generando, talvolta, vere e proprie
  resistenze al ripristino delle situazioni  legali,
  ritenute lesive delle situazioni di  vantaggio
  conseguite
  (15) Nel corso delle varie audizioni tenute con
  gli amministratori
  dei comuni disciolti (Gioia Tauro, Molochio,
  Casal di Principe, Acerra San Antonio Abate, Torre Annunziata,
  Casandrino, Nocera inferiore)i commissari straordinari hanno
  denunciata una vera e propria opera di boicottaggio da parte
  della burocrazia municipale ed una carenza a collaborale da
  parte della cittadinanza che, in molte occasioni, ha accolto
  con vive preteste i provvedimenti adottati per sanare le
  situazioni più compromesse.  Spesso all'adozione dei piani
  regolatori od al varo di regolamenti comunali diretti a
  disciplinare il commercio ed i servizi comunali, sono seguite
  vere proprie sollevazioni popolari da parte di settori che
  ormai da tempo hanno organizzato la propria attività economica
  e la loro stessa esistenza intorno all'abuso ed alla
  violazione della legge.  Spesso è stato invocato il ripristino
  del vecchio status quo ed in alcuni casi è stata rieletta la
  vecchia classe dirigente, sciolta con i provvedimenti
  antimafia.
  La logica di scambio domina quindi, nelle zone
  fortemente caratterizzate dalla presenza mafiosa dove alla
  rivendicazione dei propri diritti si preferisce ricorrere alla
  protezione ed alla collusione.  Il regime di illegalità trova
  un compenso nel favore; l'estorsione ed il pizzo trovano
  compenso nella evasione fiscale.
      7.5 Da parte sua, la mafia, non si contenta soltanto di
  esercitare la sua azione di governo nell'ente locale.  Non
  rinuncia alla sua vocazione affaristica e l'occasione
  dell'amministrare offre lo spunto per ulteriori intrecci con
  la politica e con l'imprenditoria.
      Nei comuni ad accertata presenza mafiosa normalmente sono
  espresse forze politiche che si rifanno a partiti di governo;
  le opposizioni
 
                              Pag. 206
 
  sono quasi nulle e, quando ci sono, si esprimono in
  forme deboli.  Vi è una sostanziale situazione di monopolio (o
  di oligopolio) tra le famiglie egemoni nell'assunzione degli
  appalti di opere pubbliche e dei servizi.  Il livello dei
  servizi (di qualità mediamente bassissima) presenta costi
  altissimi.  La burocrazia comunale è, normalmente asservita
  alle amministrazioni mafiose (spesso è composta di parenti e
  di affiliati alle organizzazioni assunti con sistemi
  clientelari) e gode anch'essa di particolari favori e
  riconoscimenti.
      In molti dei comuni visitati dalla commissione la
  burocrazia comunale si è mostrata ostile ai commissari
  straordinari e non ha prestato alcuna collaborazione ai
  tentativi di sanare i gravissimi dissesti finanziari delle
  amministrazioni disciolte.  Quasi tutti gli amministratori
  straordinari e gli stessi sindaci sono stati concordi
  nell'individuare nel continuismo assicurato dal personale
  comunale, il vero ostacolo ad una radicale opera di
  risanamento amministrativo.
      E' da notare, infatti, che sotto il profilo politico con
  il nuovo sistema dell'elezione diretta dei sindaci, i
  responsabili delle amministrazioni hanno trovato una
  legittimazione più forte ad intervenire in settori delicati
  della vita amministrativa della città.  Ma tale legittimazione
  si scontra con una organizzazione degli uffici ed una
  direzione tecnica che (sia per incapacità che per calcolo)
  bloccano qualsiasi iniziativa, creano ostacoli di carattere
  burocratico ed impediscono l'ingresso di qualsiasi elemento di
  maggiore trasparenza e di novità.
  (16) Di recente, nel corso
  della seduta del 4 luglio 1995, la Commissione ha approvato la
  relazione sul comune di Niscemi il cui caso è stato indicato
  come emblematico per la lettura dei complessi rapporti
  politico-amministrativi esistenti negli enti locali dopo lo
  scioglimento ed il periodo di commissariamento, anche quando
  le nuove amministrazioni vengono elette da forze espressione
  di una forte carica di cambiamento.  A Niscemi non è bastato un
  sindaco eletto quasi all'unanimità, le vecchie presenze
  politiche colluse con la mafia si fanno ancora sentire nel
  consiglio e la loro continuità è assicurata da una burocrazia
  ancora fortemente condizionata da passati amministratori.
      7.6 Pur se non si ritiene di avere esaurito la delicata e
  complessa indagine sugli enti locali, il campione di comuni
  esaminato è, tuttavia, sufficientemente ampio da consentire di
  trarre significative conclusioni: a) sullo stato della
  penetrazione mafiosa negli enti locali; b) sull'adeguatezza
  degli strumenti di contrasto attualmente esistenti.
          a)  Circa la presenza della criminalità
  organizzata negli enti locali, la Commissione, sulla base
  della nuova documentazione acquisita e, soprattutto, sulla
  base dei dati e degli elementi presenti nelle relazioni
  prefettizie che accompagnano i decreti di scioglimento, non
  può che confermare le puntuali analisi svolte nel corso della
  precedente legislatura.
  (17) Nella "relazione sulle
  amministrazioni comunali disciolte in Campania, Puglia,
  Calabria e Sicilia" approvata nella seduta del 30 marzo 1993
  (Doc. XXIII, n.5 - XI legislatura) si legge: "...  Abbiamo
  disegnato uno scenario allarmante del logoramento di
  istituzioni locali che hanno subito un assalto da parte dei
  poteri criminali: non c'è soltanto l'ambiguità del contatto
  fra mafia incombemte e politici succubi, vi è l'esproprio
  delle decisioni, vi è l'assunzione di una gestione diretta da
  parte delle cosche criminali; vi è, insomma, la presenza di
  mafiosi nei consigli comunali, nelle giunte, nelle aziende
  dipendenti fra il personale ammìnistrativo.  Vi è il disarmo
  della politica come confronto tra progetti diversi, come
  antenna delle tensioni e dei movimenti della società:
  l'attività delle assemblee elettive in questa realtà è ridotta
  alle ragioni di scambio fra l'egemonia criminale ed un
  personale politico amministrativo disposto ad ogni transazione
  per trarre profitti e rassegnato ad essere il comitato di
  gestione degli affari malavitosi....."
      Sulla stessa tematica si veda, anche la relazione
  " Camorra e Politica " approvata dalla Commissione
  parlamentare antimafia (XI legislatura) il 21 dicembre 1993,
  paragrafo 18: "Il blocco politico camorrista negli enti
  locali".
   A tutt'oggi, nonostante il significativo elemento
  di novità intervenuto nel sistema (elezione diretta del
  sindaco) segnali di risanamento
 
                              Pag. 207
 
  e di moralizzazione della vita politica locale che
  denuncino una vera inversione di tendenza, sono troppo deboli
  e non sempre è agevole riconoscerli.  Peraltro, si deve
  doverosamente notare che il nuovo sistema ha trovato
  applicazione in una contingenza storica non certo favorevole
  alle amministrazioni locali che, a causa della grave crisi
  economica del Paese, hanno visto ridursi considerevolmente le
  loro capacità operative, con contrazione, in particolare,
  delle quantità e delle qualità dei servizi finanziati
  totalmente (o quasi) con la finanza di trasferimento.
          b)  L'indagine sulla adeguatezza degli strumenti
  di contrasto, non può che incentrarsi sulla normativa
  specifica che disciplina la lotta alla criminalità organizzata
  negli enti locali.
      Si è già detto che il legislatore del 1991,
  nell'intervenire nella materia con la legge n.221/1991 (legge
  di conversione del D.L. n.164/1991) aveva fatto la
  delicatissima e sofferta scelta di sospendere, nelle realtà
  mafiose, i momenti di democrazia diretta sciogliendo le
  assemblee elettive.  Sanzioni gravissime che avrebbero dovuto
  essere state accompagnate da tutta una serie di iniziative di
  supporto alle amministrazioni straordinarie al fine di potere
  creare condizioni per il ripristino delle normali situazioni
  del corretto amministrare e del vivere civile, nonchè per
  restituire alle popolazioni colpite la possibilità di
  scegliere i loro amministratori.
      E' successo, invece, che le prefetture si sono trovate a
  dovere reperire negli già inadeguati organici del proprio
  personale, amministratori straordinari che avrebbero dovuto
  possedere esperienze e professionalità elevatissime per potere
  incidere nelle degradate e difficili realtà locali dove erano
  destinati a dovere operare.  Sono stati, così, mandati allo
  sbaraglio funzionari statali inesperti, oberati di altri
  compiti, privi di adeguate conoscenze, isolati nel contesto
  amministrativo, carenti di incentivi e di motivazioni,
  sprovvisti di un qualsiasi collegamento e di indicazioni con
  l'amministrazione centrale.  Il più delle volte sono stati dei
  veri e propri ostaggi nelle mani della burocrazia comunale che
  li ha portati spesso ad assumere determinazioni sulla base di
  non corrette rappresentazioni delle situazioni amministrative.
  L'amministrare dei commissari si è così risolto (a parte
  alcuni encomiabili casi) in una sostanziale stasi di tutte le
  attività; in una sorta di imbarazzata e preoccupata tutela
  dell'esistente; in una diffidente e sterile attività di
  vigilanza; in un improduttivo scontro con la burocrazia.
      In tale situazione, la popolazione - anche quella che
  aveva salutato come una liberazione l'avvento dei commissari -
  non è riuscita a cogliere gli elementi di risanamento e di
  moralizzazione della vita cittadina che ci si aspettavano dopo
  i traumatici decreti di scioglimento.  Anzi, è giunta alla
  conclusione che la gestione commissariale, interdicendo (per
  quanto possibile) le attività illecite, ha di fatto bloccato
  il
 
                              Pag. 208
 
  volano delle attività illegali che fungevano da
  moltiplicatore economico alla gestione mafiosa ulteriormente
  compromettendo la precaria occupazione e le scarse occasioni
  di guadagno.
      Sta di fatto che in numerosi comuni dove gli organismi
  elettivi sono stati rinnovati dopo il commissariamento, si
  sono sostanzialmente riproposte le vecchie coalizioni di
  famiglie colluse con la politica locale e si è continuato con
  la collaudata pratica dell'illegalità diffusa, con la ricerca
  del favore, con la clientela e con l'abuso.  E questo anche là
  dove l'elettorato ha espresso chiaramente la volontà di farla
  finita con l'amministrare mafioso; in quelle realtà, cioè,
  dove i ballottaggi per la carica di sindaco hanno favorito di
  larga misura il candidato portatore delle istanze
  moralizzatrici.  Vedasi, per tutte, l'esperienza del comune di
  Niscemi, dove la carica di servizio e di sacrificio del
  sindaco eletto a suffragio universale, deve spesso soccombere
  di fronte alla tiepidezza di una burocrazia ancora fortemente
  legata all'antico (e munifico) regime ed ad un consiglio
  comunale in gran parte ancora espressione di quelle stesse
  forze politiche che con lo scioglimento si volevano
  espungere.
      L'osservazione delle esperienze di molteplici comuni
  disciolti e dei consuntivi delle gestioni straordinarie, porta
  la commissione ad opinare che è giunto il momento per
  riconsiderare criticamente la normativa sullo scioglimento dei
  consigli comunali.
      Confrontati con i modesti risultati conseguiti, appare
  troppo penalizzante privare un intero comune delle proprie
  rappresentanze democratiche.  Penalizzante anche in
  considerazione del fatto che, essendosi proceduto agli
  scioglimenti in carenza di qualsiasi criterio, spesso il
  provvedimento emesso nei confronti di un ente locale è apparso
  discriminante rispetto ad altre realtà parimenti (o
  maggiormente) compromesse, a causa della eccessiva
  discrezionalità interpretativa dei prefetti che sono divenuti
  arbitri delle sorti di assemblee elettive.  L'esperienza della
  legge n.221/1991 indubbiamente è valsa all'osservazione del
  fenomeno dei rapporti tra mafia e politica locale; è stata una
  palestra di apprendimento e la denuncia di un gravissimo
  allarme.  Ora, però, il fenomeno è manifesto; si conoscono in
  dettaglio i meccanismi dell'amministrare mafioso; sono noti
  gli intrecci di interessi e i riferimenti politici tra
  amministratori locali, imprenditoria e criminalità
  organizzata.  Occorre abbandonare la sperimentazione e colpire
  i veri elementi che assicurano la continuità nella pratica
  della illegalità che regna in molte realtà locali.  Occorre
  dotarsi di una norma che - pur nel rispetto di regole giuste -
  consenta una certa mobilità dei lavoratori comunali; occorre
  individuare procedimenti amministrativi che consentano
  l'affidamento degli appalti di opere e servizi con procedure
  prestabilite: ad esempio con prezzi equi non modificabili
  nello svolgimento dei lavori, dovendosi escludere la
  possibilità di proporre varianti in corso d'opera, con gare
  assolutamente trasparenti e comunque con altri sbarramenti,
  ben più efficaci della certificazione antimafia e con
  controlli obbligatori ad appalto acquisito sui libri contabili
  e sulle fatturazioni delle imprese.
      In questa fase storica, dopo l'esperienza dello
  scioglimento dei consigli comunali, la commissione è del
  parere che la strada da
 
                              Pag. 209
 
  seguire per una più efficace azione di contrasto
  all'infiltrazione mafiosa negli enti locali, sia proprio nella
  restituzione della piena responsabilità (penale,
  amministrativa e politica) agli amministratori ed ai
  funzionari comunali; in un rafforzamento della finanza locale
  ed in una rivitalizzazione dell'azione di controllo intesa,
  non come un notarile riscontro di una legittimità formale, ma
  come una verifica del risultato dell'azione gestoria e come
  una chiamata in causa per responsabilità in ipotesi di mancato
  conseguimento del risultato medesimo.
  8.  Il sistema dei controlli.
      8.1 L'irrisolto problema delle incompatibilità tra organi
  di governo ed organi di controllo favorisce l'intreccio di
  interessi tra politica imprenditoria.  Alta burocrazia e
  criminalità organizzata.
      La Commissione parlamentare antimafia aveva individuato,
  nella scorsa legislatura,
  (18) Vedasi la Relazione conclusiva
  approvata in data 18 febbraio 1994 (Doc. XXIII n. 14, capitolo
  III, paragrafi 56 e segg.).
  nella tematica dei controlli una
  delle "questioni strategiche per la lotta contro la mafia
  nell'immediato futuro".
      Pur se in questa prima fase della presente legislatura
  questa commissione non ha dedicato specifiche sessioni di
  lavoro allo studio delle tematiche dei controlli
  (giurisdizionali ed amministrativi), tuttavia, la
  registrazione del fitto intreccio mafia-politica-pubblica
  amministrazione-imprenditoria, impone una riflessione sul
  funzionamento dei pubblici poteri e sull'efficacia e la
  adeguatezza degli strumenti di controllo operanti nei
  confronti dei soggetti che tali poteri detengono.  Ciò,
  ovviamente, sulla base dei dati e degli elementi raccolti nel
  corso dell'osservazione della presenza del fenomeno di
  diffusione della criminalità organizzata nelle regioni
  visitate.
      La pervasività del fenomeno, infatti, non dipende
  unicamente dal grado di penetrazione militare e di controllo
  del territorio da parte del potere mafioso.  Se così fosse si
  potrebbe giungere alla conclusione che la lotta alla
  criminalità organizzata potrebbe essere vinta ed esaurirsi con
  operazioni di carattere militare e con azioni giudiziarie.  In
  tale caso dovrebbe prevalere l'opinione di coloro che
  ritengono possibile la riconquista della legalità solamente
  attraverso l'adozione di strumenti straordinari di contrasto e
  mediante la sospensione di garanzie costituzionali e di
  rappresentanze elettive.  E' una strada che è stata già
  percorsa e che - per limitare il punto di osservazione ai soli
  enti locali - ha prodotto ulteriori mortificazioni alle
  popolazioni assoggettate al controllo mafioso senza produrre
  alcun benefico e duraturo effetto sul piano della gestione
  amministrativa e della moralizzazione della vita pubblica.
      8.2 Il versante dei controlli ordinamentali costituisce,
  quindi, un punto di osservazione privilegiato per una accurata
  indagine sul funzionamento dei pubblici poteri; sui livelli di
  efficienza della loro azione, nonchè sul grado di indipendenza
  e di autonomia dei soggetti investiti di pubbliche funzioni e
  sui livelli di collusione tra questi e l'organizzazione
  mafiosa.
 
