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Testi integrali degli Atti Parlamentari della XII Legislatura

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67
DDL0005-0002
Progetto di legge Camera n. 5 - testo presentato - (DDL12-5)
(suddiviso in 36 Unità Documento)
Unità Documento n.2 (che inizia a pag.1 dello stampato)
...C5. TESTIPDL
...C5.
RELAZIONE
ZZDDL ZZDDLC ZZNONAV ZZDDLC5 ZZ12 ZZRL ZZPR
    Onorevoli Deputati! -- Solo da poco tempo siamo usciti da
  una situazione di massimo pericolo, caratterizzata dalla
  divisione del mondo in blocchi, dalla lotta tra i sistemi e
  dal potere, superiore a tutti gli altri poteri, delle armi
  nucleari; non solo la nostra società e la nostra vita erano
  minacciate di distruzione, ma erano anche profondamente
  influenzate e inquinate da quella condizione di conflitto
  permanente e di primato delle armi di sterminio che informava
  tutto l'ordine politico.
    Con la grande svolta dell'86, quando Gorbaciov, con la
  "dichiarazione di Nuova Delhi" passò a una politica volta a
  costruire "un mondo libero dalle armi nucleari e non
  violento", con i grandi eventi dell'89 e le decisioni che
  portarono alla caduta del muro di Berlino e agli accordi
  per il disarmo e per la revoca della minaccia nucleare,
  quell'ordine è finito.
    Ma non sono finite le ambizioni di potenza e di dominio, le
  tensioni e le ragioni dei conflitti; e con la guerra del Golfo
  la violenza istituzionalizzata delle armi è stata ripristinata
  come regola di governo nei rapporti tra gli Stati e strumento
  privilegiato per la gestione delle controversie
  internazionali.
    La società politica, non solo italiana, ma europea e
  mondiale, si trova dunque ora ad un bivio, si trova dinanzi a
  due strade.  Ognuna di queste due strade ha un cippo di
  partenza.  Uno è la scelta di non violenza e di ripudio della
  guerra che, già formulata nel '45 dopo la grande guerra
  mondiale, è rimasta sommersa fino a quando è stata riproposta
  con forza dalle
 
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  nuove visioni politiche e dagli atti che hanno portato ai
  cruciali mutamenti in Europa, allo smantellamento di Comiso,
  alla distruzione dei missili nucleari in Europa, ai grandi
  trattati di Helsinki, di Vienna e di Parigi.  L'altro cippo di
  partenza è rappresentato dalla guerra del Golfo, dalla
  rivendicazione e rilegittimazione del primato della forza e
  delle armi, dal "nuovo modello di difesa", dalla spinta al
  passaggio agli eserciti mercenari e alla guerra come
  mestiere.
    Questi due modi di pensare il mondo e il futuro, questi due
  scenari alternativi, sono ambedue ai nastri di partenza.
  Nessuno dei due ha ancora il futuro per sé, nessuno dei due ha
  vinto sull'altro.  La partita è ancora tutta da giocare.
  Opportunità e pericoli dell'attuale fase
  costituente.
    Quello che è certo, è che sta cambiando la struttura del
  mondo.  L'umanità intera, e non solo l'Europa, è entrata in
  fase costituente, analogamente a ciò che avvenne nel 1945 alla
  fine della seconda guerra mondiale; e anche in Italia, dopo un
  lungo periodo di stasi - stabilità o stagnazione che fosse -
  si è accesa una gran febbre di novità, così che anche i
  conservatori si fanno campioni del cambiamento, e le stesse
  istituzioni sembrano talvolta applicarsi a distruggersi, per
  poter ricostruirsi in altro modo.
    Tuttavia occorre una strategia del cambiamento, per non
  rischiare di mancare i risultati e di perdere princìpi e
  regole di convivenza irrinunciabili.  Questo vale per l'Italia,
  dove occorre un criterio di riferimento molto forte, di
  priorità e di valore, per discernere tra tutte le riforme
  proposte o già in atto; e vale per il mondo, dove il gioco
  spontaneo delle forze non più trattenute nella gabbia
  nucleare, può innescare un processo di disordine-repressione,
  con la ricaduta in una situazione di guerra e di dominio
  ancora peggiore di quella da cui siamo usciti.
