| Onorevoli Deputati! -- Il decretolegge 17 gennaio
1994, n. 33, recante disciplina della proroga degli organi
amministrativi, non è stato convertito in legge entro il
termine costituzionale ed è pertanto decaduto, così come i
precedenti analoghi provvedimenti (decreti-legge 18 settembre
1992, n.381, 19 novembre 1992, n. 439, 18 gennaio 1993, n. 7,
19 marzo 1993, n. 69, 20 maggio 1993, n. 150, 19 luglio 1993,
n. 239, 17 settembre 1993, n. 363, e 19 novembre 1993, n.
463).
I motivi di assoluta urgenza che condussero all'adozione di
tali iniziative legislative permangono immutati ed il Governo
ha pertanto ritenuto doveroso riproporre al Parlamento i
contenuti del decreto-legge decaduto.
Com'è noto, già nell'agosto 1992 il Consiglio dei ministri
approvò un disegno di legge sulla materia (atto Senato n.576),
successivamente riprodotto nel citato decreto-legge n.381 del
1992.
Nella relazione al disegno di legge si rammentava che la
Corte costituzionale, con la sentenza n. 208 del 1992, ha
avvertito il legislatore della necessità di cambiare rotta su
un tema, quello della proroga degli organi amministrativi, che
ha valenza non soltanto tecnico-giuridica.
La Corte costituzionale era stata investita di una
questione di legittimità costituzionale relativa a una norma
di legge della regione Sardegna che dispone la "decadenza" dei
comitati regionali di controllo non rinnovati entro sessanta
giorni
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dalla loro scadenza, coincidente con l'insediamento del
consiglio regionale, termine entro il quale il consiglio
regionale stesso "deve obbligatoriamente provvedere alla loro
ricostituzione".
Secondo il giudice rimettente, la norma escludeva la
prorogatio, o proroga di fatto - che sarebbe "principio
di carattere generale" e tale quindi da vincolare anche il
legislatore regionale - fino alla rinnovazione dei nuovi
organi di controllo; in tal modo, impediva, durante la
vacanza, l'esercizio della funzione di controllo, con
violazione - si diceva nell'ordinanza - dell'articolo 46 dello
Statuto di autonomia della Sardegna, che prevede e disciplina
il controllo sugli atti degli enti locali.
La sentenza n.208 del 1992 dichiara non fondata la
questione, riconoscendo così la piena legittimità
costituzionale della norma di legge regionale.
Ma, ed è questo che qui interessa, perviene a tale
conclusione dopo un'analisi puntuale e compiuta del tema di
fondo che con la specifica questione era stato sollevato:
l'esistenza o meno nel nostro ordinamento di un "principio
generale" cosiddetto della prorogatio (intesa come
proroga di fatto, perché non disciplinata normativamente)
degli organi temporanei scaduti, ma dei quali non siano stati
nominati i successori, sino appunto a tale nomina (cioè "a
tempo indefinito").
L'argomento è ben noto in quanto sono purtroppo molte le
situazioni in cui il presunto principio generale è stato e
continua ad essere fatto valere, con il sostegno, beninteso,
di buona parte della giurisprudenza amministrativa e della
dottrina, che ne afferma l'esistenza e la generalità sulla
fondamentale esigenza della continuità dell'azione
amministrativa, non assoggettabile a soluzioni conseguenti a
carenze di discipline normative specifiche.
La Corte costituzionale rovescia questo indirizzo
prevalente e, con argomenti inconfutabili, nega l'esistenza di
un simile principio generale, precisando altresì che "la
regola della prorogatio a tempo indefinito, ove ritenuta
vigente, apparirebbe contrastare" con i princìpi espressi
nell'articolo 97 della Costituzione.