                              Pag. 210
 
      Perciò indagare sul sistema dei controlli significa non
  soltanto verificare il complessivo stato di salute delle
  pubbliche amministrazioni, ma comprendere anche le vere
  ragioni che generano il progressivo sviamento dai fini
  istituzionali ed il mancato conseguimento degli obbiettivi che
  si propone l'attività amministrativa.
      Una prima considerazione appare preliminare ad ogni altra
  riflessione: certamente non tutto ciò che non funziona è
  addebitabile ai poteri mafiosi.  Tuttavia è certo che là dove
  governa il disordine, la cattiva amministrazione e la
  disorganizzazione; là dove non esistono adeguati controlli
  ovvero vengono esercitati in forma troppo debole e con
  parametri eccessivamente discrezionali, il potere mafioso
  trova terreno favorevole per appropriarsi di settori di vita
  pubblica.
      Pertanto, la prima vera battaglia da affrontare contro la
  criminalità organizzata sta nel funzionamento dei pubblici
  poteri e nella corrispondenza dell'attività amministrativa
  alle finalità istituzionali.  Una efficace azione di contrasto
  non può, quindi, prescindere da una attività di controllo che
  riesca a comprendere e ad incidere sui risultati dell'azione
  dei pubblici poteri (indicando anche le eventuali
  responsabilità derivanti dal mancato conseguimento dei fini)
  nè può ignorare il problema della autonomia e
  dell'indipendenza dell'organo che esercita il controllo.
      8.3 Per quanto concerne il profilo della qualità
  dell'attività di controllo, va, innanzitutto, osservato che
  deve definitivamente essere dichiarata chiusa la stagione dei
  controlli di mera legittimità consistenti in riscontri di tipo
  notarile dell'atto alle astratte previsioni legislative senza
  una vera indagine sulla corrispondenza dell'azione a pubbliche
  finalità.
      E', questa una tematica sulla quale il legislatore (anche
  dietro le puntuali istanze provenienti dalle commissioni
  antimafia) è più volte intervenuto in questi ultimi anni.
  (19) Non è questa la sede per indicare i numerosi provvedimenti
  che hanno riguardato, in questi anni, il mondo dei controlli,
  giurisdizionali ed amministrativi.  Si ricordano soltanto, per
  quanto riguarda i controlli amministrativi, la legge n. 29/93
  istitutiva dei servi di controllo interno e, per quanto
  concerne i controlli giurisdizionali, le leggi di modifica
  delle attribuzioni e della articolazione della Corte dei Conti
  ed' in particolare, le leggi nn. 19 e 20 del 1994 riguardanti,
  tra l'altro, l'istituzione dei controlli di gestione e la
  verifica dei risultati nonchè la generalizzazione del
  decentramento giurisdizionale della magistratura contabile con
  istituzione, in ogni capoluogo regionale, di uffici del
  pubblico ministero contabile.  Tale ultima previsione consente
  di perseguire, con maggiore tempestività ed efficacia, le
  ipotesi di responsabilità di amministratori e funzionari
  pubblici che causano danno al patrimonio pubblico (in ultima
  analisi consente di colpire, al di là dei fatti che hanno
  rilevanza penale, i casi di cattiva gestione e di mala
  amministrazione che spesso vedono coinvolti veri e propri
  comitati di affari composti di politici, amministratori
  pubblici, imprenditori e criminalità organizzata.
      L'analisi della specifica normativa sui controlli
  riportata in nota, porta ha concludere che indiscutibilmente
  il sistema ordinamentale sembra essersi indirizzato verso
  controlli di tipo gestionale, non interdittivi dell'attività
  degli organi di amministrazione attiva e verso forme sempre
  più incisive di individuazione di responsabilità legate a
  fatti di cattiva gestione.
      E', questo della responsabilità personale degli
  amministratori e funzionari pubblici, un profilo che
  attualmente è tornato all'attenzione
 
                              Pag. 211
 
  del legislatore che sta ricercando, con provvedimenti a
  volte contraddittori, un punto di incontro tra la necessità di
  salvaguardare il potere di scelta discrezionale propria
  dell'attività gestoria pubblica e la necessità di dotare il
  pubblico ministero contabile di poteri di impulso e di un
  processo idonei a colpire le attività gestorie che,
  dolosamente o colposamente, si risolvono in danni erariali.
      Si tratta di un processo normativo in corso che, a fronte
  di un dato legislativo che indubbiamente dimostra un elevato
  livello di maturazione nel cammino di riforma
  dell'organizzazione statale, regionale e locale, deve tuttavia
  ancora registrare un non sufficiente livello di riflessione
  del legislatore sulla intera tematica dei controlli.  Tematica
  che spesso appare carente di una strategia complessiva e,
  pertanto, incapace di incidere profondamente sulle delicate
  questioni di cui qui si occupa questa commissione e cioè sui
  complessi rapporti esistenti nel Paese e in particolare nelle
  regioni del meridione, tra potere statale e potere mafioso.
      Ed infatti, nel tentativo di dare immediate risposte a
  complessi problemi di carattere organizzatorio e gestionale,
  il legislatore sta facendo fiorire, rompendo l'unitario
  disegno istituzionale (ed, a volte, costituzionale) una
  miriade di  authority  aventi il compito di controllare
  specifici settori della vita pubblica.
  (20) Si riportano,
  qui di seguito, le Autorità indipendenti che, per elementi
  costitutivi, strutturali e funzionali, sono particolarmente
  collegate al Parlamento ovvero operano in un quadro di
  esercizio in funzione di garanzia e di controllo di interessi
  di rilevanza costituzionale: " Garante per la
  Radiodiffusione e l'Editoria " (legge n:223 del 1990 e legge
  n. 515/1993 per i controlli sulle campagne elettorali);
  " Autorità Garante della Concorrenza e del
  Mercato"  (legge n.287/1990); " Commissione di Garanzia
  dell'attuazione della legge n. 146 del 1990 sullo sciopero nei
  servizi pubblici essenziali"; "Autorità per la vigilanza sui
  Lavori Pubblici"  (legge n. 109/1994); " Commissione
  Nazionale per le Società e la Borsa"  (CONSOB) (legge n. 216
  del 1974) e legge n.474 del 1994); " Istituto per la
  vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse
  collettivo (ISVAP)"  (legge n.576/1984 e n.20 /1991 nonchè
  legge n.474 del 1994); " Autorità per l'informatica nella
  Pubblica Amministrazione" D:Lgl. n.39 /1993); " Autorità
  di bacino di rilievo nazionale"  (legge n:183/1989);
  " Autorità Portuali"  (legge n. 84/1994); " Agenzia per
  la rappresentanza sindacale delle pubbliche
  amministrazioni"  D.Lgl. n. 29/1993); " Osservatorio delle
  politiche Regionali"  D.Lgl: n:96/1993).  L'attività di
  controllo su singoli settori pubblici è stata affidata, poi,
  ad altre Autorità collegate con varie branche
  dell'amministrazione.
      In disparte ogni altra considerazione sulla correttezza
  costituzionale di siffatto modo di procedere e sulla effettiva
  possibilità per tali organi di poter esercitare la funzione
  (valga per tutti la esperienza dell'AGECONTROL per quanto
  riguarda l'attività di contrasto per le frodi comunitarie) la
  Commissione non può che esprimere perplessità e preoccupazioni
  sulla istituzione di siffatti controlli straordinari in quanto
  si corre il rischio di creare, una ulteriore frammentazione
  del sistema; nuove occasioni di scontro politico e di
  lottizzazione; nuove occasioni di penetrazione mafiosa.
      8.4 L'altro nodo politico da risolvere per il corretto
  funzionamento dell'attività di controllo è quello concernente
  l'autonomia e la indipendenza dei soggetti investiti della
  funzione, problema cui è strettamente collegato l'altra
  delicata e complessa questione della assoluta necessità di
  tenere per quanto possibile distinti i momenti di direzione
  politica dai fatti di gestione amministrativa.
 
                              Pag. 212
 
      Ed infatti, soltanto la netta separatezza tra organo di
  controllo ed attività controllata può garantire la neutralità
  e la trasparenza della funzione e la non confusione di
  interessi diversi curati dalle stesse persone.
      Sta di fatto, però, che, all'attualità, nonostante la
  chiarezza e la distinzione di ruoli tra controllori e
  controllati sia stata da tempo invocata da molte forze
  politiche (da più legislature giacciono entrambe le Camere,
  proposte e disegni di legge riguardanti la disciplina degli
  incarichi extra-istituzionali e delle incompatibilità dei
  magistrati, dei pubblici funzionari e degli amministratori
  pubblici) e dagli stessi organi di autogoverno delle
  magistrature, tuttora non è stata varata una rigorosa
  disciplina che restituisca tutti i soggetti investiti di
  pubbliche funzioni a propri compiti istituzionali senza
  invasione o semplice investitura di altri ruoli confliggenti -
  in fatto ancor prima che in diritto - con la funzione primaria
  e con gli interessi generali.  Appare, infatti, fuori luogo che
  soggetti preposti a svolgere controlli di tipo giurisdizionale
  vengano investiti (con incarichi comportanti compensi, a volte
  elevatissimi) di funzioni proprie di soggetti aventi compiti
  di amministrazione attiva.  Così, non sembra rispondente ad
  interessi pubblici che organi (quali l'avvocatura dello Stato
  ed il consiglio di Stato) istituzionalmente preposti a rendere
  pareri su atti e scelte della P.A., vengano essi stessi
  investiti di attività che implicano, in veste diversa, giudizi
  sulle stesse scelte e sugli stessi atti che si è concorso a
  formare.  Così, per rimanere all'interno della PA, confligge
  con i più elementari principi di buona amministrazione e di
  chiarezza in ordine alle responsabilità derivanti dall'azione
  dell'amministrare, che gli stessi soggetti preposti
  all'individuazione ed alla scelta degli strumenti da porre in
  essere per il conseguimento del fine istituzionale, vengano
  poi (con incarichi conferiti ad personam che il più delle
  volte costituiscono delle vere e proprie elargizioni)
  investiti anche dei giudizi di congruità sulle scelte
  effettuate.
      La Commissione è del parere che la chiave di lettura di
  questa illogica, complicata e pericolosa commistione di
  funzioni, debba essere ricercata nei rilevanti interessi
  economici che governano la materia degli incarichi extra
  istituzionali (in particolare, incarichi di collaudazione di
  opere pubbliche e di arbitraggio) e nel particolare rapporto
  che si viene a creare tra autorità che conferisce l'incarico e
  soggetto beneficiato.  Anche se non appare corretto parlare di
  rapporti collusivi tra i due soggetti, tuttavia, è di tutta
  evidenza che l'autorità conferente ha, quanto meno, una
  aspettativa, nei confronti del designato, ad un controllo che,
  se non compiacente, tenga tuttavia almeno conto di parametri
  non eccessivamente fiscali.  L'attività del controllore,
  pertanto, pur se esplicata in perfetta buona fede appare
  viziata ab origine; può rimanere condizionata e su di essa
  permane (talvolta ingiustamente) il sospetto di carenza di
  neutralità.
      Sotto altro profilo, la presenza di moltissimi magistrati
  (in particolare consiglieri di Stato e della Corte dei Conti)
  e di avvocati dello Stato in delicati uffici governativi quali
  i Gabinetti e gli Uffici legislativi, crea un rapporto di
  reciproca dipendenza tra questi ed i soggetti politici
  investiti delle responsabilità governative.  Il politico
  assicura la
 
                              Pag. 213
 
  continuità dell'incarico; il Capo gabinetto la continuità del
  sistema di governo e l'intangibilità delle posizioni di
  privilegio (gli interessi economici e la irresponsabilità) del
  politico.
      A fronte di questa situazione, è facile comprendere come
  tutto il mondo dei controlli finisca con il risultare falsato
  o, quanto meno, indebolito.  L'intreccio di interessi che lega
  controllori e controllati oltre a generare inefficienza e
  corruzione della Pubblica Amministrazione offre
  un'ulteriore.
  9.  La criminalità organizzata nel Centro-Nord
      9.1 Nel corso della XI Legislatura la Commissione ebbe ad
  occuparsi della presenza della criminalità organizzata nelle
  aree del Centro-Nord - in quelle Regioni, cioè, di
  insediamento non tradizionale del potere mafioso.
      Sul problema approvò, dopo una serie di
  visite-sopralluogo che interessarono le Regioni Abruzzo,
  Basilicata, Emilia Romagna, Liguria, Lombardia, Piemonte,
  Valle d'Aosta, Sardegna, Toscana e Veneto un'apposita
  relazione
  (21) Relazione sulle risultanze dell'attività del
  gruppo di lavoro incaricato di svolgere accertamenti su
  insediamenti ed infiltrazioni di soggetti ed organizzazioni di
  tipo mafioso in aree non tradizionali, approvata il 13 gennaio
  1994 (Relatore Sen. Carlo Smuraglia - Doc. XXIII, n.11 - XI
  Legislatura).
  con la quale furono indicate le cause della
  diffusione del fenomeno; la tipologia delle organizzazioni
  criminali operanti nei singoli territori; i settori di
  presenza e le modalità di intervento delle varie associazioni;
  i riflessi sull'economia delle singole zone; i rapporti con le
  mafie tradizionali ed i nuovi modelli associativi; i rapporti
  con il sistema politico amministrativo e con gli altri
  organismi operanti in sede regionale.
      All'inizio della attuale legislatura, la Commissione ha
  ripreso la tematica degli insediamenti mafiosi nelle aree del
  Centro-Nord ed ha deliberato di impegnare una sessione del suo
  lavoro per l'esame del rilevante fenomeno.
  (22) Nella seduta
  del 18 ottobre 1994 la Commissione, in sede di approvazione del
  programma ha deliberato tra l'altro di inserire la seguente
  previsione: "Organizzazioni criminali omogenee e non omogenee
  nelle aree del Centro-Nord:...  Appare inoltre necessario
  formare un quarto gruppo di lavoro che incentri i suoi compiti
  di analisi e investigazione nelle aree del centro-nord, per la
  peculiarità con la quale ivi si attuano i collegamenti con le
  amministrazioni e l'economia locale e in particolare le
  modalità di organizzazione e ancor più di investimenti di
  capitali illeciti.  Peraltro, proprio nelle regioni del
  centro-nord più che nelle aree tradizionali, forti sono gli
  stanziamenti di associazioni criminali non omogenee,
  originarie dell'Oriente, dell'Africa, dell'America Latina che
  hanno assunto via via un peso preponderante nel traffico degli
  stupefacenti e nel traffico di armi, dando quindi alla mafia
  tradizionale un più facile e sistematico accesso alla
  internazionalizzazione dei grandi traffici illeciti e al
  riciclaggio dei relativi profitti attraverso operazioni per lo
  più su diverse banche estere.  E' evidente che questo quarto
  gruppo di lavoro articolerà i settori di indagine sulle
  tematiche degli altri gruppi così da far emergere, da un lato,
  le peculiarità del fenomeno mafioso e similari nelle aree
  tradizionali e, dall'altro, da permettere una visione
  integrata e d'insieme del fenomeno stesso".
      In effetti, la Commissione ha ritenuto che per un più
  corretto processo conoscitivo della realtà criminale di stampo
  mafioso nelle aree di insediamento non tradizionale occorreva
  procedere per approssimazioni successive avendo cura: di
  seguire l'evoluzione del fenomeno mafioso nelle quattro
  Regioni di insediamento tradizionale (Sicilia,
 
                              Pag. 214
 
  Calabria, Campania e Puglia); di comprendere i fenomeni
  finanziari connessi agli insediamenti di capitali prodotti a
  Sud (provenienti soprattutto dai mercati del traffico degli
  stupefacenti e delle armi) e trasferiti al Nord; di
  individuare i settori economici di interesse della mafia e di
  comprendere le modalità di inserimento nelle attività
  produttive lecite; di esplorare le singole realtà mafiose
  insediate nel Centro-Nord cogliendone le peculiarità, le
  connessioni con la vita politica ed economica di quelle
  Regioni; le modalità di presenza e le connessioni con le
  organizzazioni tradizionali.
      Ad un anno dalla sua costituzione la Commissione ha posto
  in essere varie attività per la programmata finalità:
        - sono state approfondite le tematiche concernenti i
  trasferimenti dei capitali e gli insediamenti dell'impresa
  criminale nel Nord Italia con riferimento, in particolare,
  agli impieghi, in attività "lecite", del capitali provenienti
  dagli affari mafiosi;
        - l'apposito gruppo di lavoro ha dedicato sette sedute
  per le audizioni dei Prefetti e delle Forze dell'ordine delle
  province di Como, Varese, Bologna, Ravenna, Forlì, Venezia,
  Verona e Padova;
        - la Commissione si è recata in missione in Liguria
  dove ha esaminato, tra l'altro, la complessa realtà dei Comuni
  di Genova e di San Remo (quest'ultimo in particolare per i
  problemi connessi a sospette attività di riciclaggio poste in
  opera a mezzo del locale Casinò);
        - la delicata questione del Comune di Bardonecchia,
  primo dei Comuni del Centro-Nord disciolto per infiltrazioni
  mafiose;
        - l'impegno finanziario della mafia nelle attività
  immobiliari di Cortina d'Ampezzo, in particolare
  sull'acquisizione di alberghi e multiproprietà da parte di
  personaggi sospettati di appartenere alla imprenditoria
  mafiosa.
      Per gran parte delle elencate questioni le indagini sono
  tuttora in corso ed ancora la Commissione non dispone di
  notizie supportate da documenti giudiziari.
      Tuttavia il quadro che emerge dalla analisi dei vari
  segmenti di attività è tale che induce la Commissione a
  ritenere preoccupante lo stato della presenza della
  criminalità organizzata nelle aree del Nord Italia, come anche
  concluse la Commissione Antimafia della XI Legislatura, e
  sottovalutato, soprattutto nel suo aspetto di cointeressenze
  economiche.  Non si registrano infatti significative indagini
  in materia di riciclaggio e per contro le segnalazioni di
  operazioni sospette da parte delle Banche sono esigue e
  sporadiche.
      Certo le modalità operative sono diverse: al Nord la
  mafia non può contare sulla rassegnata acquiescenza della
  popolazione residente; non può fare affidamento su un
  controllo del territorio che consente di intervenire su ogni
  aspetto della realtà locale; non può contare su alcune forme
  di "cultura mafiosa" che si riscontrano in alcune
  amministrazioni locali.  Tuttavia, la criminalità organizzata
  può (al Nord forse più che la Sud) trovare facile terreno di
  coltura nella mentalità affaristica ed imprenditoriale di una
  laboriosa popolazione educata a cogliere le occasioni di
  affari ed investimenti e mimetizzarsi così più facilmente nel
  circuito di transazioni lecite.
 
                              Pag. 215
 
      La Commissione ritiene perciò di dovere rivolgere nel
  prosieguo dei propri lavori attenzione a tale situazione, che
  da analisi di organi investigativi, sembra essersi
  ulteriormente aggravata.
 