    In effetti siamo in una condizione a rischio.  E' vero che
  avremo migliaia di testate nucleari in meno.  Ma 33 milioni di
  poveri negli Stati Uniti sono troppi, un miliardo di poveri
  nel mondo sono troppi; 33.960 bambini iracheni morti nei primi
  cinque mesi del 1992 per effetto dell' embargo  sono
  troppi; i "ragazzini della strada" uccisi in Brasile sono
  troppi; i popoli non liberati sono troppi; i morti per fame in
  Asia, Africa e America Latina sono troppi; troppo grande è il
  divario tra popolazioni ridottissime che godono di immensi
  spazi e immense risorse, come in Canada o in Australia, e
  popolazioni esorbitanti chiuse in spazi troppo stretti e avari
  di risorse, come in India o in Bangladesh; troppo duro per le
  popolazioni uscite dal collettivismo è l'impatto col nuovo
  sistema economico, che nella fase di transizione non riesce a
  provvedere nemmeno alle cose più essenziali; e troppo grande è
  lo scarto tra bisogni, desideri e aspettative che ovunque sono
  crescenti e i beni destinati a soddisfarli, che per molti
  restano irraggiungibili.  C'è troppo di tutto ciò perché il
  mondo possa avere la pace.
    E ci sono altri fattori, non materiali, ma culturali e
  spirituali, che fanno emergere un grandissimo pericolo.  Sono
  sentimenti che nelle società ricche traggono origine
  dall'inconscio collettivo, dal senso della perduta stabilità,
  dalla paura del futuro, dal timore di non conservare i diritti
  o i privilegi acquisiti, e che si esprimono in una ricerca di
  esclusività, in una esacerbata affermazione di identità, in
  una ostilità per lo straniero, in un ostracismo per il
  diverso, in una caduta delle garanzie giuridiche, in una
  difesa corporativa del proprio gruppo, o regione o nazione, in
  un daltonismo sociale che non ha occhi per il colore della
  pelle degli altri.  Questi sentimenti sono storicamente alla
  base delle culture di destra e di guerra, e tali culture a
  loro volta alimentano i fascismi.
    La grande ondata di violenza che si è abbattuta
  sull'Europa, e che colpisce indiscriminatamente l'ebreo, il
  turco, l'arabo, o anche semplicemente "il meridionale", è già
  qualcosa di più che il sintomo di una malattia, è la malattia.
  Essa è qualcosa che comprende e supera l'antisemitismo, il
  razzismo, la xenofobia: è la difesa
 
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  parossistica di sé perseguita, peraltro illusoriamente,
  attraverso l'esclusione dell'altro.  La malattia è appunto
  l'esclusione: l'altro, per il suo esserci, per il suo essere
  diverso, è percepito come una minaccia, come un attentato alla
  propria identità, come un concorrente, insomma come un nemico;
  e dunque da cancellare, da escludere.
    C'è oggi un pericolo di fascismo in Europa; non certo il
  fascismo che l'Italia e la Germania hanno già conosciuto,
  perché le tragedie storiche non si ripetono mai eguali; è vero
  però che il grembo che quel fascismo aveva generato si è
  rinvigorito, secondo la profezia di Brecht, ed è oggi, nella
  crisi profonda della coscienza europea, capace di generare
  nuove incarnazioni di quella medesima malattia storica e
  politica.
    Se oggi rileggiamo il discorso pronunciato nel 1988 dall'ex
  Presidente del Bundestag, Jenninger, con l'analisi delle
  condizioni prossime o remote che avevano preparato in Germania
  l'avvento del nazismo; e se rileggiamo il discorso pronunziato
  nel 1951 all'Augustinianum di Milano da un nostro padre
  costituente, Giuseppe Dossetti, con l'analisi delle cause
  profonde che avevano favorito l'avvento del fascismo in
  Italia, non possiamo non riscontrare con allarme che molti di
  quei germi e di quelle cattive radici sono presenti anche
  oggi, anche nelle società e nelle culture che si professano
  democratiche.
    Jenninger aveva chiamato in causa giudizi e stati d'animo
  negativi od ambigui, già presenti nella società e nella
  cultura tedesca, che il nazismo aveva portato fino all'estrema
  e più agghiacciante perversione.  La protesta che non ci fu nel
  1938 per gli eccidi degli ebrei nella "notte dei cristalli",
  non c'era stata neanche quando essi erano stati privati dei
  loro diritti, quando erano stati ridotti a "non persone",
  quando era stato smontato lo Stato di diritto.  In questa
  omertà verso il nazismo erano confluite, secondo il Presidente
  del Bundestag, le frustrazioni generate dalla Repubblica di
  Weimar, le insofferenze verso il sistema dei partiti e verso
  un pluralismo rispettoso delle minoranze, l'avversione
  piccolo-borghese alla modernità; vi erano confluiti la
  soddisfazione per i successi internazionali della Germania,
  per l'incipiente benessere e la piena occupazione e il timore
  che tale "miracolo" del regime potesse interrompersi; vi erano
  confluiti un antisemitismo che veniva da lontano, e "la
  convinzione, da parte di molti tedeschi, che l'esistenza degli
  ebrei rappresentasse davvero un problema e che ci fosse
  davvero qualcosa come una "questione ebraica""; su questa
  società il nazionalsocialismo aveva esercitato la sua
  seduzione, rendendola "capace di mettere uomo contro uomo
  nello spirito di un uso del potere spregiudicato e
  fanatico".