Chiarisce, innanzi tutto, che non è possibile desumere la
regola dalle normative esplicite che oggi la prevedono. Non
dalle leggi sull'ordinamento degli enti locali (nella specie
quelle elettorali per i consigli comunali e provinciali sino
al parzialmente innovativo articolo 31 della legge 8 giugno
1990, n.142), sia perché in realtà la scadenza, la proroga,
gli atti consentiti ai consigli prorogati, sono espressamente
disciplinati e il termine di decadenza è individuato nella
"elezione dei nuovi" consigli, di tal che non si può parlare
in questo caso di prorogatio a tempo indefinito; sia
perché la peculiarità del carattere di questi enti politici
esponenziali di comunità, sottoposti sia al controllo politico
della comunità stessa che a quello dello Stato, impedisce di
derivare regole generali, valide cioè per tutti gli altri
organi amministrativi, dalle discipline ad essi specificamente
destinate.
Non dall'articolo 16 del regolamento per l'esecuzione della
legge sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza,
approvato con regio decreto 5 febbraio 1891, n.99 (ove è detto
che coloro che sono nominati a tempo a coprire uffici
rimangono in carica, ancorché scaduti, fino alla nomina dei
successori), perché si tratta appunto di norma regolamentare,
il cui contenuto si collega peraltro alla natura particolare,
mista di connotati pubblicistici e privatistici, di tali
istituzioni.
Non infine dalle norme che sostanzialmente allo stesso modo
disciplinano la proroga e la sostituzione degli organi
costituzionali (articolo 61 della Costituzione per il
Parlamento e articolo 85 per il Presidente della Repubblica) e
di quelli di rilevanza costituzionale (articolo 30 della legge
24 maggio 1958, n.195, sul Consiglio superiore della
magistratura); queste sono regole particolari che non possono
valere per gli organi amministrativi, la cui organizzazione è
"regolata non con riferimento alla disciplina degli organi
costituzionali, bensì sulla base dei princìpi dettati
dall'articolo 97 della Costituzione".
Ed è a questo punto che la Corte - dopo aver negata
l'esistenza del cosiddetto "principio generale" - spiega
perché, ove
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in ipotesi tale principio vigesse, sarebbe costituzionalmente
illegittimo: "qualora la predetta regola risultasse di
generale applicazione, senza le cautele idonee a impedirne
l'abuso - analoghe a quelle che sono insite nei sistemi di
rinnovazione degli organi elettivi degli enti territoriali - è
rispetto ad essa che verrebbe a profilarsi un contrasto con la
Costituzione. Un'organizzazione caratterizzata da un abituale
ricorso alla prorogatio sarebbe difatti ben lontana dal
modello costituzionale. Se è previsto per legge che gli organi
amministrativi abbiano una certa durata e che quindi la loro
competenza sia temporalmente circoscritta, un'eventuale
prorogatio di fatto sine die - demandando
all'arbitrio di chi debba provvedere alla sostituzione di
determinarne la durata pur prevista a termine dal legislatore
ordinario - violerebbe il principio della riserva di legge in
materia di organizzazione amministrativa, nonché quelli
dell'imparzialità e del buon andamento".
L'integrale ripetizione delle parole usate dalla Corte è
suggerita dalla convinzione che in esse si esprima quell'ormai
ineludibile avvertimento cui si è fatto già cenno. Ciò che
nella sentenza è definito eufemisticamente "eventuale" è
purtroppo diventato un costume che, per quanto concerne gli
organi amministrativi temporanei, ha non solo deviato dal
limpido disegno costituzionale, ma ha finito realmente per
condizionare l'organizzazione amministrativa nel suo complesso
ad arbitrii e per ridurne gravemente l'efficienza (la
precarietà indefinita di un organo scaduto non giova certo
all'ideazione ed attuazione di programmi a largo respiro).
Preso atto di questo altissimo avvertimento, il Governo non
può che provvedere in conformità e con lo strumento del
decreto-legge, al fine di eliminare gli effetti deleteri che
la lunga stagione delle proroghe di fatto indefinite ha
determinato e determina a danno della limpidezza e
dell'efficienza dell'organizzazione amministrativa (si pensi,
ad esempio, ad alcuni casi verificatisi nel settore
bancario).