                              Pag. 216
 
                         CAPITOLO III
                      MAFIA ED ECONOMIA
  1.  La situazione economica generale
      Volendo mettere a fuoco i rapporti che intercorrono tra
  fenomeni mafiosi e fenomeni economici non si può prescindere,
  preliminarmente, da talune considerazioni di carattere più
  generale.
      Il forte ridimensionamento dell'intervento pubblico
  straordinario a sostegno dell'economia, ha determinato nel
  Mezzogiorno, più che in altre aree territoriali del paese, una
  forte stagnazione dell'attività produttiva, specie nei settori
  delle opere pubbliche e dell'edilizia, dimostrando la
  debolezza di un tale tipo di politica economica, genesi
  peraltro del triste connubio tra malaffare politico e malavita
  organizzata, che ha impedito la nascita di un tessuto
  imprenditoriale sano e di uno sviluppo economico continuativo,
  capace di trasformare e far crescere il tessuto sociale.
      La ripresa economica che sta interessando attualmente
  l'Italia, incentrata sulle esportazioni, ha accentuato il
  divario tra le aree tradizionalmente più sviluppate e il
  Centro-Sud: nel Centro-Nord il tasso di crescita del prodotto
  interno lordo è stato nel 1994 del 2,5 per cento, nel
  Mezzogiorno dell'1 per cento.
      Sotto il profilo occupazionale, l'effetto di tale
  evoluzione è stato molto marcato: le regioni del Nord-Est sono
  prossime al pieno assorbimento della forza-lavoro; nel
  Mezzogiorno, ove vive oltre il 35 per cento della popolazione
  e già è molto bassa la quota di essa presente nel mercato del
  lavoro, nel corso del 1994 il numero di persone occupate è
  diminuito di 225.000 unità, pari al 3,9 per cento.  Il tasso di
  disoccupazione ha raggiunto il 21 per cento (l'8 per cento nel
  Centro-Nord), con punte più alte in talune aree,
  (23) Il presidente della
  Camera di commercio di Catanzaro ha indicato
  alla Commissione un tasso di disoccupazione, in quel
  territorio, del 30 per cento (audizione del 1^ marzo 1995 ).
  Relativamente al territorio di Vibo Valentia, il presidente di
  quella Camera di commercio ha indicato una percentuale di
  disoccupazione superiore al 28 per cento, precisando però che
  quella giovanile supera forse il 50 per cento (audizione del 3
  marzo 1995).  Il presidente della Confcommercio di Crotone ha
  parlato di una disoccupazione giovanile che nella sua zona si
  avvicina al 40 per cento (audizione del 2 marzo 1995).
  e il
  numero attuale degli occupati è largamente inferiore a quello
  dell'inizio degli anni '80.  I posti perduti nel corso
  dell'ultimo anno appartenevano nella quasi totalità al settore
  privato.  Moltissimi soggetti che hanno passato i trenta anni
  di età ancora non hanno mai avuto occasioni di lavoro.
      La rapidità con cui tali fenomeni si sono aggravati nel
  corso degli ultimi due anni è un sintomo, oltre che degli
  sfavorevoli andamenti congiunturali, di una profonda
  disfunzione del sistema economico e istituzionale, che si
  ripercuote sul piano della vita e della convivenza civile.
      La crisi occupazionale è inscindibilmente legata
  all'incapacità di esprimere un tessuto imprenditoriale
  efficiente e competitivo, tale da
 
                              Pag. 217
 
  creare nuove opportunità di lavoro, in un contesto peraltro
  degradato ove le attività economiche sommerse sono ancora
  ampiamente diffuse.
      In questo contesto, le organizzazioni mafiose hanno
  accentuato la propria presenza, sul piano sociale e di
  controllo del territorio, e il peso economico-finanziario,
  allungando sempre più i propri tentacoli nell'economia legale
  attraverso il riciclaggio di ingenti risorse.
      Tale diffusione della presenza criminale nelle relazioni
  economico-finanziarie riduce la stessa capacità di ripresa
  delle attività produttive, in quanto distorce le scelte degli
  operatori dagli obiettivi di economicità e profittabiltà e
  mina altresì la fiducia e la credibilità dello Stato e delle
  istituzioni.
      L'abbandono della precedente politica di agevolazioni
  creditizie ha fatto emergere la mancanza di una solida cultura
  imprenditoriale della struttura di base dell'economia
  meridionale.  Paradossalmente proprio i contributi statali e
  regionali, erogati a sostegno di alcuni tipi di investimenti
  produttivi e i forti interessi sottostanti all'aggiudicazione
  degli appalti di grandi opere pubbliche, hanno ostacolato o
  ritardato la formazione di nuove soluzioni per un sano ed
  equilibrato sviluppo economico-imprenditoriale, capaci di
  innovare le vecchie logiche e gli indirizzi del passato.
      A ciò si aggiungano le perduranti inefficienze nelle
  Amministrazioni pubbliche, la persistenza di carenze nelle
  infrastrutture di base (trasporti, nelle reti idriche e
  dell'energia elettrica, nelle comunicazioni, nelle dotazioni
  sociali) nonostante i generosi afflussi di denaro degli ultimi
  anni.
      All'intervento straordinario non si è ancora sostituita
  una coordinata capacità amministrativa e progettuale,
  soprattutto in ambito regionale e locale; i fondi comunitari
  sono stati utilizzati con ritardo; crediti concessi da
  istituti internazionali stentano a trovare impiego per
  mancanza di progetti finanziabili.
      La formazione di una cultura d'impresa orientata ad una
  sana competitività, rappresenterebbe il miglior presidio
  contro i pericoli di contagio derivanti dai circuiti illegali,
  terreni di coltura della finanza sommersa e dell'usura.
      Il carattere strutturale dei fattori di debolezza
  dell'economia meridionale si riflette sulla situazione del
  credito locale che presenta numerosi aspetti di anomalia se
  posta a confronto con i risultati conseguiti dalle aziende
  bancarie nel resto del sistema.  Alla stagnazione del credito
  fa riscontro la crescita delle sofferenze.
      Se la via del riequilibrio della situazione meridionale
  passa attraverso la crescita delle iniziative produttive, si
  rendono necessari interventi sull'economia e sul flusso di
  finanziamento alle imprese: quest'ultima deve essere una
  funzione tipica del sistema bancario, improntata a criteri di
  efficienza allocativa, ma non irrigidita da pregiudiziali
  antistoriche o da cautele derinvanti dalla mancanza di moderni
  e validi strumenti di analisi del merito creditizio.  Un ruolo
  primario può essere svolto dalle banche che hanno tradizionale
  radicamento nell'area meridionale.  Compito di tutto il sistema
  creditizio e finanziario è quello di contribuire alla crescita
  di una cultura d'impresa,
 
                              Pag. 218
 
  attraverso la selezione di progetti industriali basata sulla
  valutazione delle reali prospettive reddituali e l'offerta di
  un servizio di assistenza finanziaria globale alle medie e
  piccole imprese; queste ultime, infatti, possono rappresentare
  un fattore propulsivo per l'intera area.
      Un miglioramento di efficienza generale e un approccio
  più moderno alle necessità della piccola clientela si rende
  necessario anche per contrastare i fenomeni di usura, che,
  oltre a costituire un canale di proficuo investimento di
  risorse, rappresenta anche uno strumento per le organizzazioni
  mafiose per appropriarsi di attività economiche legali.
      In prospettiva, nuove opportunità per la ripresa
  economica nel Mezzogiorno potrebbero derivare dall'attuazione
  di provvedimenti legislativi che, delineando una nuova
  filosofia dell'intervento pubblico, assicurino il passaggio ad
  una gestione ordinaria delle politiche di sviluppo (così per
  il sostegno alle nuove iniziative industriali e della
  imprenditorialità giovanile).
      Si è quindi in presenza di una fase cruciale per
  l'economia del Mezzogiorno, che necessita di pronti interventi
  di sostegno nel settore infrastrutturale e di nuovi stimoli
  imprenditoriali e concorrenziali per avviare il decollo delle
  attività produttive, dopo la preoccupante situazione di stasi
  del 1994.
  2.  La penetrazione mafiosa nelle attività economiche.
  L'imprenditoria mafiosa.
      Passando ad un'ottica maggiormente specifica, è facile
  osservare come la gestione mafiosa di attività imprenditoriali
  sconvolga le condizioni che assicurano la libertà di mercato e
  di iniziativa economica e la funzione sociale della proprietà
  privata, sì da violare gli artt. 41 e 42 della Costituzione.
  In verità, sono gli aspetti imprenditoriali che conferiscono
  al fenomeno mafioso quella dimensione nazionale e
  internazionale che gli viene ormai universalmente
  riconosciuta, dal momento che la mafia, nelle sue
  manifestazioni più attuali, si insinua insidiosamente e
  surrettiziamente nel tessuto economico dei Paesi in cui opera,
  ponendosi al confine con la criminalità economica e
  finanziaria e superando così ogni schema regionale e ogni
  delimitazione territoriale.  Infatti, l'imprenditorialità
  mafiosa, nel momento in cui maneggia ed investe ricchezza, si
  avvicina alla criminalità economica e degli affari, sia perchè
  entra in contatto con ambienti finanziari dediti a questo tipo
  di illegalità "rispettabile", sia perchè ambisce a sua volta a
  trasformarsi in "criminalità dal colletto bianco",
  naturalmente senza cessare per questo di essere mafiosa e
  senza rinunziare ai metodi mafiosi di cui non sa fare a
  meno.
      E' in questo contesto che si spiega, ad esempio,
  l'accesso privilegiato al circuito bancario di cui spesso
  dispongono i gruppi imprenditoriali mafiosi, e che consente
  loro di disporre di denaro liquido con una facilità per lo più
  sconosciuta agli altri imprenditori: è stato osservato che
  tale accesso privilegiato non viene garantito solo da una rete
  di relazioni clientelari e di affari stabilite a livello di
  piccole banche
 
                              Pag. 219
 
  locali, ma anche da complessi giri di amicizie e di
  rapporti poco chiari con funzionari direttivi di importanti
  banche nazionali.
      Nel medesimo contesto si spiega quella sorta di alleanza
  tra mafia imprenditrice e grandi imprese non mafiose
  stabilitasi nel corso degli anni Settanta (quando le grandi
  imprese, in particolare talune grandi imprese del Centro-Nord,
  trovano conveniente servirsi dell'opera delle imprese mafiose
  locali), che è venuta alla luce grazie a taluni processi
  penali degli ultimi lustri.  E' emerso come una delle ragioni
  principali del consolidarsi di questa alleanza stia nel fatto
  che essa si traduce in un insidioso quanto sofisticato
  meccanismo di pressione nei confronti dello Stato, capace di
  far salire artificialmente il costo degli investimenti
  pubblici nel Mezzogiorno: è ormai noto che nelle zone più
  tradizionalmente inquinate dal fenomeno mafioso i prezzi base
  delle aste per i lavori pubblici vengono lievitati del 15 per
  cento circa, con la motivazione che non bisogna scoraggiare i
  grandi imprenditori del Nord dall'operare in quelle zone, ove
  essi sanno di dover pagare la tangente.  Ed è così che in
  quelle aree geografiche si registra spesso una peculiarissima
  collusione strumentale tra le grandi imprese non mafiose e i
  gruppi mafiosi che controllano il territorio.
      Giova ricordare come la elaborazione giudiziaria e
  dottrinale si è cimentata nell'analisi di una probabile
  categorizzazione degli imprenditori che, nelle regioni
  meridionali, hanno stabilito rapporti più o meno costanti ed
  organici con le organizzazioni criminali.
      Si è ritenuto così che si possano distinguere
  "imprenditori collusi quelli, cioè disposti a trovare con i
  mafiosi un accordo attivo dal quale derivano obblighi
  reciproci di collaborazione e scambio; "imprenditori clienti"
  quelli cioè che stabiliscono interazioni reciprocamente
  vantaggiose per il perseguimento di interessi comuni nel
  quadro di una particolare relazione clientelare; "imprenditori
  strumentali" quelli che non avendo rapporti continuativi,
  negoziano caso per caso la eventuale reiterazione del patto
  secondo le esigenze contingenti.  Infine "gli imprenditori
  subordinati" quelli cioè assoggettati alla mafia attraverso un
  rapporto non interattivo, fondato sulla intimidazione o sulla
  pura coercizione, finalizzata ad ottenere prestazioni, come ad
  esempio il pagamento della protezione.
      Categoria, questa difficilmente ascrivibile al settore
  delle imprese aggiudicatesi o ruotanti intorno alle commesse
  pubbliche, nè diversamente generalizzabile, quale pretesto per
  un giustificazionismo e, in ultima istanza, per la non
  punibilità perchè operanti in contesti malavitosi.
      Se per la categoria degli "imprenditori subordinati si
  sostiene la non punibilità, perchè assoggettati a costrizioni
  di natura estorsiva tale che non potrebbe esigersi un
  comportamento diverso da quello tenuto, casi tuttavia da
  esaminarsi singolarmente, per le restanti individuate
  categorie vale far riferimento alla motivazione di ordinanza
  di custodia cautelare del GIP Tribunale Napoli n.1637/A/95 del
  10/06/95.  In tale provvedimento si evidenziano interessi
  economici autonomi perseguiti dagli imprenditori mediante il
  sistema, sopraillustrato, di false fatturazioni e
  sovrafatturazioni, che permette loro di pagare la tangente a
  politici e alla camorra ottenendo in affidamento gli appalti
  con la garanzia dell'approvazione dei più alti costi.
 
                              Pag. 220
 
      Il "tipo di rapporto che si viene così a sviluppare tra
  imprenditore e camorra, sottolinea il GIP di Napoli, passa
  mano a mano dalla soggezione alla compartecipazione con la
  presa di possesso finale delle capacità imprenditoriali e
  delle relazioni pubbliche dell'imprenditore da parte
  dell'organizzazione criminale".
      E' evidente quindi che, al di là delle categorizzazioni,
  simili diffuse condotte costituiscono, a tutti gli effetti,
  partecipazione al reato associativo di tipo mafioso.
      Infatti, la valenza di cooperazione e di rilevante
  vantaggio reciproco, l'esplicarsi in "prestazioni diffuse" a
  favore del sodalizio mafioso, il carattere altamente
  personalizzato del rapporto clientelare di scambio, stabile e
  continuativo, nonchè l'esistenza di un movente autonomo
  dell'imprenditore che però inevitabilmente si sovrappone, si
  intreccia e si confonde con le finalità associative, sono
  tutti elementi atti ad integrare un vero e proprio contributo
  alla vita dell'ente associativo, apportato in guisa tale da
  assumere significatività e concludenza in termini di
  affectio societatis.
      Questo principio è stato recentemente recepito dal g.i.p.
  di Bari relativamente all'inchiesta giudiziaria riguardante la
  cosiddetta "malasanità" del capoluogo pugliese (27 marzo 1995,
  Biallo + 17), mentre esso era stato platealmente negato alcuni
  anni fa da una discussa sentenza del giudice istruttore di
  Catania relativa alla "contiguità mafiosa" dei cavalieri del
  lavoro del capoluogo etneo (28 marzo 1991, Amato + 64).
  Quest'ultima sentenza aveva ritenuto che tale "contiguità" non
  fosse penalmente perseguibile in quanto "imposta dall'esigenza
  di trovare soluzioni di 'non conflittualità' con la mafia",
  sul presupposto che "nello scontro frontale risulterebbe
  perdente sia il più modesto degli esercenti sia il più ricco
  titolare di grandi complessi aziendali".  Ma unanimi erano
  state le critiche della dottrina, posto che le condotte degli
  imprenditori catanesi erano costellate da rilevanti azioni di
  sostegno al clan malavitoso (per esempio, assunzioni di favore
  di operai affiliati, anche con funzione di copertura delle
  illecite attività associative), da essi realizzate per una
  precisa contropartita, e cioè per favorire la loro espansione
  imprenditoriale, come ad esempio in occasione dell'apertura di
  un cantiere nell'area palermitana.
      Se è assolutamente ineludibile l'esigenza di non lasciare
  esenti da sanzione gli imprenditori  collusi,  altrettanto
  ineludibile è il dovere dello Stato di intervenire con
  appropriate iniziative antiracket e antiusura, volte a
  sostenere gli imprenditori  subordinati  e ad aiutarli a
  uscire dalla situazione di  subordinazione.
      Prima di affrontare questo secondo aspetto, occorre
  trarre, dalle analisi effettuate, possibili rimedi da adottare
  rispetto al sistema di collusioni sopra prospettate.
      Da alcune parti si avanza l'ipotesi di incentivare alla
  defezione, con l'impunità dai reati associativi e dai reati
  fiscali, chi "confessa", sul presupposto che il sistema si
  regge sul fatto che i diversi soggetti del rapporto non hanno
  interesse alla dissociazione.
      Non si può escludere a priori che tale ipotesi potrebbe
  dare positivi risultati, e tuttavia non può sottovalutarsi che
  l'estensione fino a questo punto della rinuncia dello Stato
  alla applicazione delle sue
 