    A sua volta Giuseppe Dossetti nel 1951 affermava che il
  problema di fronte a cui si trovava in quel momento l'Italia
  non era relativo a questa o quella riforma od opinione
  particolare da fare ma una scelta fondamentale che tutte le
  includeva e qualificava, e la grande scelta era tra fascismo o
  non fascismo.  Non si trattava del fascismo nella forma storica
  e accidentale che aveva assunto nel ventennio, ma di quel
  contenuto sostanziale del fascismo che aveva inquinato fin
  dall'inizio lo Stato italiano e che ancora non era stato
  superato.
    Nella ricostruzione di Dossetti il fascismo del '22 non era
  stato tanto la reazione ad una rivoluzione socialista o
  comunista che non c'era mai stata, e che anzi a quel punto era
  già stata sconfitta (secondo una intuizione di Turati che
  vedeva il fascismo ascendente quanto il socialismo è
  declinante) ma era stato frutto di mali antichi della storia
  italiana, dall'unificazione compiuta come conquista regia, che
  aveva lasciato il Sud preda di rapporti feudali e il mondo
  contadino arretrato e politicamente irretito nelle clientele,
  alla repressione antioperaia e al protezionismo industriale
  cominciati con la crisi di fine secolo, alla squalifica del
  Parlamento trascinato contro la sua volontà nella guerra del
  '15, al tentativo
 
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  delle classi dirigenti liberali di rispondere col
  trasformismo all'insorgenza delle masse popolari reduci dalle
  illusioni e dai sacrifici della guerra; problemi che si
  riproponevano nel secondo dopoguerra, aggravati dalla guerra
  fredda e dalle conseguenze interne dello scontro tra i
  blocchi.
    Se rievochiamo queste pagine di storia europea e delle
  interpretazioni che ne sono state date, non è per stabilire
  delle impossibili analogie con la situazione attuale che è del
  tutto diversa.  Vero è però che vi sono delle costanti che
  continuano o che ritornano.  Nazionalismi e micronazionalismi
  sono di nuovo irruenti in Europa, spesso in lotta tra loro.  I
  fantasmi del nazismo e del fascismo vengono risuscitati e anzi
  orgogliosamente inalberati dai "naziskin".  Nonostante i
  rigurgiti di antisemitismo, sono ben pochi oggi a credere che
  esista una "questione ebraica"; ma c'è una "questione
  extracomunitaria", c'è l'angoscia dello straniero, il timore
  che egli venga a mettere in pericolo o a toglierci il lavoro,
  la casa, il benessere che del resto abbiamo da poco e molti
  ancora non hanno; c'è la convinzione che non la giusta
  risposta alle loro esigenze, ma l'esistenza stessa degli
  extraeuropei del Sud e del Terzo Mondo rappresenti un
  problema, sia dentro che fuori dei nostri confini, tanto che
  gli stessi "modelli di difesa" vengono ridisegnati come
  risposta a una "minaccia" che viene da Sud; il divario
  strutturale e l'antagonismo tra le due Italie si accentuano,
  il problema del Mezzogiorno giace ancora irrisolto, e le reti
  delle clientele si sommano e confondono con quelle della
  criminalità, mentre la mafia, ingigantita dallo spettacolo
  della sua ferocia e del marasma statale, sembra invincibile;
  crescono la protesta contro il sistema dei partiti, non senza
  loro colpa, e l'insofferenza verso un pluralismo garantista
  dei diritti individuali e rispettoso delle minoranze; si
  giudica debole il pensiero e si vuole forte il potere, è
  denigrato il diritto mentre alligna l'idea che con soluzioni
  di forza i drammi possano essere addossati agli altri e i
  conflitti risolti a proprio favore.
  Resistenza e pace.