Non è più allora sufficiente lo strumento legislativo
ordinario, in quanto la situazione complessiva del Paese e
l'esigenza vitale conseguente alle difficoltà diverse in cui
esso oggi si trova - non ultime quelle appunto derivanti da
carenze e arbitrii in cui opera l'amministrazione pubblica -
impongono decisioni e soluzioni immediate.
Il nodo delle proroghe di fatto non è certo il solo in cui
la nostra organizzazione amministrativa si è andata
inceppando, ma è uno dei più seri e, soprattutto, uno dei nodi
in cui, con più velenosa incidenza, hanno agito fattori del
tutto estranei al disegno costituzionale sul buon andamento e
sulla imparzialità della pubblica amministrazione.
Siamo dunque di fronte a un non contestabile "straordinario
caso di necessità e d'urgenza", cui va data una risposta
tempestiva - la disciplina della materia per "tutte" le
situazioni finora non disciplinate - con cui deve "da subito"
porsi la parola "fine" a una carenza di normativa che ha
finora inciso profondamente e non certo in senso positivo
sull'efficienza del settore pubblico e, purtroppo, anche sul
costume.
La sistematica dei pochi articoli che compongono il
decreto-legge è anch'essa disegnata sui suggerimenti che si
desumono dalla sentenza della Corte costituzionale, cioè
"precise scansioni temporali" - scadenza, proroga, decadenza -
e previsione delle "inevitabili sanzioni connesse alla
violazione di un comportamento definito obbligatorio".
L'articolo 1 individua l'ambito di applicazione del
decreto.
La sentenza n.208 del 1992, come si è visto, precisa che
"l'organizzazione amministrativa è regolata non con
riferimento alla disciplina degli organi costituzionali, bensì
sulla base dei princìpi dettati dall'articolo 97 della
Costituzione". Seguendo questa indicazione, il decreto si
rivolge allora solo all'organizzazione amministrativa in senso
proprio, come investita, secondo l'insegnamento della Corte,
dai princìpi di legalità, imparzialità e buon andamento
espressi appunto nell'articolo 97 della Costituzione.
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Ne restano fuori perciò, secondo quanto previsto nel comma
2, gli organi che, pur svolgendo anche attività di
amministrazione, hanno coperture costituzionali diverse: gli
organi rappresentativi degli enti territoriali, ivi comprese
le comunità montane, quelli di rilevanza costituzionale,
nonché gli organi per i quali la nomina dei componenti è di
competenza parlamentare.
Il comma 1 individua i soggetti cui il decreto si applica:
tutti gli organi "a tempo" dell'amministrazione pubblica
cosiddetta allargata, sia quelli di amministrazione attiva,
sia quelli consultivi e di controllo. La disciplina riguarda
non solo gli organi dello Stato, ma anche quelli degli enti
pubblici e delle persone giuridiche a prevalente
partecipazione pubblica, quando alla nomina di essi concorra
la mano pubblica in senso proprio, cioè lo Stato e gli enti
pubblici.
L'articolo 2 ripete, con ovvietà necessaria, il principio
generale della scadenza degli organi al termine fissato per
ciascuno di essi e l'obbligatorietà della tempestiva
ricostituzione al fine di evitare il regime della proroga,
che, come è spiegato nell'articolo successivo, comporta un
drastico ridimensionamento delle capacità di azione degli
organi.
L'articolo 3 fissa il termine massimo di durata della
proroga - non più di quarantacinque giorni - stabilendo il
limite oggettivo (atti urgenti e indifferibili) entro il quale
l'organo prorogato può continuare a svolgere le sue funzioni.