                              Pag. 221
 
  leggi sanzionatorie aprirebbe inevitabilmente alla
  facoltatività dell'azione penale, con tutte le problematiche
  di ordine costituzionale e non, che ne deriverebbero.
      Ma soprattutto preme rilevare la necessità di non far
  dipendere la rottura del sistema esclusivamente dal singolo
  imprenditore, peraltro soggetto ad elevato rischio soprattutto
  ove ormai la sua partecipazione alle strutture criminali sia
  divenuta organica.
      Occorre invece che lo Stato,  in primis,  provveda a
  cambiare le regole con un'articolata strategia, che riguardi
  sia il sistema economico che quello politico e pubblico così
  da ridurre al minimo le occasioni di intrecci collusivi e
  corruttivi.
      La Commissione pertanto, nella convinzione che questo sia
  il nodo centrale del risanamento della vita pubblica e il
  terreno fondamentale su cui sconfiggere le potenzialità
  economiche, enormemente accresciute con questo sistema, della
  criminalità organizzata, si impegnerà nel prossimo sviluppo
  del programma, a verificarne lo stato attuale e quindi a
  offrire indicazioni e soluzioni che contribuiscono ad
  accelerare un processo rigenerativo dello Stato.
  3.  Il fenomeno dell'usura: occasione di produzione e di
  reinvestimento di capitali mafiosi.
      Il fenomeno dell'usura costituisce una delle forme di
  reinvestimento più proficue per i proventi criminali e
  consente alle organizzazioni mafiose di pervenire al
  progressivo controllo di attività imprenditoriali "pulite",
  esautorando con forme coercitive gli originari proprietari.
  Interi comparti di attività produttive, che hanno subito più
  di altri la situazione economica recessiva, corrono il rischio
  di essere assunti sotto il loro controllo, attraverso
  meccanismi idonei a produrre il graduale esautoramento di
  quelli che abbiamo definito imprenditori subordinati, sino
  alla loro definitiva estromissione dal mercato.
      L'usura è quindi, sotto il profilo sociale, una delle
  modalità più diffuse, devastanti e pericolose di
  manifestazione della criminalità organizzata.
      Le finalità perseguite nell'attività di usura sono
  molteplici ed essenzialmente collegate alla "dimensione
  finanziaria" del soggetto che la pone in essere: si va dai
  prestiti relativamente piccoli effettuati da soggetti che
  operano con modalità più o meno "artigianali", alla grande
  attività di riciclaggio del denaro sporco, posta in essere
  dalle organizzazioni mafiose.  Gli elementi tipici in comune
  alle varie connotazioni assunte dal fenomeno è rappresentato
  dall'approfittamento di uno stato di bisogno;
  dall'applicazione di tassi di interesse senza alcuna
  correlazione con l'andamento del mercato e che generano
  abnormi profitti; dall'esercizio di minacce e costrizioni per
  il recupero dei crediti maturati.
      L'usura, nelle sue diverse manifestazioni, realizza
  sempre una forma di violenza attraverso un'operazione
  finanziaria.
      Può, in alcuni casi, anche essere riduttivo e fuorviante
  considerare l'usura solo una questione di misura del tasso di
  interesse; altre clausole
 
                              Pag. 222
 
  vessatorie possono anche andare al di là dell'ambito
  meramente finanziario o contrattuale.
      I settori più esposti a tale tipo di minaccia sono quelli
  del commercio e dell'artigianato, vale a dire l'amplissima
  fascia di attività economiche di piccola e media dimensione
  che caratterizza la struttura economica privata italiana e che
  rappresenta uno dei più importanti pilastri, se non il più
  importante, nell'organizzazione socio-economica della
  nazione.
      Il fenomeno, pur con incidenza e pericolosità
  differenziate nelle diverse aree del paese, ha raggiunto oggi
  diffusione pressochè generalizzata sul piano nazionale.  Tale
  circostanza può essere riconducibile, oltre che alla
  situazione di generale difficoltà economica, ad una scarsa
  cognizione finanziaria da parte dei piccoli operatori e ad una
  loro incompleta conoscenza delle possibilità di accesso al
  credito bancario e delle forme tecniche più adeguate al
  proprio fabbisogno.  Il tessuto economico produttivo
  sviluppatosi negli anni '80 a margine della crescita
  dell'industria di medie dimensioni, caratterizzato da
  iniziative polverizzate e diffuse, molte volte non era
  connotato da una base di conoscenze aziendalistiche adeguate
  al nuovo contesto.  La sopravvenuta situazione di crisi ha reso
  evidente le situazioni di contraddizione.
      Anche il sistema bancario non sembra che abbia posto in
  essere finora azioni efficaci per facilitare l'accesso a fonti
  legali di provvista da parte di quei soggetti che, seppur
  dotati di un progetto imprenditoriale interessante, non sono
  in possesso di affidabile consistenza patrimoniale.
      A ciò aggiungasi l'affermazione di un modello
  comportamentale basato sul consumo, come forma di affermazione
  sociale ed alla conseguente fittizia affermazione, sulla base
  di suggestioni di massa, di bisogni voluttuari intesi come
  primari; per il soddisfacimento di questi, molti non tengono
  conto dei rischi connessi all'acquisizione di risorse a titolo
  di debito in dimensione non coerente alla propria capacità
  reddituale.
      A tali elementi, che hanno influenzato la "domanda"
  potenziale, ha fatto riscontro una disponibilità sempre
  crescente di mezzi finanziari di origine illecita da parte
  delle organizzazioni criminali, da reinvestire o da riciclare
  in ambiti più o meno legali.
      3.1 Nel corso delle audizioni svolte dalla Commissione
  nell'ultimo anno la gravità del fenomeno dell'usura ha trovato
  importanti conferme.
      La Procura della Repubblica di Napoli ha riferito che in
  quell'area la principale forma di reimpiego dei capitali
  illeciti è costituita appunto dall'usura, nel senso che i
  principali esponenti delle organizzazioni camorristiche hanno
  costantemente impiegato il loro denaro nel prestito ad alto
  interesse ad imprenditori, con tassi che vanno da un minimo
  del 10 per cento mensile a un massimo del 40-50 per cento per
  i finanziamenti a breve, riuscendo spesso a sostituirsi agli
  imprenditori
 
                              Pag. 223
 
  nelle attività commerciali.
  (24) Audizioni 6 febbraio 1995
  del procuratore Dott. A. Cordova e del sostituto procuratore
  Dott. P. Mancuso.
   Informazioni del tutto analoghe hanno
  fornito le Procure della Repubblica di Salerno,
  (25) Audizione 8 febbraio
  1995 del procuratore Dott. E. Addesso.
  di Catanzaro
  e di Lametia Terme.
  (26) Audizioni 1^ marzo 1995, rispettivamente del
  procuratore Dott. M. Lombardi e del procuratore Dott. G.
  Pileggi.
  La Procura della Repubblica di Crotone ha inoltre
  sottolineato come le vittime dell'usura, pesantemente
  intimidite, siano per lo più assolutamente non collaborative.
  (27) Audizione 2 marzo 1995 del procuratore Dott. G.
  Staglianò.
    Il presidente della Confcommercio di Napoli ha riferito
  di commercianti che ricorrono a usurai - non riuscendo ad
  avere finanziamenti dalle banche per mancanza di garanzie
  reali - i quali finiscono poi con l'impadronirsi delle
  aziende.
  (28) Audizione di Cosimo Capasso, 7 febbraio 1995.
      Il sindaco di Salerno considera quello dell'usura un
  fenomeno in crescita, aggravato dalle posizioni paradossali
  assunte a volte dagli stessi usurati, che finiscono con il
  considerare il sistema bancario come nemico e l'usuraio come
  un amico.
  (29) Audizione di Vincenzo De Luca, 8 febbraio 1995.
   Accenti analoghi ha usato il sindaco di Pagani, il quale ha
  lamentato che il comportamento eccessivamente rigido degli
  istituti di credito faciliterebbe di fatto il ricorso agli
  usurai.
  (30) Audizione di Antonio Donato, 8 febbraio 1995.
      Da più parti, del resto, vengono sollevati rilievi
  critici circa l'atteggiamento degli istituti di credito.  Così,
  il vicepresidente della Confesercenti di Salerno
  (31) Audizione di Eugenio Arcuto, 8 febbraio 1995.
   rileva che i tassi praticati
  dal sistema bancario, nella sua zona, arrivano al 20
  per cento, così producendo una disparità rispetto ai tassi
  pagati, per esempio, dagli imprenditori di Milano.  Il
  rappresentante della Confartigianato di Catanzaro
  (32) Audizione di Salvatore Paone, 1^ marzo 1995.
   lamenta pure questo tipo di disparità ed afferma che,
  di fatto, le stesse banche
  spingono  l'imprenditore calabrese nelle braccia dell'usuraio.
  Accenti analoghi usa il presidente della Confcommercio di
  Crotone
  (33) Audizione di Pasquale Lumare, 2 marzo 1995.
  Il prefetto di Reggio Calabria
  non esclude che nel fenomeno dell'usura vi sia
  "la connivenza delle banche".
  (34) Audizione 11 gennaio 1995 del prefetto Dott. N.
  Rapisarda.
  Il Procuratore della Repubblica
  di Locri sottolinea che "magari le banche non erogano i
  prestiti o i mutui agli onesti, ma li danno ai disonesti che
  poi utilizzano i capitali avuti dalle banche per fare lo
  strozzinaggio",
  (35) Audizione 13 gennaio 1995 del procuratore
  Dott. R. Lombardo.
  e gli fa eco, con accenti analoghi, il
  presidente della Confcommercio di Vibo Valentia.
  (36) Audizione 3 marzo 1995 di Giuseppe Rito.
  Ancora più inquietante è
  l'affermazione del comandante della Guardia di Finanza di
  Locri, che parla di esponenti di istituti di credito che
  segnalano soggetti usurabili alle cosche o li indirizzano
  direttamente verso esponenti della criminalità organizzata.
  (37) Audizione di Gianfranco Zarro, 13 gennaio 1995.
 
                              Pag. 224
 
    Il commissario straordinario del Governo per il
  coordinamento delle misure antiracket
  (38) Audizione 15 dicembre 1994 del prefetto Giorgio Musio.
  ha espresso il parere che il
  sistema bancario "dovrebbe dare aiuti più consistenti rispetto
  a quanto fa al momento", sottolineando che nelle zone a
  rischio l'usura ha prodotto "un vero e proprio spossessamento
  di beni immobili dell'imprenditoria da parte dell'economia
  illegale" e produrrà inevitabilmente "altri danni che
  deriveranno dai prestiti usurai già assunti, che le persone
  non bancabili non saranno in grado di fronteggiare".
      3.2 Per avviare un efficace processo di lotta all'usura,
  nel contesto più ampio della lotta alla criminalità, occorre
  agire, sul piano legislativo, sia nella direzione della
  repressione del fenomeno, sia in quella del sostegno agli
  operatori economici minacciati o colpiti: in primo luogo,
  anche se sul punto non vi è consenso unanime, fissando un
  tasso di interesse alla richiesta del quale si configuri il
  reato di usura e definendo una soglia certa ed oggettiva per
  l'applicazione della relativa aggravante.
      Per la determinazione di tale tasso, si potrebbe
  prevedere, in luogo di una formulazione basata su un multiplo
  del tasso ufficiale di sconto (TUS), dato il carattere di
  strumento di politica monetaria, che lo stesso sia stabilito
  con un decreto del Ministro del Tesoro su parere del
  Governatore della Banca d'Italia.  In alternativa, potrebbe
  essere fissato un differenziale rispetto ad un "tasso di
  mercato", quale il tasso nominale medio dei BOT annuali,
  parametro già adottato dalle norme sulla trasparenza
  bancaria.
      In secondo luogo, appare fondamentale l'istituzione di
  uno strumento finanziario di sostegno alle vittime dell'usura.
  Potrebbe essere previsto e legislativamente disciplinato un
  "Fondo di solidarietà"; il criterio cui ispirarsi per
  consentire l'accesso a tale fondo, in situazioni di reale ed
  oggettiva difficoltà da parte del richiedente, deve essere
  quello di incoraggiare le vittime a collaborare con l'autorità
  giudiziaria ai fini di una più efficace azione di
  contrasto.
      Il sostegno potrebbe concretizzarsi nella concessione di
  un prestito ai soggetti che esercitano attività
  imprenditoriale, da commisurarsi al danno subito per effetto
  degli interessi usurari pagati, con la finalità di favorire il
  recupero economico dell'attività e il reinserimento nella
  sfera dell'economia legale.  L'erogazione del prestito è
  opportuno che sia "agganciata" ad una fase dell'attività
  giudiziaria, ad esempio l'ordinanza di rinvio a giudizio nei
  confronti degli usurai; nelle more, in situazioni di
  particolare emergenza, si potrebbe prevedere una
  provvisionale.
      Un ulteriore terreno di intervento è quello di promuovere
  un sostegno finanziario alla nascita e allo sviluppo dei fondi
  di garanzia gestiti da fondazioni e associazioni "non-profit",
  per incoraggiare l'azione di quelle strutture della società
  civile già profondamente impegnate e di cui si auspica la
  moltiplicazione.
      Lo strumento anche in questo caso potrebbe essere quello
  di un fondo appositamente istituito, la cui entità complessiva
  può considerarsi
 
                              Pag. 225
 
  adeguata, coerentemente alle analisi del fenomeno sin
  qui condotte, nella misura di cento miliardi all'anno per tre
  anni, sino al raggiungimento di una consistenza di circa 300
  miliardi da utilizzare "a rotazione".  Tale fondo potrà essere
  utile nello sviluppo di convenzioni di garanzia con gli
  istituti di credito, oltre a svolgere una efficace azione di
  prevenzione, creando le premesse per una congrua disponibilità
  di credito per la piccola e media attività commerciale
  artigianale e imprenditoriale, sottraendo molti soggetti alla
  attività usuraia della criminalità organizzata.
      Di fondamentale importanza è la definizione per legge dei
  punti sopraelencati, auspicando che essi possano trovare un
  adeguato e completo sviluppo nel testo attualmente in
  discussione al Senato.  E' infatti essenziale una efficace
  azione di contrasto all'usura per la difesa di una larga
  fascia delle categorie produttive della società italiana.
      Nel documento approvato dalla Commissione nella seduta
  del 9 marzo 1995, che già delineava alcuni degli elementi
  sinora indicati, si è sottolineata altresì la necessità di un
  maggior vigore nel perseguimento del reato di esercizio
  abusivo dell'attività creditizia, oltre all'opportunità di
  varare idonei provvedimenti sospensivi per i procedimenti
  civili connessi con i reati di usura.
  4.  La diffusione del reto di estorsione
      Particolarmente connessa con la questione dell'usura è la
  diffusione del reato di estorsione.  Sussiste una stretta
  correlazione tra l'usura e l'estorsione, sia in termini di
  soggetti attivi del reato, sia in termini di rapporti di
  interdipendenza.  L'usura e l'estorsione hanno in comune lo
  stato di soggezione psicologica, nel primo caso dovuto alla
  situazione economica della vittima, nel secondo prodotto da
  violenza fisica o minaccia; tale stato è tipicamente
  contrapposto per entrambe le fattispecie alla posizione di
  dominio del soggetto che effettua il reato, che è consapevole
  di poter sfruttare la situazione di sudditanza psicologica a
  suo vantaggio, per poterne conseguire profitti indebiti.
      Oltre alla contiguità delle fattispecie, molto spesso i
  due fenomeni presentano anche interconnessioni di relazione
  causa-effetto: può verificarsi, ad esempio, che il soggetto
  usurato subisca atti intimidatori per vedersi costringere alla
  restituzione delle somme dovute anche in misura maggiore di
  quelle pattuite, in relazione all'aggravarsi, noto alla
  controparte, della sua situazione; ovvero che l'attività
  estorsiva costituisca il presupposto per il ricorso a pratiche
  di usura, sia per il reperimento "esterno" dei fondi per il
  pagamento del "pizzo", sia con intervento diretto
  dell'organizzazione estorsiva, che consente in tali
  circostanze "dilazioni" a condizioni di usura.
      Inoltre, frequentemente, i proventi del racket alimentano
  il flusso di denaro "sporco" che ha necessità di essere
  riciclato in attività legali o messo "a frutto" attraverso
  pratiche di usura.
      Per entrambe le situazioni la componente fondamentale per
  l'efficacia dell'azione di contrasto è la collaborazione del
  soggetto che ha subito il reato.  Bisogna tenere conto tuttavia
  di due aspetti che possono ostacolare l'instaurazione di tale
  rapporto con le vittime dei
 
                              Pag. 226
 
  reati: nel caso dell'usura, trattandosi di una situazione
  avviata su "base volontaria", con una decisione della vittima
  di ricorrere al finanziamento di soggetti estranei ai circuiti
  legali, può instaurarsi un meccanismo psicologico relazionale
  di riconoscenza tra usurato e usuraio, per cui quest'ultimo è
  visto prima come un benefattore e, soltanto dopo le richieste
  di prestazioni vessatorie, come un persecutore, da temere per
  le conseguenze di azioni violente per il recupero dei crediti
  indebitamente acquisiti.  Nel caso delle estorsioni la
  collaborazione di coloro che la subiscono è più difficile per
  il permanere delle condizioni ambientali di presenza
  oppressiva della delinquenza locale, dalla quale si temono le
  possibili ritorsioni su persone e cose.
      Di tali elementi occorre tenere conto nella definizione
  di strumenti normativi adeguati ad un efficace azione di
  contrasto.
      Per il reato di estorsione, in particolare, la legge n.
  172 del 1992, ha istituito un fondo a cui possono accedere le
  vittime del racket.  La sua applicazione, peraltro,
  fondamentale per la lotta contro le estorsioni ed essenziale
  per la creazione di un diffuso spirito di reazione e di lotta
  alle iniziative minatorie della malavita da parte dei singoli
  operatori minacciati, ha dato luogo ad obiettive difficoltà di
  gestione da parte degli organi preposti, soprattutto per
  incertezze di carattere interpretativo, non superate
  definitivamente dal decreto-legge n.382 del 1993 e dal decreto
  interministeriale n.431 del 1994 di modifica al regolamento
  del fondo.
      Una certa farraginosità della procedura, con il passaggio
  delle domande di ammissione ai benefici del fondo attraverso
  molteplici fasi e differenti organi ha determinato, in assenza
  di criteri di standardizzazione istruttoria, in generale un
  calo delle domande nel 1994, con elevato numero delle istanze
  non accolte.
  (39) Al dicembre 1994, su 218 domande presentate, i
  provvedimenti di accoglimento - vuoi di elargizione
  definitiva, vuoi di provvisionale - assommavano a 25
  (Audizione 15 dicembre 1994 del prefetto Giorgio Musio).
  A ciò si accompagna un generale "riflusso" in relazione al
  fenomeno, con la rilevante contrazione nella nascita di
  associazioni.
      Sono state messe a punto alcune proposte di modifica
  legislativa che si ripromettono di rendere più snelli i
  meccanismi di elargizione del ristoro a favore delle vittime
  dell'estorsione e di rendere il risarcimento più aderente alle
  reali possibilità e tipologie del danno subìto, salvaguardando
  dall'innesco di meccanismi di moral-hazàrd che favoriscano
  l'uso di pratiche fraudolente.
      Il commissario straordinario del Governo per il
  coordinamento delle misure antiracket    Audizione 15 dicembre
  1994 del prefetto Giorgio Musio.> ha sottolineato
  l'opportunità che tutte le domande debbano essere presentate
  esclusivamente alle prefetture territorialmente competenti (e
  non anche direttamente al Comitato), presso le quali sarebbe
  opportuno che si creassero appositi uffici di assistenza nei
  confronti delle vittime.  Il commissario straordinario ha
  altresì riconosciuto che molto spesso le pratiche non sono
  andate avanti, a causa delle incertezze insorte sul nesso di
  causalità tra l'attentato subito dalla persona che presenta la
  domanda e gli atteggiamenti di contrasto
 