    E' in questo scenario così complesso e difficile, che si
  pone il compito, da tutti ritenuto necessario, di costruire un
  nuovo ordine interno e internazionale, sulla scia della crisi
  e dell'esaurimento del vecchio.  Di tale nuovo ordine non
  esiste, giustamente, né modello, né prototipo, né un progetto
  completo in ogni sua parte.  Le ideologie che lo promettevano
  sono fallite.  Si tratterà dunque di un processo, di una grande
  impresa collettiva, con molti protagonisti, molte incognite,
  molte alternative, e senza mai il termine di una realizzazione
  compiuta.  Ma proprio perché si tratta di un processo aperto,
  sono molto importanti gli ingredienti che si mettono in esso,
  è importante che non siano smarriti i valori e le norme,
  accreditati da lunghe tradizioni, le conquiste etiche e
  civili, le realizzazioni più alte della politica e del
  diritto, le esperienze e le lezioni del passato, le eredità
  positive delle antiche rivoluzioni; è con questo corredo che
  ognuno giocherà le sue carte, metterà in gioco i suoi valori,
  farà valere le sue aspettative.  Ma prima di tutto è necessario
  che siano stabilite come invalicabili le condizioni senza le
  quali questo processo non sarebbe possibile, sarebbe
  brutalmente rovesciato e interrotto, e un nuovo ordine non
  potrebbe costruirsi.  Queste condizioni sono che sia salvata la
  libertà e che sia esclusa la guerra.  Le due sfide preliminari
  sono perciò che si resista al fascismo e sia scelta la pace;
  pace che non si pretende qui di assumere nel senso già
  compiuto che la assimila a un ordine di solidarietà e di
  giustizia, ma nel senso determinato e immediato che consiste
  intanto nel ripudio della guerra come istituzione legittimata
  e come strumento di risoluzione delle controversie
  internazionali e di offesa o imposizione di volontà agli altri
  popoli.
    Questi due punti fermi non sono un programma politico, ma
  sono, a nostro avviso, il criterio e il presupposto di ogni
  programma politico, l'opzione politica dirimente
 
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  rispetto a ogni riforma o progetto di rinnovamento
  interno e internazionale.
    In ogni problema o conflitto politico, anche di ordine
  interno, anche relativo alle condizioni di lavoro e di vita,
  alle scelte economiche o alla distribuzione ed uso delle
  risorse, c'è sempre infatti una soluzione di guerra, che
  "mette uomo contro uomo", che gioca il potere come dominio e
  che ha nella forza il suo ultimo criterio, e c'è una soluzione
  di pace che mette gli uomini insieme, ne assume le
  contraddizioni cercandone il superamento nel consenso, nel
  rispetto di regole a tutti comuni, e nell'uso di un potere
  volto a comporre nella giustizia e nel diritto gli interessi
  di tutti.  E' questa, nel senso sostanziale, la scelta tra
  fascismo e non fascismo.
  Il ripudio della guerra come condizione della
  politica.
    Nell'ordine internazionale questa scelta si pone, in modo
  specifico e determinato, come ripudio della guerra.  E' questa
  oggi, la necessità più stringente.  Venuta meno infatti
  l'interdizione della guerra derivante di fatto dall'equilibrio
  strategico tra i blocchi e dal terrore nucleare, la stessa
  drammatica situazione del mondo, con i suoi nodi economici,
  demografici ed ecologici, che sembrano politicamente
  inestricabili, con il conflitto Nord-Sud, con la disgregazione
  dell'Europa dell'Est, con i nazionalismi e i fondamentalismi
  insorgenti, con vastissime aree di perdurante oppressione
  politica e di miseria generalizzata, e con gli stati d'animo e
  le culture che prima abbiamo evocato, rende molto grande il
  pericolo che la guerra o un proliferare di guerre finisca per
  essere la risposta privilegiata al disordine prodotto dai
  problemi irrisolti.
    L'esperienza della guerra del Golfo, scelta come strumento
  per ristabilire l'ordine internazionale, e che molti
  considerano così ben riuscita da rappresentare il prototipo di
  futuri conflitti dello stesso tipo "rapidi, efficaci e con
  poche vittime", per i quali già si stanno ristrutturando gli
  eserciti, dice che si tratta di un pericolo tutt'altro che
  remoto.
    Ma tale scelta di guerra va respinta, non per un pacifismo
  pregiudiziale e assoluto, o puramente ideale, o astratto, ma
  per una precisa ragione politica.  Se non si ricorre alla
  guerra, i problemi che incombono devono essere per forza
  altrimenti risolti.  Le soluzioni, anche parziali, anche
  graduali, anche intermedie, devono essere trovate.  La
  politica, tutt'altro che svigorita o declassata, trova qui il
  suo più alto cimento.  L'invenzione creativa, la cultura, il
  diritto, le fedi, il negoziato, il dialogo, le conquiste di
  civiltà trovano qui il loro campo di esercizio, la sfida a
  superarsi, a cercare nuove sintesi e nuovi approdi.  E' da qui
  che parte la costruzione del nuovo ordine mondiale.  La guerra
  è un arresto del processo, una risposta reazionaria, una via
  d'uscita illusoria; è un mito, perché suppone che i problemi
  possano essere cancellati, invece che risolti.
    In questo senso la guerra del Golfo, dal suo inizio con
  l'aggressione irachena al Kuwait, alla sua conclusione con le
  ruspe armate che seppellivano i soldati vivi nel deserto, non
  è il punto di partenza di un nuovo ordine mondiale, ma è il
  punto d'arrivo del vecchio, appartiene allo stesso ordine che
  ha generato due guerre mondiali e l'orrore di Auschwitz; e la
  guerra civile jugoslava ne è il primo corollario.