Il superamento di questo limite implica che l'atto posto
egualmente in essere sia "illegittimo". Il comma 3, in cui è
espressa questa specifica norma "sanzionatoria", poteva anche
non essere formulato, atteso che si tratta di una conseguenza
inevitabile del limite oggettivo di cui al comma 2. Ma se ne è
ritenuta opportuna la formulazione per rimarcare la diversità
di conseguenze dell'assunzione di un atto adottato da un
organo, non assolutamente carente di potere perché prorogato,
fuori dai limiti "di esercizio" impartiti dalla legge,
rispetto alle conseguenze dell'adozione di un atto
qualsivoglia dopo la scadenza (articolo 6, comma 2): nel primo
caso l'atto sarà appunto "illegittimo", nel secondo
radicalmente "nullo".
Sono, queste, precise indicazioni agli operatori delle
sanzioni cui l'atto emanato comunque contra legem sarà
sottoposto, in sede di controllo o in sede giurisdizionale. Si
precisa poi che l'uso, nel comma 3 dell'articolo 3, del
termine "illegittimi", non consueto nei testi normativi, è
legato alla necessità di offrire un termine onnicomprensivo
cui i suddetti operatori, del controllo e della giurisdizione,
possano collegare la sanzione conseguente per l'atto.
Nell'articolo 4 è, innanzitutto, prevista la obbligatorietà
"assoluta" di ricostituzione dell'organo entro il periodo di
proroga.
Una particolare disciplina è poi individuata, nel comma 2,
per i casi in cui i titolari della competenza alla
ricostituzione siano organi collegiali. La composizione
plurima può in effetti paralizzare l'accordo necessario e così
impedire la ricostituzione; per questa evenienza si è ritenuto
opportuno limitare ulteriormente il termine (di soli tre
giorni) per l'organo collegiale e trasferire poi, nei residui
tre giorni, i pieni poteri di ricostituzione al solo
presidente dell'organo.
L'articolo 5 regola le conseguenze dei controlli sugli atti
di ricostituzione, al fine di evitare soluzioni nella
continuità dell'azione amministrativa.
L'articolo 6 prevede la decadenza degli organi non
tempestivamente ricostituiti e una duplice sanzione per la
omessa ricostituzione: la nullità di tutti gli atti che
eventualmente l'organo decaduto adotti; la responsabilità in
tutte le sedi per le conseguenze dannose - verso terzi o
verso, ad esempio, l'erario - della condotta omissiva.
Condotta omissiva che ovviamente può in sé comportare anche
responsabilità penali.
L'articolo 7 attribuisce agli uffici titolari del potere di
nomina dei componenti degli organi di amministrazione il
compito di raccogliere, conservare ed aggiornare il complesso
dei dati relativi ai termini di scadenza, proroga e decadenza
dei predetti organi, mentre alla Presidenza del Consiglio dei
ministri è attribuito il potere di verificare il rispetto
dell'obbligo da parte degli uffici.
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L'articolo 8 contiene le norme finali e transitorie, le
quali recepiscono l'impostazione precedente adeguandola alle
indicazioni emerse in sede parlamentare: applicazione
immediata della nuova normativa a tutti gli organi non scaduti
alla data di entrata in vigore del decreto, applicazione in
qualche modo "prorogata", per un brevissimo periodo di dieci
giorni, per quelli già scaduti alla data di entrata in vigore
del decreto-legge; disciplina specifica della ricostituzione
degli organi per i quali sia necessario acquisire il parere
parlamentare, ai sensi della legge 24 gennaio 1978, n.14. Per
tali casi, il termine previsto dal comma 3 si riferisce alla
instaurazione del procedimento parlamentare. Infine vengono
ora confermati gli atti
legittimamente adottati sulla base del meccanismo
surrogatorio di cui al comma 2 dell'articolo 4.
L'articolo 9 reca, infine, le disposizioni concernenti
l'adeguamento della normativa regionale ai princìpi posti
dalle disposizioni del decreto. Le disposizioni in questione
riproducono quelle introdotte nel decreto-legge 20 maggio
1993, n. 150, dal Senato ed approvate anche dalla Commissione
affari costituzionali della Camera dei deputati.
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L'accluso decreto viene quindi sottoposto all'esame del
Parlamento, ai fini della sua conversione in legge.
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