                              Pag. 227
 
  al racket tenuti dalla medesima persona, ragion per
  cui egli ha provveduto a chiarire, con una diretttiva, che la
  procedura va assolutamente sganciata dal momento
  dell'accertamento giudiziario e va ancorata esclusivamente
  alla condizione che "non risulti infondata la prospettazione
  del fatto estorsivo" e che "non si ravvisino elementi che
  inducano a considerare fraudolenta la condotta di chi presenta
  la domanda".  Il che corrisponde ad una sorta di parziale
  inversione dell'onere della prova e dovrebbe, auspicabilmente,
  incoraggiare i prefetti ad assumersi più decisamente la
  responsabilità di considerare accertata positivamente la
  sussistenza del nesso di causalità, tutte le volte in cui non
  sussistano elementi  specifici  in contrario.
      Resta da definire il ruolo delle associazioni
  anti-racket, in considerazione della tutela che la forma
  associativa può rappresentare per le vittime che collaborano
  con l'Autorità giudiziaria.  Si pone anche un problema di
  selezione di quelle che effettivamente presentano requisiti di
  serietà e affidabilità anche in relazione all'eventuale
  funzione di sostegno, in termini di convalida della veridicità
  delle motivazioni a corredo di istanze individuali.  Andrebbe
  valutato, sotto tale profilo, anche l'eventuale apporto delle
  associazioni di categoria, che possono fornire referenze più
  approfondite su eventuali associati che dovessero inoltrare
  richieste di ammissione ai benefici di legge.
  5.  L'attività di contrasto alla penetrazione degli
  interessi criminali nell'economia "legale".  Il sistema
  bancario e l'attività di riciclaggio.
      Lo sviluppo, la diffusione e la pervasività della
  criminalità organizzata hanno indotto negli ultimi anni i
  paesi industrializzati a individuare forme di contrasto
  adeguate alla progressiva penetrazione degli interessi
  criminali nell'economia "legale".
      Gli obiettivi di diversificazione economica e finanziaria
  ora perseguiti dalle maggiori organizzazioni delinquenziali
  vanno ad inserirsi in un contesto di integrazione e di
  globalizzazione dei mercati; una valida strategia di
  interdizione deve quindi assumere connotati di
  interdisciplinarietà, essere dimensionata su scala
  sovranazionale e basarsi su un'azione fortemente coordinata.
  In tale ottica, ogni stato della Comunità internazionale è
  chiamato a profondere il proprio impegno in modo coerente
  all'operato degli altri.
      Questi aspetti sono stati costante oggetto di analisi e
  valutazione da parte della Commissione, che si è altresì
  impegnata a favorire l'acquisizione di una più completa
  informativa sul piano tecnico-legislativo con l'audizione del
  Governatore della Banca d'Italia, dott. Antonio Fazio, del 7
  ottobre 1994.
      L'impegno scaturito nella promozione di valide soluzioni
  normative è caratterizzato da una duplice consapevolezza:
  dell'efficacia, sul piano investigativo e repressivo, di una
  sistematica azione di attacco ai patrimoni di formazione
  illecita nel momento della loro "trasformazione" in attività
  economiche o finanziarie "pulite"; della necessità di
  prevenire elementi di instabilità nei mercati finanziari e nel
  sistema dei pagamenti, generati dall'afflusso di ingenti
  risorse.
 
                              Pag. 228
 
      Infatti, per il primo aspetto, la fase di riciclaggio
  costituisce un momento di strutturale "debolezza" nel circuito
  di produzione ed impiego dei proventi di origine criminosa, in
  quanto si rende necessario l'intervento di operatori che,
  seppur contigui all'organizzazione delinquenziale, ne
  risultano fondamentalmente estranei per logiche ed estrazione
  comportamentale.
      Per il secondo aspetto, la ricollocazione dei capitali di
  provenienza criminosa, avendo finalità non propriamente
  economiche, può alterare l'affermazione di corretti criteri
  allocativi, minacciando l'integrità dei singoli operatori e
  minando la stessa affermazione della libera iniziativa, con un
  danno all'efficienza e alla stabilità complessiva del sistema
  finanziario.
      5.1 Tali esigenze hanno costituito dei punti di
  riferimento alla recente evoluzione dell'ordinamento bancario
  e finanziario italiano.  Infatti, sono state introdotte
  numerose previsioni normative specificamente finalizzate a
  contrastare l'attività di riciclaggio, in linea con gli
  obiettivi di coordinamento su scala internazionale che il
  carattere di "globalita" assunto dal fenomeno ha imposto.
      In particolare, la legge del 5 luglio 1991, n. 197,
  rappresentando il primo intervento legislativo con carattere
  di organicità per la prevenzione e il contrasto del fenomeno,
  ha avuto un impatto sulla comunità finanziaria fortemente
  innovativo, avendo tra i suoi obiettivi lo sviluppo di
  un'etica professionale e di una cultura che coniughi i doveri
  giuridici a valori deontologici.
      Il mutamento disciplinare ha assunto sia una portata
  "strutturale", con l'introduzione di controlli su tutti i
  soggetti creditizi e finanziari anche nella fase di
  costituzione, sia una portata "operativa", con l'emanazione di
  disposizioni sulle modalità di rilevazione delle singole
  operazioni "a rischio".
      Sul piano strutturale, è stato realizzato un
  significativo ampliamento del novero dei soggetti sottoposti a
  controlli, qualificando giuridicamente attività di carattere
  finanziario in precedenza svolte senza alcuna forma di
  supervisione.  Tutti i soggetti che esercitano attività
  finanziaria sono stati equiparati, ai fini
  dell'assoggettamento, ai tre fondamentali obblighi
  antiriciclaggio (identificazione, registrazione e segnalazione
  di operazioni sospette).
      Sul piano operativo, i punti qualificanti di tale
  disciplina sono rappresentati dal divieto di trasferimenti
  significativi di contante, se non a mezzo di intermediari
  abilitati e sottoposti a vigilanza; dall'obbligo per tali
  intermediari di registrare le transazioni della specie e
  identificare la clientela richiedente, facendo affluire le
  informazioni in un archivio informatico aziendale di agevole
  accesso alle autorità di controllo; all'obbligo di
  segnalazione da parte degli enti creditizi e finanziari delle
  operazioni sospette, che ha introdotto il principio della
  collaborazione "attiva".
      I rilevanti cambiamenti introdotti dalla nuova legge, in
  parallelo all'evoluzione complessiva che assumeva l'intero
  quadro normativo del sistema finanziario, hanno comportato non
  pochi problemi nella fase di attuazione; ciò in particolare,
  per la complessità delle fattispecie da
 
                              Pag. 229
 
  disciplinare nella fase di normazione secondaria e la
  difficoltà di avvio organizzativo e procedurale dell'attività
  di vigilanza sui nuovi soggetti da parte degli enti
  istituzionalmente preposti (Ministero del Tesoro, UIC, Banca
  d'Italia, CONSOB, ISVAP, Guardia di Finanza, ecc.).
      Tra i provvedimenti attuativi, si rammentano i decreti
  del Ministero del Tesoro: del 19.12.1991, sulle disposizioni
  in tema di identificazione dei soggetti e registrazione dei
  dati; del 7.7.1992, sulla standardizzazione per la costruzione
  dell'archivio unico informatico; del 7.8.1992 sulle modalità
  con le quali l'UIC effettua analisi statistiche dei dati
  aggregati per far emergere fenomeni di riciclaggio in
  determinate zone territoriali; del 30.12.1992 di modifica dei
  precedenti; del 29.10.1993 sulle modalità di identificazione
  dei soggetti e registrazione dei dati nell'ambito dei rapporti
  intercreditizi internazionali.
      Alcune previsioni originarie della "197" sono state
  altresì modificate dall'entrata in vigore del Testo Unico (D.
  Lgs. n.385 del 1^ settembre 1993), che ha ridisegnato le
  caratteristiche degli enti da assoggettare a controllo.  Le
  innovazioni hanno riguardato la distinzione tra gli
  intermediari che svolgono professionalmente attività di
  carattere finanziario e i soggetti che, pur svolgendo attività
  della specie, non operano nei confronti "del pubblico".
      I soggetti finanziari non bancari si articolano ora in
  quattro categorie: intermediari che svolgono attività nei
  confronti del pubblico, iscritti nell'elenco "generale"
  gestito dall'UIC (art. 106 T.U.); intermediari che, in
  riferimento all'attività svolta, alla dimensione ed al
  rapporto tra indebitamento e patrimonio, sono iscritti in un
  elenco "speciale" tenuto dalla Banca d'Italia (art.107);
  soggetti che svolgono attività finanziaria in via esclusiva e
  prevalente, ma non nei confronti del pubblico, iscritti in
  apposita sezione dell'elenco generale (art.113); consorzi di
  garanzia collettiva fidi, di cui alla legge n.315/91, iscritti
  in apposita sezione dell'elenco generale.  La mancata
  iscrizione ad uno degli elenchi integra la fattispecie di
  esercizio abusivo di attività finanziarie, ora prevista e
  sanzionata quale illecito penale dall'art. 132 T.U.
      Per rendere operanti tali previsioni, è stata realizzata
  un'ulteriore fase di normazione amministrativa: si ricordano i
  tre D.M. del 6 luglio 1994, aventi rispettivamente ad oggetto
  i criteri in base ai quali sussiste l'esercizio in via
  prevalente, non nei confronti del pubblico, delle attività
  finanziarie di cui all'art. 106; le modalità di iscrizione dei
  soggetti operanti nel settore finanziario di cui agli artt.
  106, 113 e 155 del D. lgs. n.385/93; la determinazione del
  contenuto delle attività indicate nell'art. 106, comma 1,
  nonchè in quali circostanze ricorre l'esercizio nei confronti
  del pubblico.  Con il D.M. del 28/7/1994 è stato disciplinato
  l'esercizio in Italia delle attività finanziarie elencate
  nell'art. 106, comma 1, da parte di soggetti aventi sede
  legale all'estero.
      In sostanza, tali disposizioni hanno previsto una forma
  di controllo di "stabilità", peraltro attenuata rispetto ad
  altri intermediari creditizi e finanziari, solo sui soggetti
  di cui all'art. 107, mentre per gli altri sono richiesti
  essenzialmente requisiti preventivi ed obbligo di iscrizione
  negli elenchi.
      Gli operatori finanziari censiti sono attualmente 20.184,
  di cui: 1.758 nell'elenco generale ex art.106 (di questi
  ultimi, 266 nell'elenco
 
                              Pag. 230
 
  speciale ex art .107); 19.275 non esercenti presso il
  pubblico, inclusi nella sezione dell'elenco generale ex
  art.113; 751 nella sezione dei consorzi di garanzia collettiva
  fidi.
      Razionalizzati i criteri di accesso all'attività
  finanziaria e inquadrati i soggetti "abilitati" in un sistema
  di controlli, permanevano difficoltà di ordine operativo per
  l'effettiva andata "a regime" delle specifiche disposizioni
  relative al monitoraggio e alla segnalazione delle operazioni
  "sospette".
      Due interventi normativi hanno contribuito a "sbloccare"
  l'efficacia delle procedure e dei controlli previsti dalla
  "197": la modifica degli artt. 648-bis e 648-ter del codice
  penale e la pubblicazione da parte della Banca d'Italia delle
  "Indicazioni operative per la segnalazione di operazioni
  sospette" (cd. "decalogo").
      La legge n.328 del 9 agosto 1993, che ha innovato secondo
  le indicazioni della Convenzione di Strasburgo i cennati
  articoli del codice penale, ha esteso la nozione del reato di
  "riciclaggio", ricomprendendo in essa il reimpiego in attività
  legali dei proventi derivanti da qualsiasi delitto non
  colposo.  In precedenza, infatti, la fattispecie era collegata
  a ipotesi definite di reato (traffico di droga, estorsione
  aggravata, sequestro di persona o rapina aggravata) e le
  banche erano chiamate, per decidere se effettuare o meno la
  segnalazione, a individuare la tipologia di illecito, oltre
  l'origine "sospetta" del denaro.  L'estrema cautela degli enti
  creditizi, in assenza di adeguati strumenti d'indagine, e la
  conseguente esiguità del numero delle segnalazioni rendevano
  la norma di scarsa efficacia.
      Il "decalogo", emanato dalla Banca d'Italia nel febbraio
  1993 ed aggiornato nel novembre del 1994, contiene, oltre ad
  un insieme di "guidelines" che dovrebbero indurre gli enti
  creditizi ad acquisire una conoscenza sempre più approfondita
  del proprio cliente (principio del "know your customer"), una
  casistica esemplificativa di indici oggettivi di anomalia, in
  presenza dei quali l'intermediario può valutare se le
  transazioni poste in essere dal cliente siano o meno
  connaturate alle caratteristiche della sua attività; la banca,
  esaminato lo "screening" ed esperiti gli approfondimenti
  opportuni, può così decidere in quali casi procedere ad
  informare l'Autorità investigativa.
      Tali interventi hanno altresì contribuito a definire e
  chiarire i differenti piani di responsabilità dei soggetti
  coinvolti dalla procedura prevista dalla legge 197: la
  "collaborazione attiva" degli enti creditizi e finanziari
  rileva solo nell'appurare l'eventuale anomalia sul piano
  tecnico di talune transazioni e l'insorgenza di un mero
  sospetto sul carattere illegale dei fondi utilizzati.  La
  trasmissione della segnalazione ad un Organo d'indagine
  determina l'uscita dalla "sfera finanziaria" dell'informazione
  e il suo passaggio sul piano dell'accertamento investigativo,
  al fine di vagliare la reale sussistenza di ipotesi di
  reato.
      5.2 Il sistema bancario sì è "attrezzato" sul piano
  statistico-informatico sviluppando il sistema GIANOS, che
  consente il primo screening delle operazioni in via
  automatica.  La valutazione oggettiva dei responsabili della
  banca rimane comunque centrale nella logica complessiva
 
                              Pag. 231
 
  della procedura e costituisce l'imprescindibile
  premessa all'inoltro della segnalazione all'Autorità di
  polizia.
      Gli operatori, avendo ora percorsi più lineari di
  analisi, hanno così moltiplicato le segnalazioni: nel 1994
  sono stati 732 i casi (contro 191 del 1993) che hanno dato
  corso ad approfondimento di indagine da parte della Guardia di
  Finanza.
      A tali riferimenti delle singole aziende, si aggiungono
  le elaborazioni "di sistema" prodotte dall'UIC.  Questo infatti
  analizza a livello aggregato i dati inviati mensilmente dagli
  intermediari abilitati sui trasferimenti di denaro, con
  particolare riguardo a quelli relativi a transazioni in
  contante e in titoli al portatore, al fine di individuare
  eventuali "zone di anomalia" per l'entità o la "direzione" dei
  flussi finanziari.
      L'UIC, che si è trovato a dover gestire una notevole mole
  di informazioni (si è passati dagli 11 milioni di record nel
  1993, equivalenti a 379 milioni di operazioni, ai quasi 15
  milioni del 1994, corrispondenti a circa 410 milioni di
  operazioni), ha definito tecniche di ricerca e di analisi
  statistica dei dati aggregati che consentono di rilevare
  fenomeni significativi in ciascun contesto territoriale e,
  specificamente, in quelli considerati "a rischio" anche
  incrociando le informazioni con dati di altre fonti, anche su
  base locale.  In particolare, al fine di ottenere risutati
  qualitativamente più elevati, è in fase di studio la
  possibilità di applicazione di ulteriori sofisticati strumenti
  informatici, quali le reti neurali e la visualizzazione
  scientifica.
      5.3 L'attività di analisi di carattere "macro", basata su
  elaborazioni e analisi statistiche di sistema, trova il
  necessario complemento nei controlli aziendali predisposti ed
  effettuati dall'UIC e dalla Banca d'Italia, d'intesa con la
  CONSOB, e dalla Guardia di Finanza, per le società finanziarie
  non operanti con il pubblico.
      Momenti salienti, infatti, della più ampia attività di
  vigilanza, in relazione alle finalità della legge n.197/91,
  sono stati, nello scorso anno, la verifica del rispetto da
  parte degli intermediari abilitati delle procedure imposte per
  prevenire l'inquinamento del sistema finanziario, la tenuta e
  la gestione dell'elenco degli intermediari abilitati con
  connessi compiti di verifica della documentazione trasmessa e
  le procedure sanzionatorie connesse ad infrazioni della
  richiamata legge.  Per queste ultime, su un novero di 26.000
  segnalazioni pervenute, risultano elevati 14.000 processi
  verbali, di cui 9.500 già definiti con decreto del Ministero
  del Tesoro.  L'importo delle sanzioni irrogate è stato di circa
  1,6 miliardi di lire.
      Di particolare rilievo risulta l'attività del Comitato,
  costituito presso il Ministero del Tesoro con D.M. dell'8
  giugno 1993, per la risoluzione delle problematiche connesse
  all'applicazione della legge n.197/91 e di cui fanno parte
  rappresentanti del Tesoro, della Banca d'Italia, dell'UIC e
  della Guardia di Finanza.  Essa è stata soprattutto indirizzata
  all'emanazione di pareri ed interpretazioni tendenti ad
  assicurare uniformità di applicazione delle disposizioni a
  fattispecie diversificate.
 