    Il ripudio della guerra è, al contrario, l'inizio di un
  nuovo corso; non certo il raggiungimento, ma il presupposto,
  il punto d'avvio e il principio generatore di una società
  nuova.  E qui sta anche la prova a cui il sistema di mercato,
  il capitalismo, deve alfine misurarsi.  Esso ha vinto tutto, si
  dice, non ha più concorrenti su tutta la terra.  Ora dunque
  deve combattere con se stesso; deve dimostrare, come una
  volta, agli esordi del "pensiero politico nuovo", lo sfidò a
  fare Gorbaciov, se è in grado di sussistere e svilupparsi
  separandosi dal militarismo, rifiutando la guerra, rinunciando
  al dominio, desistendo dallo sfruttamento e dallo scambio
  ineguale col Terzo Mondo, abbandonando la violenza.  La
  risposta democratica, di principio, è che questo è possibile.
  Ma lo sarà, lo potrà
 
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  essere anche nella realtà?  E' questo il vero terreno del
  conflitto, è questa la questione su cui si gioca il futuro del
  mondo, e anche quello della nostra vita quotidiana e
  comune.
    Perché le cose si mettano su questa strada, occorre un
  concorso di azioni diverse e di forze diverse.  Nessuno può
  farcela da solo; nessuna delle culture politiche e delle forze
  storiche le cui origini risalgono alle ideologie
  ottocentesche, si è dimostrata pari al compito di realizzare
  la pace e salvare la libertà; per quanto la pace e la libertà
  figurassero nei loro programmi, esse non sono state infatti in
  grado di superare il sistema politico che include la guerra, e
  se sono riuscite a sconfiggere il fascismo, non sono state
  però in grado di evitarne e impedirne l'ascesa.
    Per realizzare l'obiettivo di una politica liberata dalla
  guerra e convertita a strumento e presidio della liberazione
  umana, occorre dunque fare appello a diverse forze e
  tradizioni, spostarle su questo terreno primario di confronto,
  chiamarle ad azioni e fronti di lotta comuni, non per una
  logica di schieramento o per una strategia di potere, ma
  perché la natura stessa dell'impresa esige l'interazione di
  diversi mondi ideali e la convergenza di diversi soggetti in
  operazioni e iniziative comuni.
  Azioni unite  (joint ventures)  per il ripudio della
  guerra e il servizio alla libertà.
    Una di tali iniziative comuni è quella che qui proponiamo.
  Si tratta di una proposta di legge di iniziativa popolare, che
  sottoponiamo alla firma dei cittadini, recante norme per
  l'attuazione dell'articolo 11 della Costituzione e degli
  impegni enunciati nel preambolo dello statuto dell'ONU: il che
  vuol dire ripudio della guerra e servizio alla libertà degli
  uomini e dei popoli.  Ma questa iniziativa, il cui ambito
  proprio è quello legislativo, e la cui efficacia normativa
  illustreremo tra breve, è nello stesso tempo l'esempio e il
  prototipo di altre iniziative comuni che in altri ambiti,
  politico, economico, culturale, religioso, potrebbero essere
  assunte, sempre improntate al criterio dirimente del rifiuto
  della guerra e della salvezza della democrazia: ciò per cui il
  diritto da solo, per quanto essenziale, non basta.
    Noi pensiamo che per incentivare, promuovere e sostenere
  tali iniziative, si potrebbe creare una specie di centro
  permanente, di struttura di servizio, di luogo di incontro di
  energie e di competenze diverse.  Si potrebbe prendere a
  modello una delle istituzioni più caratteristiche e moderne
  dell'economia capitalistica, la  joint venture,  e
  riprodurla in altro contesto e con altre finalità.  Come le
  joint ventures  sono le strutture in cui diversi soggetti
  ed imprese mettono insieme capitali, saperi e destini per
  produrre dei beni e realizzarne il profitto, così si possono
  costituire delle  joint ventures  in cui mettere insieme
  azioni, competenze e carismi per costruire la pace e
  promuovere la liberazione; delle  joint ventures,  delle
  "azioni unite per il ripudio della guerra e il servizio alla
  libertà"; delle "azioni unite" per la resistenza alla violenza
  delle istituzioni e del potere, e per l'incremento della
  giustizia e del diritto, al fine di trarne il profitto di una
  convivenza più umana; azioni unite per progettare, realizzare
  o anche semplicemente per mettere in comunicazione tra loro
  progetti e iniziative di pace per le diverse situazioni di
  crisi, le città e gli ospedali, il Centro America e Israele e
  la Palestina, il terzo escluso delle società ricche e la
  disperazione delle società povere.  Tali  joint ventures,
  o comitati o segretariati delle Azioni Unite potrebbero
  nascere sia in sede locale che nazionale, e anche, se
  possibile, in sede internazionale.
    "Azioni Unite" vuol dire mettere insieme delle azioni, non
  confondere tra loro dei soggetti, non stemperare le
  differenze, non far venir meno le identità.  Ognuno resti com'è
  e dov'è, con le sue tradizioni, le sue convinzioni e le sue
  bandiere, nel rispetto ognuno dell'essere dell'altro.  Ma
  assumendo la priorità del ripudio della guerra e del servizio
  alla libertà, dove la libertà di ciascuno sia al servizio
  della libertà degli altri, ognuno può investire
 
                               Pag. 7
 
  qualcosa in questa impresa comune; si possono investire
  soldi, azioni, idee, iniziative politiche e giuridiche,
  mobilitazioni popolari e controinformazione, attività
  teoretiche e contemplazione; e qualcuno potrebbe ritenere che
  valga la pena di investirvi la vita.
    Tenendo presente questa più generale prospettiva, vediamo
  ora quali sono i contenuti e le ragioni della proposta di
  legge che qui viene illustrata.
  Le ragioni di necessità e di urgenza che motivano questa
  legge.
    Le drammatiche vicende che hanno contrassegnato la crisi e
  la guerra del Golfo e che hanno fatto sì che l'Italia si sia
  ritrovata in guerra, per la prima volta dopo 45 anni, malgrado
  l'esistenza nell'ordinamento costituzionale di un principio
  che sancisce un incontrovertibile ripudio della guerra, hanno
  fatto sì che si riproponesse l'attualità dell'articolo 11
  della Costituzione.
    Spontaneamente si è creato un movimento di massa contro la
  guerra che ha avuto il suo fulcro nell'esigenza di far
  rivivere nel Paese quel principio di civiltà giuridica che il
  potere aveva sacrificato e che i  mass media   avevano
  apertamente disatteso.  E' accaduto che il Capo del Governo
  invocasse proprio il principio pacifista, sancito
  dall'articolo 11 della Costituzione, per legittimare
  l'intervento dell'Italia e che alla guerra, con un artifizio
  verbale, venisse cambiato nome perché il Parlamento potesse
  avallarla sbrigativamente e con una procedura inusitata.
    Il dibattito sulla efficacia, la giuridicità e
  l'attuabilità dell'articolo 11 della Costituzione è uscito
  così dai circoli ristretti dei giuristi ed è diventato una
  grande e drammatica questione nazionale.
    Ad esso è strettamente intrecciata la riflessione sui
  fondamenti dello statuto dell'ONU, sul ruolo che hanno svolto
  le Nazioni Unite, e sull'interazione fra l'intervento della
  coalizione e le funzioni dell'ONU.
    Sul piano interno la violazione del principio pacifista ha
  accelerato ed in un certo senso incoraggiato tentativi e
  pretese di svolta autoritaria, che erano in atto già da tempo
  e che hanno contrassegnato, fra l'altro, le più autorevoli
  proposte di riforma istituzionale, che sotto molti profili
  possono risultare funzionali alla guerra.
    Si è constatato che la violenza del diritto alla pace
  comporta e favorisce la violazione di altri diritti e di altre
  libertà fondamentali.
    Innanzitutto il diritto all'informazione, che è stata
  "militarizzata" e piegata alle esigenze belliche, poiché, come
  è stato sottolineato, la guerra si combatte anche con i
  mass media,  che sono stati così indirizzati a
  minimizzare e nascondere le atrocità del conflitto e ad
  esaltarne i caratteri di potenza, rapidità ed efficacia.
    In secondo luogo il diritto alla libertà di manifestazione
  del pensiero: così se il Presidente Cossiga ha attaccato i
  magistrati firmatari dell'appello dei giuristi del 26 gennaio
  1991, un tribunale della Repubblica, processando un pacifista,
  ha ritenuto che la libertà di riunione e manifestazione del
  pensiero fosse meno rilevante e meritevole di tutela rispetto
  all'incondizionata obbedienza agli ordini delle autorità.
    Soltanto con un doppio artifizio giuridico, dapprima
  cambiando nome alla guerra e poi ricorrendo ad un
  decreto-legge dell'ultima ora (il decreto-legge 19 gennaio
  1991, n. 17, convertito, con modificazioni, dalla legge 20
  marzo 1991, n. 88), si è evitato di risuscitare il codice
  penale militare di guerra.  Ciò avrebbe comportato non solo la
  reintroduzione della pena di morte, ma la criminalizzazione di
  ogni forma di dissenso o di critica alla guerra, attraverso un
  corpo di norme che appartiene alla notte della storia.