                              Pag. 232
 
      5.4 Il riciclaggio è un'attività in costante mutazione ed
  assume forme via via più complesse; in relazione a ciò, si
  rende necessaria un'opera continua di adeguamento delle
  disposizioni, che, nel contesto italiano, è facilitata
  dall'impianto di elevata flessibilità della legge n.197/91.
      Dopo la fase di iniziale "rodaggio", dovuto anche alla
  dimensione delle innovazioni introdotte, sembra prefigurarsi
  un progressivo dispiegamento dell'efficacia delle soluzioni
  normative adottate.  Peraltro, alcune disfunzioni più
  rilevanti, emerse in questa fase di prima applicazione della
  disciplina, potrebbero indurre ad utilizzare l'occasione
  offerta dal disegno di legge "comunitaria" per il 1994, che
  ricomprende il recepimento della direttiva dell'Unione Europea
  in materia, per operare alcune modifiche anche al "corpus"
  della "197".
      Il provvedimento, approvato dalla Camera dei Deputati il
  4 aprile 1995, è attualmente all'esame del Senato (DDL
  n.1600/S) e prevede un'"integrazione" della disciplina
  vigente, poichè quest'ultima gia costituisce il pieno
  recepimento delle previsioni della direttiva UE.  Nell'art. 10
  sono delineati i princìpi e i criteri direttivi di tale
  integrazione: in particolare, è previsto, tra l'altro, il
  riordino del regime di segnalazione al fine di conseguire la
  massima efficacia e tempestività nell'organizzazione,
  trasmissione, ricezione ed analisi delle segnalazioni;
  l'adozione di adeguate misure dirette alla protezione dei
  soggetti che effettuano le segnalazioni e alla tutela della
  riservatezza delle stesse in ogni sede; l'estensione della
  disciplina della "197" a quelle attività particolarmente
  suscettibili di utilizzazione a fini di riciclaggio per il
  fatto di realizzare l'accumulazione o il trasferimento di
  ingenti disponibilità economiche o finanziarie.
      In relazione ai primi due obiettivi, un'ipotesi
  praticabile sembrerebbe quella di far confluire le
  informazioni in organo centrale specializzato in materia
  finanziaria, in grado di rendere agevole e uniforme il
  colloquio con gli intermediari e di consentire una valutazione
  tecnica preventiva del grado di anomalia delle singole
  operazioni.  Le finalità di tutela personale degli operatori
  finanziari verrebbero assicurate attribuendo una
  qualificazione processuale di "atto pre-investigativo" alla
  segnalazione, in modo da non implicare la chiamata in causa in
  veste testimoniale del soggetto che ha effettuato la
  stessa.
      I rapporti tra intermediari e organi inquirenti potranno
  inoltre divenire più agili e meno costosi attraverso
  l'istituzione dell'anagrafe dei conti e dei depositi della
  clientela prevista dall'art. 20 della legge n.413 del 1991,
  che consentirà di individuare rapidamente gli operatori presso
  i quali indirizzare gli accertamenti di polizia giudiziaria,
  senza ampliare le richieste a tutto il sistema nazionale.  Va
  perciò colmato il ritardo nell'emanazione del decreto
  istitutivo della banca dati anagrafica, previsto dalla legge
  entro il mese di giugno del 1992.
      Tra i settori per i quali appare opportuna l'estensione
  della disciplina antiriciclaggio, particolare rilevanza
  assumono le case da gioco e le società di servizi per il
  trasporto di valori; queste, infatti, all'attività iniziale
  accompagnano sempre più di frequente ulteriori funzioni di
  smistamento delle banconote.  Piu in generale, andrebbero
  assoggettati
 
                              Pag. 233
 
  agli obblighi della "197" tutti coloro che svolgono, anche
  nell'esercizio di professioni codificate, funzioni di
  mediazione e di procacciamento di affari nel settore
  finanziario.
      5.5 Il quadro normativo vigente, seppur richiede margini
  di miglioramento, fornisce strumenti adeguati, se
  correttamente utilizzati, per il contrasto all'attività di
  riciclaggio.  Tale assunto trova conferma nelle valutazioni
  positive degli organismi sovranazionali preposti allo studio e
  alla repressione del fenomeno (GAFI) e nei riconoscimenti in
  sede ONU e OCSE alle professionalita e alle esperienze
  acquisite dagli operatori italiani.
      Da ultimo, la prospettata attribuzione all'Italia della
  presidenza del Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale
  (GAFI) nella sessione 1996/1997 costituisce un ulteriore
  attestato di riconoscimento internazionale per l'impegno del
  nostro Paese nella lotta al riciclaggio.
      I principi informatori e le scelte strategiche a presidio
  di tale disciplina, coerenti alle riflessioni maturate nelle
  sedi internazionali (ONU, Convenzione di Vienna del 1988,
  Comitato di Vigilanza Bancaria di Basilea, Dichiarazioni di
  principi del 1988) e fondati su valori etici e di deontologia
  comuni al sistema bancario mondiale, risultano conformi sia ai
  documenti di indirizzo (Raccomandazioni del GAFI), sia alla
  normativa comunitaria (Direttiva n.91/308), come peraltro già
  attestato dalla Commissione "Antimafia" nella Relazione
  annuale del 19.2.1992. Essi confermano la loro validità anche
  alla luce delle più recenti linee evolutive della riflessione
  in materia (Conferenza ONU sulla Criminalità transnazionale di
  Napoli, giugno 1994).
      Gli interventi modificativi devono essere quindi
  realizzati nel segno della coerenza e della continuità con le
  norme attuali; ciò anche al fine di rendere proficui gli
  investimenti di risorse sinora effettuati e stabili i
  risultati raggiunti sul piano del coordinamento delle
  discipline e delle pratiche operative tra i vari paesi.
      Il carattere di "globalità" assunto dalla criminalità
  organizzata deve comunque indurre il nostro Paese a rendersi
  parte promotrice di un' azione costante e convinta di stimolo
  nei consessi internazionali per sensibilizzare gli stati ove
  il livello di attenzione al fenomeno è ancora scarsa ad
  uniformare la propria legislazione agli standards
  internazionali.  Si deve pervenire al convincimento comune che
  la diffusione della criminalità economica, in quanto può
  precorrere la presenza "fisica" delle organizzazioni
  malavitose, mina la stabilità istituzionale e la convivenza
  civile anche di quei paesi che possono apparire "distanti" per
  geografia e cultura dalle forme tradizionali di delinquenza.
  Esistono, infatti, "anelli deboli" che costituiscono, in
  presenza di discipline sempre più restrittive e di sistemi di
  supervisione più efficienti negli stati più evoluti, comodi
  canali di riciclaggio e accesso al circuito legale per la
  criminalità organizzata, per il tramite di vere e proprie
  operazioni di "arbitraggio" tra i differenti contesti
  normativi.
      Un discorso specifico riguarda i centri "off-shore": tali
  piazze finanziarie sono in notevole espansione e devono il
  loro successo, come ha sottolineato il Governatore della Banca
  d'Italia nella richiamata audizione, alla mancanza dei vincoli
  e dei controlli sui trasferimenti e
 
                              Pag. 234
 
  depositi dei fondi; attraverso il transito formale dei
  movimenti di denaro per enti residenti in tali centri possono
  essere aggirate le misure predisposte nei paesi di origine
  degli operatori.
      Per avere un'idea della dimensione dell'operatività
  raggiunta in alcuni di essi, si citano le rilevazioni a
  dicembre '94 inerenti l'esposizione per cassa del sistema
  bancario italiano: verso le Isole Cayman essa era di circa
  8.500 miliardi di lire, con Honk Kong di 8.700 miliardi, con
  Singapore di 9.000 miliardi, con le Bahamas di 5.000 miliardi.
  Esse sopravanzano, ad esempio, i crediti verso taluni
  tradizionali partners commerciali dell'Italia (Argentina 5.600
  miliardi, Venezuela 1.100 miliardi), ovvero anche verso
  partner comunitari (i crediti verso la Spagna erano pari a
  9.600 miliardi) o paesi europei a spiccata "vocazione
  finanziaria" (Svizzera, 6.000 miliardi).
      Un altro punto critico, sotto il profilo in discorso, è
  rappresentato dalla Repubblica di San Marino.  Qui il sistema
  creditizio (5 banche con 26 sportelli; una di esse ha funzione
  di banca centrale ma solo per il rifinanziamento del sistema
  locale) opera essenzialmente come intermediario di capitali
  italiani e presenta crescenti volumi di attività, soprattutto
  dal lato della raccolta (al 31.3.95 sono state rilevate
  operazioni di pronti contro termine "di raccolta" per 3.900
  miliardi circa; nel 1991 queste erano pari a 1.300 mld).  Il
  sistema di vigilanza non appare adeguato agli standards
  previsti a livello internazionale (Accordi di Basilea) e anche
  il reperimento delle informazioni da parte delle autorità
  appare carente.  Tali caratteristiche inducono a sottolineare
  l'estrema potenziale pericolosità, data anche la contiguità
  geografica con l'Italia, di tale canale per il riciclaggio dei
  proventi di attività criminose.
      Anche la crescita delle transazioni finanziarie con
  alcuni paesi dell'Est europeo deve spingere a promuovere forme
  di collaborazione e cooperazione sempre più stringenti con
  tali governi, per la rapida realizzazione di legislazioni e
  strutture di controllo consone al grado di progressiva
  apertura di tali economie.
      La Presidenza italiana del GAFI potrebbe costituire
  l'occasione, riprendendo le linee di "approccio globale"
  concordate nella Conferenza ONU sul Crimine Transnazionale di
  Napoli del 1994, per intensificare i contatti ed aumentare il
  convolgimento dei paesi non OCSE negli obiettivi comuni in
  materia di vigilanza sul sistema bancario e finanziario.  La
  ricerca e la promozione dell'omogeneizzazione normativa nei
  confronti di questi paesi, suffragata dalla massima
  disponibilità a forme di cooperazione e consulenza da parte
  del "Gruppo di Basilea", potrebbe essere accompagnata dallo
  studio di misure atte a penalizzare, sotto il profilo della
  convenienza economica, le transazioni finanziarie con i
  soggetti residenti negli stati che si mostrino recidivamente
  inadempienti nell'approntamento di idonee normative
  antiriciclaggio.  Potrebbe essere costituito in ambito
  internazionale un osservatorio permanente tra autorità
  tecniche, che verifichi il grado di attuazione normativa dei
  princìpi concordati in sede internazionale, coordini il
  reperimento e la circolazione delle informazioni tra gli
  organi di vigilanza dei vari paesi ed effettui analisi
  statistiche sui dati relativi ai flussi finanziari per
  individuare situazioni di "anomalia".
 
                              Pag. 235
 
      Sul piano della "self-discipline", le maggiori banche
  mondiali potrebbero sottoscrivere un'intesa comune che affermi
  principi deontologici conformi a quelli di legalità
  comunemente riconosciuti, con particolare riferimento
  all'impegno per la lotta al riciclaggio.
      Si potrebbe prevedere una sorta di "affidavit" che, in
  materia di rapporti internazionali superiori ad certo
  ammontare, l' istituto creditizio o finanziario incaricato,
  nel novero di quelli indicati dalla direttiva della CEE
  suddetta, avrebbe l'onere di rilasciare all'interlocutore
  estero sulla rispondenza dell'operazione alle caratteristiche
  economiche e finanziarie del cliente, oltre che alla serietà
  di quest'ultimo: ossia agli accennati elevati standards etici
  della dichiarazione del Comitato di Basilea.
      Sarebbe auspicabile che, in siffatta prospettiva, i Paesi
  aderenti alla CEE analizzassero a fondo tali ipotesi di
  rafforzamento del sistema e i controlli onde adeguare
  reciprocamente la rispettiva normativa interna impegnandosi a
  mantenere tale comune atteggiamento verso gli Stati esterni
  alla UE.
      La previsione di una sanzione, ove dovessero emergere in
  realtà sottostanti condotte di riciclaggio - a meno che
  l'intermediario non dimostrasse con le credenziali in suo
  possesso di avere agito in buona fede e senza colpa - potrebbe
  sotto altro aspetto valere a richiamare anche le istituzione
  bancarie dei Paesi cosiddetti "off-shore", pur nel rispetto
  delle legislazioni nazionali a tutela dell'anonimato nei
  rapporti economici, o per meglio dire dell'anonimato lecito,
  ad una minor "disinvoltura", più volte viceversa emersa, di
  comportamento nella intermediazione creditizia e finanziaria,
  soprattutto nell'accettare ordini da clienti sospetti, quando
  non addirittura ben noti per la loro criminosa attività.
      Affermandosi una regola del genere, l'esigenza di
  affrancarsi da profili di responsabilità collegati all'
  "affidavit", potrebbe risolversi nell'indurre tali
  intermediari a rendere noti alle Autorità giudiziarie ed
  investigative importanti dati, atti a ricostruire il percorso
  e la natura reale dell'operazione nonchè dei veri soggetti
  coinvolti.
  6.  Gli strumenti legislativi nel contrasto al riciclaggio.
      La Commissione ha dedicato una parte della sua attività
  all'esame di strumenti legislativi di maggiore efficacia nel
  contrasto al riciclaggio, approvando anche un documento di
  proposta.
      Con la legge 9 agosto 1993, n.328, l'Italia ha ratificato
  la Convenzione fatta a Strasburgo l'8 novembre 1990, sotto
  l'egida del Consiglio d'Europa, avente come oggetto il
  riciclaggio, l'investigazione, il sequestro e la confisca
  delle ricchezze criminali.
  (40) Si tratta della Convenzione n.141
  del Consiglio d'Europa.  Lo stato delle firme e delle ratifiche
  al marzo 1995 è il seguente: hanno firmato la Convenzione
  ventidue Paesi, alcuni dei quali (come l'Australia) estranei
  al Consiglio d'Europa; sette dei Paesi firmatari hanno
  provveduto a depositare gli strumenti di ratifica: Bulgaria,
  Finlandia, Gran Bretagna, Italia, Norvegia, Paesi Bassi e
  Svizzera.  La Convenzione è aperta alla firma di altri Stati.
  La Convenzione obbliga gli Stati contraenti a prestarsi
  reciproca assistenza e ad adeguare
 
                              Pag. 236
 
  le proprie normative interne in guisa tale da rendere più
  efficace e incisiva l'attività di indagine sulle ricchezze
  criminali, sia al fine di facilitarne "l'identificazione e il
  rintraccio" sia al fine di facilitare "la raccolta delle
  relative prove" (art. 4), e ciò nella prospettiva di
  consentire il sequestro e la confisca delle medesime ovunque
  esse si trovino.
      Il principio che emerge dalla Convenzione è quello di un
  obbligo degli Stati a privilegiare le indagini patrimoniali
  sulle ricchezze illecite (eventualmente anche attraverso
  appropriate modifiche della normativa interna) nell'ambito dei
  processi penali, posto che nell'art. 1 della Convenzione si dà
  una definizione del termine "confisca" che - con riferimento
  all'ordinamento italiano - è tale da ricomprendere la sola
  confisca penale: "una sanzione o misura, ordinata da una
  autorità giudiziaria a seguito di un procedimento per uno o
  più reati, che consiste nel privare definitivamente di un
  bene".
      Ciò implica che, con riferimento alla normativa italiana,
  si deve prendere atto che sul piano internazionale la confisca
  penale ha un respiro ampio perchè potrà essere eseguita anche
  all'estero, su beni ubicati in uno dei Paesi firmatari della
  Convenzione, il che ha un grosso rilievo, posto che le
  maggiori organizzazioni criminali hanno per lo più sfere di
  interessi che spaziano al di là dei confini di un singolo
  Stato.  Mentre la confisca prevista dalla normativa sulle
  misure di prevenzione ha un respiro corto, perchè è
  sostanzialmente impossibile ottenerne l'esecuzione
  all'estero.
      Tutto questo non significa che il nostro Paese non debba
  continuare a far tesoro anche delle misure di prevenzione
  patrimoniali, ma significa che occorre rendere più incisive le
  indagini sui cespiti di ricchezza dei gruppi criminali
  all'interno dei processi penali per poter privilegiare il più
  possibile la confisca penale rispetto alla confisca di
  prevenzione.  Sia perchè le prospettive della "confisca
  internazionale" si muovono in questa direzione, sia perchè
  l'Italia ha assunto in questo senso un obbligo internazionale
  in forza dell'art. 4 della Convenzione, sia perchè solo così
  si eleverà il livello investigativo degli inquirenti in
  materia di riciclaggio e di economia criminale, incentivandoli
  nella ricerca di prove sulle ricchezze delittuose e quindi,
  indirettamente, nella ricerca di prove obiettive e
  scientifiche sulle dinamiche interne ai gruppi criminosi che
  formano oggetto di indagine penale.
      La Commissione si è quindi posto il problema di come
  agevolare e incentivare le procure della Repubblica nella
  pratica sistematica delle indagini patrimoniali concatenate
  all'interno dei procedimenti penali di criminalità
  organizzata, sì da pervenire al sequestro e alla confisca
  penale di porzioni sempre maggiori di economia criminale.
      Infatti, sino ad oggi l'indagine patrimoniale in materia
  di criminalità organizzata è stata per lo più impiegata,
  nell'ambito delle relative inchieste giudiziarie, nei limiti
  in cui ciò appariva strettamente indispensabile al fine di
  acquisire elementi di prova a carico di questo o
  quell'indagato e in ordine al reato associativo o a
  determinati delitti-fine: una volta acquisiti elementi
  sufficienti a sostenere l'accusa a carico dei soggetti
  incriminati, l'indagine patrimoniale viene per lo più messa in
  disparte.  Orbene, la filosofia di Strasburgo impone un
  ribaltamento dell'atteggiamento culturale sin qui dominante
  nel senso che,
 
                              Pag. 237
 
  nelle inchieste sui sodalizi imprenditorial-criminali e sui
  relativi reati associativi di base, il pubblico ministero deve
  acquisire l'abito mentale di considerare "sotto inchiesta" non
  soltanto le persone (ai fini dell'eventuale sanzione penale
  che potrà essere loro irrogata), ma anche le relative
  ricchezze (ai fini dell'eventuale provvedimento di confisca
  che potrà essere loro applicato a norma dell'art. 240 comma 1
  c.p., dell'art. 416-bis comma 7 c.p., ovvero dell'art.
  12-sexies D.L. n.306 del 1992).  E deve quindi impiegare
  l'indagine patrimoniale normalmente e a tutto campo, non solo
  nei limiti in cui ciò può essere utile ad assicurare e
  consolidare gli elementi di accusa contro le persone, ma anche
  al di là di tali limiti e sino a quando non siano stati
  raccolti tutti i necessari elementi di "accusa" contro le
  ricchezze.
      A questo fine le inchieste penali sui gruppi criminali
  organizzati e sui relativi reati associativi di base esigono
  indagini patrimoniali specifiche, mirate, concatenate tra loro
  e finalizzate, nel loro insieme, a ricostruire le
  acquisizioni, le trasformazioni e i reimpieghi delle ricchezze
  illecite facenti capo ai gruppi criminosi oggetto di indagine.
  Si deve trattare di indagini orientate verso traguardi
  graduali e intermedi volta per volta ben determinati e
  complessivamente proiettati verso il traguardo finale della
  ricostruzione dei cespiti illegali.  Ciò perchè l'indagine
  patrimoniale può raggiungere il cuore economico delle
  organizzazioni criminali calcando pazientemente ogni singolo
  gradino della piramide.  In altri termini, l'indagine
  patrimoniale deve essere saldamente ancorata, in basso, ad uno
  o più fatti criminosi specifici e ad un quadro probatorio di
  base che consenta di ritenere la sussistenza di un sodalizio
  imprenditorial-criminale (e quindi di un reato associativo) e
  che consenta di considerare seriamente "indiziati" di origine
  delittuosa determinati cespiti di ricchezza; e deve poi
  svilupparsi come una catena, nella quale ogni singolo
  accertamento è un anello che si aggancia all'accertamento
  precedente e che costituisce la premessa dell'accertamento
  successivo.  Tutto questo non significa, sul piano del metodo
  dell'indagine, che il primo anello della catena di
  accertamenti patrimoniali debba necessariamente collocarsi
  alla base della piramide probatoria, ove dovranno invece
  collocarsi atti di indagine di varia natura, per lo più non di
  tipo economico, volti ad accertare i fatti criminosi specifici
  (ivi compresi quelli che, per loro natura, sono suscettibili
  di produrre ricchezza) e le condotte di partecipazione al
  reato associativo.  Ed invero, dire che l'indagine patrimoniale
  deve partire dal basso significa semplicemente che essa deve
  partire da un livello di trasformazioni economiche che sia
  ancora relativamente prossimo e facilmente ricollegabile a
  quella base probatoria, vale a dire da cespiti di ricchezza
  non genericamente sospetti, ma "indiziati", appunto, di
  origine illecita in quanto chiaramente riconducibili -
  ancorchè, magari, per interposta persona - a un determinato
  sodalizio imprenditorial-criminale che è già configurabile
  come tale in forza di un quadro probatorio di base.
      In questo quadro saranno suscettibili di trovare
  applicazione le due norme incriminatrici specifiche previste
  dagli artt. 648- bis  ("Riciclaggio") e 648-ter ("Impiego
  di denaro, beni o utilità di provenienza illecita") del codice
  penale.  Queste due norme non concernono le condotte
 
                              Pag. 238
 
  di riciclaggio primarie - vale a dire quelle poste in
  essere direttamente da chi ha commesso i reati produttivi di
  ricchezza illecita - ma sempre e soltanto eventuali condotte
  complementari e secondarie rispetto a quelle, in quanto poste
  in essere da soggetti diversi ed estranei ai
  delitti-presupposto che si siano prestate consapevolmente ad
  atti di riciclaggio di profitti criminosi ovvero ad atti di
  reimpiego dei medesimi.  Ma è evidente che la possibilità di
  accertare e di perseguire penalmente tali condotte secondarie
  (ancorchè, in ipotesi, di rilievo tutt'altro che secondario
  sul piano sostanziale) sarà pressochè inevitabilmente
  subordinata all'avvenuto accertamento delle condotte primarie,
  necessariamente da accertare nel quadro delle inchieste
  relative ai reati associativi di base.
      Questa particolare relazione intercorrente tra condotte
  di riciclaggio primarie e condotte di riciclaggio secondarie
  riflette il rapporto giuridico che viene a configurarsi tra le
  medesime, con particolare riguardo al reato associativo di
  tipo mafioso.
      I "riciclatori" interni al sodalizio mafioso, ivi
  compresi quelli che avessero il compito stabile ed esclusivo
  di "riciclaggio" sui profitti del sodalizio, non possono
  essere chiamati a rispondere del reato di cui all'art.
  648- bis  c.p., posto che tale norma si applica soltanto
  al di fuori dei casi di concorso nel reato presupposto.  Che
  per reato presupposto debba intendersi anche il reato
  associativo di tipo mafioso (e non già solamente i
  delitti-fine direttamente produttivi di ricchezza illecita) è
  dimostrato dal settimo comma dell'art. 416- bis  c.p., che
  prevede, proprio con riferimento al reato associativo, la
  confisca obbligatoria delle cose che costituiscono il prezzo,
  il prodotto o il profitto del reato o che costituiscono
  l'impiego dei predetti proventi.  Del resto i proventi del
  reato associativo di tipo mafioso - suscettibili di
  riciclaggio e di reimpiego - ricomprendono indifferentemente
  sia quelli derivanti dalla commissione di specifici
  delitti-fine, sia quelli derivanti da condotte riconducibili
  alle finalità paralecite dell'associazione (controllo di
  attività economiche, ecc.), in guisa tale che spesso può
  essere addirittura problematico distinguere i secondi dai
  primi.
      Di qui l'esigenza, di nuovo, che le condotte di
  riciclaggio secondarie vengano investigate o comunque
  ricondotte - attraverso concatenazioni di accertamenti
  patrimoniali - nel quadro dell'inchiesta relativa al reato
  associativo di base, preferibilmente partendo dalla relativa
  base probatoria e passando attraverso l'indagine sulle
  condotte di riciclaggio primarie: l'aver percorso in tal modo
  l' iter  investigativo "dal basso" comporterà il vantaggio
  di avere già in mano la prova del legame tra le attività
  delittuose del sodalizio ed i beni oggetto di condotte
  secondarie di riciclaggio, nel momento in cui l'attività
  investigativa raggiungerà tale livello.
      L'indagine patrimoniale concatenata consente di
  raggiungere, al termine del percorso processuale, il risultato
  della confisca penale di quelle porzioni di economia criminale
  di cui sia stato possibile ricostruire - con un supporto
  probatorio sufficiente e nel contesto complessivo dello
  smascheramento del rispettivo sodalizio criminoso -
  l'effettiva origine illecita.
      Peraltro, il limite della confisca penale prevista nel
  settimo comma dell'art. 416- bis  c.p. e nel primo comma
  dell'art. 240 c.p. sta
 
                              Pag. 239
 
  nella sua sostanziale incapacità di raggiungere e colpire
  quelle fasce di economia criminale ormai da tempo consolidate,
  di cui risulti impossibile ricostruire in maniera documentata
  le trasformazioni più remote e, quindi, l'origine ultima.
      E' su questo terreno che viene ad incidere efficacemente
  il nuovo meccanismo normativo di cui all'art. 12- sexies
  ("Ipotesi particolari di confisca") del decreto-legge 8 giugno
  1992, n.306 (articolo a sua volta introdotto dal decreto-legge
  20 giugno 1994, n.399, convertito nella legge 8 agosto 1994,
  n.501, e intitolato "Disposizioni urgenti in materia di
  confisca di valori ingiustificati").
      Quest'ultima norma, infatti, prevede un'ipotesi ulteriore
  di confisca penale obbligatoria che, nel rispetto delle
  necessarie garanzie, fissa taluni parametri precisi in base ai
  quali un determinato cespite di ricchezza va considerato come
  una porzione di economia criminale consolidata (e quindi come
  un cespite confiscabile), condizionando rigorosamente
  l'incidenza di tali parametri ad un'avvenuta pronunzia di
  penale responsabilità del soggetto interessato per determinati
  reati particolarmente congeniali alla imprenditorialità
  criminale.  A questa precisa condizione la norma prevede
  obbligatoriamente la confisca dei valori ingiustificati: "è
  sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre
  utilità di cui il condannato non può giustificare la
  provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o
  giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a
  qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito,
  dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria
  attività economica".  I reati-presupposto sono i seguenti:
  associazione di tipo mafioso; delitti comunque ricadenti nel
  programma criminoso di un'associazione di tipo mafioso;
  delitti commessi da soggetti estranei a un sodalizio di tipo
  mafioso, ma finalizzati ad agevolare l'attività di
  quest'ultimo; associazione per delinquere dedita al traffico
  di stupefacenti; episodi rilevanti di narcotraffico ricadenti
  o non ricadenti nel programma di un'associazione criminosa;
  delitti di riciclaggio e reimpiego di profitti criminosi;
  episodi rilevanti di contrabbando; delitti di estorsione e/o
  di sequestro di persona a scopo di estorsione; episodi
  rilevanti di ricettazione; delitti di usura e usura impropria;
  trasferimento fraudolento di valori.
      La confiscabilità dei "valori ingiustificati", come sopra
  individuabili, nell'ambito del processo penale fa sì che i
  medesimi cespiti di ricchezza diventino automaticamente
  passibili di sequestro preventivo a norma dell'art. 321 comma
  2 c.p.p. nel corso delle indagini preliminari relative ai
  reati-presupposto.
  7.  Gli strumenti di analisi per le indagini patrimoniali.
      La normativa processuale del nostro Paese è allo stato
  attuale tale da rendere estremamente problematica un'attività
  di indagine realmente approfondita - come quella appena
  descritta - e idonea a conseguire la confisca penale di
  rilevanti porzioni di economia criminale in considerazione
  della estrema complessità delle indagini che l'Autorità
  Giudiziaria è chiamata ad operare sul fronte dell'economia
  criminale.  La tecnica degli accertamenti patrimoniali
  concatenati è per lo
 
                              Pag. 240
 
  più incompatibile - dati anche i tempi lunghi che
  caratterizzano le procedure di assistenza giudiziaria
  internazionale - con il termine massimo assolutodi durata
  delle indagini preliminari, fissato in due anni dall'art. 407,
  comma 2, c.p.p.
      La Commissione, quindi, senza con ciò aver esaurito la
  problematica si è posta il problema di individuare una strada
  che, senza intaccare la filosofia complessiva del nuovo codice
  di procedura penale e senza stravolgerne i principi
  informatori, consenta di corrispondere all'esigenza sottesa
  dalla Convenzione di Strasburgo, che è poi l'esigenza di una
  più efficace attività di contrasto dell'economia criminale da
  parte degli uffici inquirenti.  In particolare la Commissione
  si è posto il problema di come agevolare e incentivare le
  procure della Repubblica nella pratica sistematica delle
  indagini patrimoniali concatenate all'interno dei procedimenti
  penali di criminalità organizzata, sì da pervenire al
  sequestro e alla confisca penale di porzioni sempre maggiori
  di economia criminale.
      Tale strada potrebbe essere individuata in un'adeguata
  modifica dell'art. 12- sexies  del D.L. dell'8 giugno 1992
  n.306 e del comma 7 dell'art. 416- bis del codice penale
  con la previsione di un meccanismo processuale che permetta il
  sequestro e la cofisca nei casi previsti dalla suddetta
  norma.
  8.  I nuovi indirizzi dell'economia ed il sistema delle
  privatizzazioni e delle dismissioni del patrimonio
  pubblico.
      8.1 La politica economica, intrapresa in modo più
  incisivo e irreversibile a far data dal 1993, è nel segno
  della soppressione dell'intervento straordinario dello Stato
  nell'economia del Mezzogiorno e di un programma di progressiva
  privatizzazione e dismissione di beni immobiliari dello Stato,
  in pratica di una recessione della mano pubblica dall'impegno
  diretto in molti settori produttivi.
      In linea di principio un aeestesa privatizzazione degli
  enti pubblici economici e non, un'estesa alienazione del
  patrimonio immobiliare dello Stato, un'ampia
  deregolamentazione a livello centrale e periferico, lo
  spostamento delle sovvenzioni dallo Stato o dall'ente locale
  agli istituti di credito agevolato, costituiscono un valido
  sistema per contenere quel fenomeno di ampia e sistematica
  corruzione, sia al Nord che al Sud, qui con le ulteriori
  connotazioni di convivenza con la malavita organizzata, è
  stato in rapporto direttamente proporzionale all'estensione
  della economia pubblica e alla sua gestione dell'economia da
  parte della classe politica, nella sua espressione deteriore
  partitocratica.
      Questo programma sta quindi nell'ottica di contribuire
  alla creazione di un libero mercato di concorrenza
  trasparente, l'unico che può incidere nel sistema collusivo e
  corruttivo spezzandone i legami e gli intrecci, e quindi di
  una soluzione al problema morale della vita pubblica.
      Il sistema delle privatizzazioni e dismissioni - e su
  questo tema dovrà incentrarsi l'attenzione della Commissione -
  potrebbe tuttavia costituire un ulteriore veicolo di
  riciclaggio e di inquinamento dell'economia
 
                              Pag. 241
 
  nazionale da parte della criminalità organizzata, già
  pervenuta ad elevato grado di "modernizzazione".
      Si fa di seguito riferimento a quelle disposizioni di
  recentissima emanazione che, tra gli altri fini, perseguono
  anche quello di evitare infiltrazioni di capitali di
  provenienza criminale nelle privatizzazioni e degli assetti
  proprietari delle banche.
      Si sottolinea comunque la necessità, da parte della
  Commissione, di una verifica dell'adeguatezza in astratto e in
  concreto di tale normativa rispetto alla finalità che si
  propone, trattandosi,con tutta evidenza, di una problematica
  che attiene al sano sviluppo della nostra economia e della
  nostra democrazia.
      Procedure di privatizzazione delle banche, controlli
  degli assetti proprietari e azione di contrasto del
  riciclaggio.
      8.2 Le disposizioni in materia di privatizzazioni delle
  partecipazioni azionarie dello Stato e degli enti pubblici,
  prevedono che di norma l'alienazione venga effettuata mediante
  offerta pubblica di vendita.  L'utilizzo di procedure diverse,
  segnatamente la trattativa diretta, deve essere autorizzato
  dal Presidente del Consigli dei Ministri ovvero, per le
  dismissioni deliberate dalle Fondazioni proprietarie delle ex
  banche pubbliche, dal Ministero del Tesoro.
  (41) Delibera cipe 30
  dicembre 1992; legge 30 luglio 1994, n.474; direttiva del
  Ministero del Tesoro 18 novembre 1994; circolare del Ministero
  del tesoro 28 giugno 1995.
      Nel ricorso al "private placement", l'intervento tutorio
  delle autorità consente, tra l'altro, di scongiurare il
  rischio di inserimenti nel processo di privatizzazione a fini
  di riciclaggio.
      In particolare, la direttiva del Ministro del tesoro 18
  novembre 1994 prevede che gli "enti conferenti" (cioè le
  Fondazioni) possono essere autorizzati a far luogo alla
  trattativa privata quando:  a)  la cessione avviene nei
  confronti di gruppi bancari, società finanziarie vigilate,
  imprese assicurative;  b)  si intenda costituire un nucleo
  stabile di azionisti.  In quest'ultimo caso la successiva
  circolare del 28 giugno 1995 prevede l'obbligo di indicare
  preventivamente al dicastero del Tesoro i soggetti invitati a
  partecipare alla trattativa.
      Nell'ipotesi in cui la privatizzazione avvenga attraverso
  offerta pubblica di vendita, occorre distinguere il caso in
  cui i fondi di provenienza illecita vengano impiegati con
  l'intento di impadronirsi della gestione della banca, ovvero
  per finalità di mero investimento finanziario.
      Nel primo caso, la legge 474 del 1994, recante norme per
  l'accelerazione delle procedure di dismissione, prevede la
  possibilità, per le banche interessate da processi di
  privatizzazione, di inserire nello statuto un limite massimo
  di possesso azionario riferito al singolo socio ed
  all'eventuale gruppo, anche familiare di appartenenza; prevede
  altresì l'obbligo di introdorre anche un'apposita clausola
  diretta a prevedere l'elezione degli amministratori mediante
  voto di lista (artt. 3 e 4).  Assetti di questo genere tendono
  ad impedire il formarsi di posizioni di dominio nell'ambito
  della compagine sociale.
      Nel secondo caso, invece, il contrasto antiriciclaggio è
  rimesso agli obblighi generali di monitoraggio svolti dagli
  intermediari finanziari,
 
                              Pag. 242
 
  ai sensi della legge 197 del 1991 e si applicano anche ai
  pagamenti connessi alla sottoscrizione di titoli di società
  nell'ambito di o.p.v..
      8.3 Un ulteriore momento di verifica della "qualità" del
  sottoscrittore dei titoli, sia esso di nazionalità italiana o
  estera, è rappresentato dal sistema dei controlli di vigilanza
  sugli assetti proprietari delle banche.
  (42) Fonti: decerto legislativo
  1^ settembre 1993 n.385, artt. 19 e 20; istruzioni
  di Vigilanza, cap.  XLVII, Partecipazione al capitale delle
  banche.
      Le disposizioni - che si applicano anche alle
  partecipazioni indirette- prevedono, infatti, che chiunque
  intenda acquisire, a qualsiasi titolo, azioni di una banca per
  quote superiori a soglie predeterminate (5 per cento, 10 per
  cento, 15 per cento, 20 per cento, 33 per cento, 50 per cento
  del capitale, ovvero il controllo) deve essere in via
  preventiva autorizzato dalla Banca d'Italia.  In particolare,
  nel caso di offerte pubbliche di vendita, i soggetti
  interessati non possono aderire all'offerta se non hanno
  ottenuto la predetta autorizzazione.
      Ai fini della valutazione della "qualità" dell'azionista
  vengono in rilievo i requisiti di onorabilità, della
  situazione finanziaria dei soggetti che presentano richiesta
  di autorizzazione.  Elementi informativi vengono acquisiti, tra
  l'altro, in ordine alla situazione economico-patrimoniale del
  soggetto che intende rilevare l'interessenza e alle eventuali
  fonti di finanziamento da attivare per la realizzazione
  dell'operazione.
      Qualora la partecipazione venga acquisita da soggetti
  appartenenti a Stati extracomunitari che non assicurano
  condizioni di reciprocità (tra questi di norma rientrano i
  c.d. centri off-shore), la banca d'Italia è tenuta a
  trasmettere la domanda di autorizzazione al Ministro del
  Tesoro, su proposta del quale il Presidente del Consiglio dei
  Ministri può vietare l'autorizzazione.
      Ai partecipanti al capitale delle banche è fatto inoltre
  obbligo di tenere informato l'organo di Vigilanza delle
  variazioni percentuali dell'interessenza detenuta, ferma
  restando ovviamente la necessità dell'autorizzazione al
  raggiungimento delle soglie previste.
      In assenza dell'autorizzazione o nel caso sia stata
  omessa la comunicazione, resta escluso per i titolari
  l'esercizio del diritto di voto relativo alle azioni possedute
  in eccedenza ai limiti fissati dalla normativa.
      8.4 Si tratta, dunque, di una disciplina avente carattere
  non solo formale ma anche spiccatamente sostanziale, con un
  grado di elasticità che le consente di adattarsi a situazioni
  particolari che dovessero verificarsi.
      Ciò che, tuttavia, non deve esimere la Commissione da
  quella attenta verifica di cui sopra si è detto.
 