    La facilità con cui l'Italia ha rilegittimato la guerra
  come strumento al servizio della politica, ha dimostrato che,
  in realtà, la pace era già perduta all'interno e che il
  principio del ripudio della guerra e della cooperazione alla
  costruzione di un ordinamento internazionale che assicuri la
  pace e la giustizia fra le nazioni era stato di fatto
  abbandonato e reso inoperante ben prima
 
                               Pag. 8
 
  di venire formalmente e troppo facilmente violato con la
  decisione dell'intervento militare nel Golfo.
    Sotto il profilo della scienza giuridica è ormai da tempo
  acquisito che i princìpi fondamentali della Costituzione,
  anche quelli che hanno una forte dimensione programmatica,
  hanno piena validità ed efficacia giuridica nel nostro
  ordinamento.
    Tuttavia, nella maggior parte dei casi, per poter
  assicurare la loro piena operatività è necessario un percorso
  di attuazione, sia attraverso provvedimenti legislativi e
  regolamentari, sia attraverso l'intervento della
  giurisprudenza costituzionale ed ordinaria, sia attraverso la
  partecipazione popolare.  Di ciò si resero conto gli stessi
  Costituenti.
    "Questo progetto di Costituzione - affermò
  significativamente Calamandrei - non è l'epilogo di una
  rivoluzione già fatta, ma è il preludio, l'introduzione,
  l'annunzio, di una rivoluzione, nel senso giuridico e
  legalitario, ancora da fare".
    Malgrado il cammino compiuto le promesse di libertà e di
  giustizia che i Costituenti hanno fatto al popolo italiano
  hanno trovato soltanto in parte attuazione.
    Bisognerà attendere 22 anni ed una legge dello Stato "lo
  statuto dei diritti dei lavoratori", perché i diritti civili
  potessero trovare tutela anche nei confronti del potere
  privato all'interno della fabbrica e perché la Costituzione
  potesse conquistare un vasto territorio da cui era stata fino
  ad allora rigorosamente esclusa.
    Ci sono voluti trent'anni perché con la legge 11 luglio
  1978, n. 382 (norme di principio sulla disciplina militare),
  si cominciasse a dare una timida attuazione al principio
  affermato dall'articolo 52 della Costituzione per cui
  "l'ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito
  democratico della Repubblica".  Principio, questo, la cui
  perdurante e diffusa disapplicazione è emersa con la vicenda
  Gladio.
    Il principio pacifista-internazionalista di cui agli
  articoli 10, primo comma, ed 11 della Costituzione, che i
  padri costituenti avevano concepito, non solo per "salvare le
  future generazioni dal flagello della guerra", ma anche per
  fondare un indistruttibile patto di fratellanza fra il popolo
  italiano e tutti gli altri popoli del mondo, non ha
  virtualmente avuto alcuna disciplina di applicazione ed è
  stato contraddetto in mille occasioni dalla prassi politica di
  governo.
    Soltanto con la legge 26 febbraio 1987, n. 49, è stata
  organicamente disciplinata (peraltro in modo insoddisfacente)
  quell'attività di cooperazione allo sviluppo che il principio
  della giustizia fra le nazioni esige in modo indiscutibile.
    Il settore del commercio internazionale delle armi, in cui
  l'Italia aveva conquistato un triste primato, consolidando
  regimi irriguardosi dei diritti dell'uomo ed alimentando le
  loro imprese bellicose, che invece aveva l'obbligo giuridico
  di impedire (o almeno scoraggiare), è stato oggetto di una
  accanita battaglia politica per la resistenza opposta dal
  complesso militare-industriale che ha cercato di bloccare ogni
  iniziativa legislativa in materia.
    Alla fine è stata approvata una legge per il controllo del
  commercio delle armi (legge 9 luglio 1990, n. 185) che,
  malgrado taluni aspetti positivi, ha sostanzialmente fallito
  l'obiettivo di regolare la materia in modo coerente con i
  princìpi dell'articolo 11 della Costituzione.
    E' rimasto, invece, completamente privo di disciplina il
  problema della partecipazione dell'Italia alla sicurezza
  internazionale, in conformità agli obblighi derivanti dalla
  nostra adesione al sistema delle Nazioni Unite, e delle
  eventuali azioni umanitarie compiute con l'intervento delle
  Forze armate.
    Ciò ha consentito una completa libertà di iniziativa e di
  azione a coloro che hanno programmato ed attuato l'intervento
  italiano nella guerra del Golfo, mentre la perdurante assenza
  di una disciplina sui sistemi d'arma rende possibili assurde
  proposte sul nuovo modello di difesa.
    Nel contempo, il dibattito in corso sulle riforme
  istituzionali, pur avendo evidenziato
 
                               Pag. 9
 
  un raggio vastissimo di opinioni in campo, presenta
  tuttavia un insuperabile limite di fondo: l'assenza di ogni
  riferimento ai valori fondamentali del patto costituzionale ed
  alla loro problematica attuazione.