                              Pag. 243
 
                         CONCLUSIONI
      L'esame delle tematiche sopra rappresentate, che hanno
  costituito oggetto del lavoro della Commissione Antimafia in
  questo primo anno di legislatura, aprono ad alcune riflessioni
  di carattere più generale.
      Le indagini giudiziarie hanno disvelato uno scenario
  davvero impressionante e mortificante dei valori e dei
  principi istituzionali sanciti dalla Costituzione, a causa
  della verificatasi occupazione delle Istituzioni da parte dei
  partiti con perfetta logica spartitoria, dilagata nel volgere
  degli anni; del grado di elevata illegalità e corruzione che
  ne era conseguita, peraltro progressivamente proporzionale
  alla inefficienza dell'apparato pubblico e alla mancanza di
  solidità competitiva dell'imprenditoria; del sempre più
  marcato distacco tra il cittadino e la politica.  Uno scenario
  che, per quanto ancora in gran parte da definirsi
  processualmente sotto il profilo delle singole responsabilità
  penali, raramente va oltre il 1992, anno di inizio delle più
  importanti inchieste.
      Non vi sono invece sufficienti conoscenze riscontrate
  dell'evoluzione e dei cambiamenti che possono essere
  intervenuti nè all'interno del meccanismo dei fitti intrecci
  di corruzione, nè più specificatamente all'interno delle
  organizzazioni mafiose, nè dei contatti che queste possono
  aver attivato o proseguito nel mondo politico, nè di
  un'eventuale continuità nei rapporti con i settori economici
  ed imprenditoriali.
      Ciò rende difficile un'analisi su cui basare fondatamente
  delle prospettive di prevenzione rispetto a futuri specifici
  accadimenti; non impedisce invero di delineare una prospettiva
  di carattere generale.
      Le inchieste giudiziarie, iniziate dalla Procura di
  Milano nel 1992 e successivamente anche da numerose altre
  Procure, in particolare del Sud, hanno, nel volgere di pochi
  mesi, travolto gran parte del sistema politico esistente e dei
  suoi esponenti di maggiore o minore rilievo, sotto il peso dei
  reati di concussione, corruzione, finanziamento illegale ai
  partiti e, nelle Regioni del Sud, anche di associazione
  mafiosa e voto di scambio.
      E' ragionevole ritenere che, quando nella primavera del
  1993 i cittadini furono chiamati con referendum ad esprimersi
  sul cambiamento del sistema elettorale, e si espressero a
  larghissima maggioranza a favore del maggioritario, in realtà,
  quel voto manifestava un deciso rifiuto dei partiti per il
  malcostume da essi ingenerato, che rendeva ormai asfittica la
  vita democratica del Paese.
      Il sistema elettorale maggioritario, che non è il caso di
  analizzare in questa sede, indubbiamente ha costituito una
  "rivoluzione culturale" e di certo un forte ostacolo nei suoi
  meccanismi ad un ritorno al passato, anche se il periodo di
  esperienza è troppo breve per formulare giudizi di una qualche
  fondatezza.
      Un rilievo tuttavia deve farsi come premessa rispetto ad
  una previsione di eventuali futuri cambiamenti: il
  maggioritario, che era destinato ad assicurare una maggiore
  stabilità di governo, indispensabile
 
                              Pag. 244
 
  per un corretto funzionamento del sistema sociale ed
  economico, si è dimostrato immediatamente deludente.
      In pratica è oggi convinzione comune che il sistema
  elettorale, se non accompagnato da integrate riforme
  istituzionali, non basta da solo ad assicurare il cambiamento
  del sistema politico.
      Viviamo così oggi una sofferta fase di transizione, in
  cui emergono vizi e limiti culturali e soprattutto la mancanza
  di una coerente progettualità politica, celata dall'una e
  dall'altra parte dietro l'alibi della "paura del tiranno".  Si
  viene così a negare anche il primo presupposto fondamentale
  del bipolarismo e cioè la sostanziale legittimazione reciproca
  delle due parti, contrapposte non su ideologie, ma sui
  programmi relativi alle grandi tematiche di interesse del
  Paese e sui metodi con cui affrontarle; e si viene altresì a
  negare, o comunque a mettere ricorrentemente in dubbio,
  l'altro presupposto fondamentale e cioè che la nostra
  democrazia, dopo cinquanta anni di storia repubblicana, non
  sia ancora un dato certo e definitivamente acquisito.
      Sta di fatto che la lunga assenza della politica,
  nell'accezione più nobile del termine, rischia di protrarsi e
  di scadere ancor più nel vuoto ideale che oggi ci si va
  rappresentando, amplificato e sostanziato da una informazione
  che insegue piccoli e grandi scandali e scontri verbali e ne
  fa tema esclusivo di politica.
      E' difficile perciò prevedere quali orientamenti possa
  avere oggi la mafia rispetto a questo quadro politico
  generale, caratterizzato da incertezze, emotività e comunque
  lontano da essere indirizzo della futura evoluzione sociale ed
  economica del nostro Paese.
      I quadri e referenti politici, sia a livello di individui
  che, per gran parte, di tradizionali formazioni politiche,
  sono scomparsi, travolti dal Nord al Sud da numerosissime
  inchieste.
      Il ricambio del personale politico è stato massiccio e,
  anche se nel suo complesso non può dirsi totalmente "nuovo",
  non avendo comunque una abitudine al potere e ancor più
  sicurezza di stabilità, può non costituire, in generale, un
  referente rassicurante per la mafia, che necessita per lo
  sviluppo dei suoi interessi economici illeciti, ormai di
  elevato livello e consistenza, di una certezza di
  continuità.
      Certezza peraltro che non è più comunque data a causa
  dell'affermarsi del bipolarismo, e quindi della rottura di
  quella continuità che il sistema proporzionale, nato per
  ragioni nobili, quali evitare fratture irreparabili nella
  società, ha assicurato per oltre quaranta anni.
      Si dovrebbe arrivare così alla paradossale conclusione
  che proprio questa situazione di grande incertezza e di
  attuale commissariamento della Repubblica, in mancanza di un
  governo, espressione politica di una maggioranza liberamente e
  democraticamente eletta, sarebbe l'unica situazione per
  depotenziare gli interessi mafiosi.
      Certamente così non è, per l'ovvia considerazione che
  l'indebolimento della democrazia e quindi la delegittimazione
  dello Stato in tutte le sue articolazioni istituzionali, è
  direttamente proporzionale alla legittimazione ed al
  rafforzamento del potere mafioso che non conosce crisi e vuoti
  di potere.
      La causa dell'estendersi del potere mafioso non è la
  politica, lo è stata la degenerazione della politica.
 
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      Il punto quindi è di meglio focalizzare subito il cammino
  più adeguato a produrre una netta inversione di tendenza.
      Anche per rompere definitivamente ogni legame della
  politica con la criminalità non basta il diverso sistema
  elettorale, che pur tuttavia già costituisce un rilevante
  progresso in tal senso.
      Infatti anche nel sistema uninominale non si può
  escludere che l'indicazione dei candidati, rimessa
  esclusivamente ai partiti, sia il risultato di pressioni
  mafiose, dirette o per interposti gruppi di interessi
  contigui.
      Neppure le elezioni primarie potrebbero eliminare questo
  pericolo, ma anzi, nelle Regioni del Sud, potrebbero
  addirittura aggravarlo, con un chiaro ritorno al recente
  passato ed ai sistemi consolidati di controllo e di voto di
  scambio.
      In sostanza il sistema elettorale può rendere più
  difficile, ma non eliminare i rischi di condizionamento della
  mafia sulla politica, stante anche la capacità di adattamento
  che la mafia ha dimostrato ad ogni cambiamento.
      Occorre quindi una forte autodisciplina da parte delle
  forze politiche nella selezione dei candidati, sia a livello
  nazionale che locale, attraverso filtri di massima
  trasparenza, che ne assicurino la piena affidabilità,
  sottoposta al vaglio pubblico.
      Un vaglio interno ed esterno che deve comunque proseguire
  per tutto l'arco del mandato elettorale, perchè solamente
  nell'agire politico e amministrativo e nel suo risultato è
  dato riscontrare la validità della scelta.
      E' chiaro che per questo riscontro anche il cittadino
  deve essere dotato della possibilità di attivare seri e rapidi
  controlli.
      La democrazia, infatti, non è, o non è soltanto, una
  qualsiasi forma di partecipazione che, peraltro, quanto più è
  diffusa, tanto più vanifica la possibilità di individuare
  specifiche responsabilità, ma soprattutto è controllo, ed
  esercizio effettivo del controllo.
      Il problema da risolvere con urgenza è, perciò,
  l'individuazione e l'attivazione di sistemi di controllo che
  nel settore amministrativo, contabile, finanziario, politico
  possano accompagnare alla loro azione precise sanzioni,
  indipendentemente da possibili risvolti penali, che prevengano
  o blocchino sul nascere degenerazioni e collusioni
  malavitose.
      Il dato positivo riscontrabile nella popolazione del Sud
  in questi ultimi anni, seppure in larga misura a ciò indotta
  da tragici fatti di sangue, come la strage del '92 dei
  magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e dei
  rispettivi uomini di scorta, è l'avere preso coscienza di
  vivere a libertà fortemente limitata nella esplicazione dei
  propri diritti civili, dalla prepotenza cupa, sanguinaria ed
  involutiva della mafia.
      Ha dato vita a forme di associazionismo spontaneo che, in
  particolare, si è indirizzato contro il racket delle
  estorsioni e dell'usura, fenomeno, questo, di controllo del
  territorio da parte della criminalità mafiosa; ha innalzato la
  denuncia delle prevaricazioni mafiose comunque espresse; ha
  alimentato e continua ad alimentare una irreversibile e nuova
  consapevolezza, anche rispetto ai giovani, della gravità del
  problema mafia tuttora incombente.
 
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      Questa presa di coscienza ha cominciato ad investire
  anche le categorie produttive, soggetti essenziali in questo
  percorso di riscatto e rigenerazione.
      Abbiamo visto come l'imprenditoria ha finito con il
  "fondersi" nel Sud con le organizzazioni criminali.
      Certamente i procedimenti penali hanno determinato una
  forte scossa in questi perversi rapporti; parimenti può
  contribuire ad una loro rottura il nuovo indirizzo, che vede
  il ritrarsi progressivo della politica dall'economia ed il
  cessare della incontrollata destinazione di risorse pubbliche
  al Sud.
      Ma poichè questi due fattori possono non rivelarsi
  definitivi, stante la presenza tuttora massiccia della mafia
  nelle aree del Sud, mentre è urgente dare vita ad una
  imprenditorialità capace di assicurare uno sviluppo
  continuativo libero da oppressioni politiche e criminali,
  occorre che il mondo imprenditoriale prenda in seria
  considerazione la necessità di darsi un codice etico.  Codice
  questo, che non è incompatibile con un'economia di mercato,
  alla quale ci stiamo risolutivamente avviando, ma è anzi tanto
  più essenziale, proprio perchè l'ingresso di ingenti capitali
  illeciti porterebbe non solo allo squilibrio di una corretta
  dinamica della concorrenza, ma rischierebbe di determinare la
  subalternità alla mafia del tessuto imprenditoriale sano che
  pure esiste, in larga percentuale, nel nostro Paese.
      Può dirsi, non solo come elemento di speranza, ma oggi
  come dato di fatto, che questa riflessione sta consolidandosi
  e più sentita appare la coscienza e l'esigenza degli
  imprenditori di liberarsi da quegli odiosi vincoli impositivi
  della criminalità alla quale si erano assuefatti.
      Questo periodo di transizione quindi, nonostante tutti i
  suoi attuali aspetti negativi e di rischio ove, dalla sua
  fisiologia riproducentesi ad ogni passaggio storico, scadesse
  nella patologia di un vuoto politico, presenta estesi fermenti
  positivi, nel mondo politico, economico e nella società; molte
  prese di coscienza veramente importanti, che, in questo vivere
  la politica come il quotidiano, non si riesce a valorizzare e
  far emergere in tutta la loro forza propulsiva.
      C'è da chiedersi, però, se a tutto ciò saremmo arrivati
  senza l'intervento della Magistratura penale, se cioè il
  cambiamento del sistema non fosse stato attivato dalla Procure
  della Repubblica, e dal sacrificio in termini di vite umane di
  magistrati e di appartenenti a forze di Polizia.
      La risposta non può che essere negativa sulla base dei
  fatti: il sistema così consolidato nei suoi fitti intrecci di
  interessi corruttivi e collusivi da solo non si sarebbe
  avviato, o quanto meno, non in tempi così rapidi, alla rottura
  e alla rigenerazione.
      E per quanto questo costituisca una profonda anomalia nel
  panorama dei paesi civili, non sminuisce certamente il grande
  impegno, la grande capacità di indipendenza da un sistema
  tentacolare, i notevoli risultati, fondamentali per la vita
  democratica di questo Paese, della nostra Magistratura.  Essa
  ha raggiunto il massimo della credibilità e, rimanendo l'unico
  caposaldo nel crollo disastroso degli altri poteri, ha scritto
  una pagina di storia, non solo giudiziaria, che resterà di
  fondamentale importanza anche nella ridefinizione dei tratti
  istituzionali della nostra democrazia.
 
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      La polemica, di cui non può escludersi la strumentalità,
  e che deve invece ricondursi ad una razionale riflessione,
  torna periodicamente a riaccendersi dal versante della
  politica e da quello della Magistratura, a cui viene
  addebitato uno sconfinamento dai suoi poteri istituzionali.
  Dal canto suo, la Magistratura, dopo l'iniziale grande
  solidarietà, denuncia una sopravvenuta solitudine, una assenza
  di interesse attivo dello Stato; e ciò riversa i suoi effetti
  negativi in una minore tensione della società verso il grande
  e tuttora irrisolto problema della criminalità organizzata.
      E' una constatazione fin troppo ovvia e la storia ce ne
  offre esempi significativi, che in assenza degli altri poteri,
  l'unico rimasto, peraltro con prova di efficacia nella sua
  azione, si assume, anche suo malgrado, quei compiti a cui gli
  altri poteri non sono stati e non sono in grado di adempiere.
  Ciò che ha comportato e comporta, a prescindere dalle
  motivazioni dei singoli, una sovraesposizione della
  Magistratura e la sua inevitabile investitura di poteri
  maggiori di quelli che la fisiologia di un corretto e
  democratico funzionamento politico-istituzionale potrebbe
  consentire.
      Occorre seriamente riflettere che, ove una tale
  situazione dovesse intendersi come normalità, sarebbe
  realistico temere una forte delegittimazione e paralisi della
  Magistratura stessa.  Ove essa permanesse, infatti, come
  terminale unico di compiti di tale portata, non riuscirebbe,
  inevitabilmente, a dare nè quelle risposte di natura
  intrinsecamente politica, pur corrispondenti alle alimentate
  aspettative della collettività ma sulle quali si deve invece
  misurare il sistema politico, nè quelle sue proprie
  istituzionali, di natura repressiva, che, sul piano
  processuale, per la loro eterogeneità e quantità eccessiva,
  vedrebbero sancita, nel dilatarsi oltre misura dei tempi, una
  pericolosa inefficacia ed inefficienza del sistema
  giudiziaria.
      La Magistratura, proprio perchè è indispensabile che
  mantenga il grado di credibilità oggi raggiunto, deve essere
  messa in condizione di rendere al meglio delle sue capacità e
  potenzialità, come oggi purtroppo, per la persistenza di
  inefficienze strutturali, non riesce ancora a fare, e deve
  essere soprattutto garantita e tutelata nella sua indipendenza
  da qualsiasi tipo di condizionamento.
      E' bene però non sottovalutare che la solitudine
  lamentata dalla Magistratura esisterebbe davvero profonda ed
  irreversibile, laddove rimanesse l'unica affidataria della
  lotta alla mafia e ad ogni altra forma di corruttela.
      Un simile impegno, perchè non finisca con l'inaridirsi su
  un piano meramente simbolico e quindi alla fine improduttivo,
  ha bisogno della contestuale e sinergica azione di soggetti
  istituzionali diversi, che siano in condizioni di agire con
  piena autonomia, legittimazione e responsabilità su piani
  diversi ed integrati, in un progetto costruttivo ed evolutivo
  di una società libera da prevaricazioni mafiose e statuali.
 
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