    E tuttavia il discorso sui valori precede concettualmente e
  funzionalmente ogni discorso sulle forme ed i metodi della
  democrazia, essendo questi ultimi fortemente correlati ai
  primi.
    La prima riforma che appare indispensabile per ridare
  vigore alla democrazia italiana è quella di recuperare la
  piena operatività dei princìpi fondamentali della
  Costituzione, che costituiscono gli elementi identificanti,
  originali ed irrinunciabili del patto con il quale i padri
  costituenti hanno voluto garantire la libertà e la felicità
  delle generazioni future.
    Di qui questa proposta di una articolata disciplina di
  attuazione dell'articolo 11 della Costituzione e del preambolo
  dello statuto dell'ONU, che si propone, senza nessuna pretesa
  di essere esaustiva, di dare attuazione ai molteplici e
  complessi princìpi, sia impliciti che espliciti, contenuti
  nell'articolo 11 della Costituzione e agli intendimenti e agli
  impegni che, alla fine della seconda guerra mondiale, sono
  stati posti a fondamento del nuovo libero Patto fra le
  nazioni.
    Poiché il diritto alla pace è bene originario, essenziale,
  che appartiene in modo indivisibile ai singoli ed alla
  comunità, la sua tutela deve partire direttamente dai
  cittadini, prima ancora che dai corpi politici organizzati.
  Per questo si è optato per una proposta di legge di iniziativa
  popolare, preceduta da una consultazione pubblica, quanto più
  estesa possibile, il che non esclude che tale proposta di
  legge sia contemporaneamente "incardinata" in Parlamento,
  mediante la presentazione alle Camere da parte dei
  parlamentari che intendano farlo, così da stabilire fin
  dall'inizio una significativa correlazione tra iniziativa
  popolare e iniziativa parlamentare.
  I princìpi e i contenuti normativi della proposta di
  legge.
    Le norme di attuazione dell'articolo 11 della Costituzione
  e del preambolo dello statuto dell'ONU sono composte da 34
  articoli, divisi in sei differenti capi.
  Capo  I - Fini e principi.
    Il primo capo si riferisce ai princìpi e contiene gli
  articoli da 1 a 8.
    L'esigenza di rendere espliciti ed indiscutibili i princìpi
  contenuti nelle tre proposizioni dell'articolo 11, attraverso
  una legge di attuazione, deriva dalla necessità di ribadirne
  la giuridicità e nello stesso tempo di renderli più operanti,
  cioè di accrescerne la capacità di orientare gli obiettivi, il
  contenuto ed i criteri di condotta della politica estera,
  nonché di consentire una più facile individuazione degli
  scostamenti della politica governativa dai canoni legali,
  incrementando, al contempo, la possibilità di controllo
  dell'opinione pubblica.
    Molto schematicamente si può rilevare che nell'articolo 11
  sono contenute norme che si collocano a diversi livelli: norme
  finali, o di scopo (quelle sulla pace e la giustizia fra le
  nazioni) e norme strumentali (sulla limitazione della
  sovranità e l'adesione ad organizzazioni internazionali),
  norme esplicite (il ripudio della guerra) e norme implicite
  (quella che consente la guerra in funzione di legittima difesa
  della Patria).
    Il ripudio della guerra è una norma strumentale, che
  enuncia una condizione inderogabile per il perseguimento di
  una più generale direttiva finalistica (la pace e la
  giustizia); pertanto, non è possibile che lo scopo della
  costruzione della pace e della giustizia internazionale venga
  utilizzato, come è avvenuto per giustificare la partecipazione
  italiana alla guerra, per sancire una sorta di deroga alla
  disposizione sul ripudio della guerra, essendo, invece, la
  messa fuori legge della guerra
 
                              Pag. 10
 
  il canone essenziale ed imprescindibile per la realizzazione
  di un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le
  nazioni.
    Di qui la disposizione dell'articolo 1 che chiarisce che
  tale scopo non può essere perseguito, in nessun caso, facendo
  ricorso allo strumento della guerra.
    L'articolo 2 costituisce una esplicitazione del principio,
  implicitamente contenuto nell'articolo 11 (in relazione
  all'articolo 52 della Costituzione), che ammette il ricorso
  alla guerra per la difesa della Patria da aggressioni armate
  altrui, e nello stesso tempo precisa i contenuti del concetto
  di difesa della Patria, sulla scia della nota pronunzia della
  Corte costituzionale, n. 165 del 24 maggio 1985 che ha
  statuito che l'adempimento del dovere costituzionale di difesa
  della Patria (articolo 52, primo comma, della Costituzione)
  può essere realizzato attraverso la "prestazione di adeguati
  comportamenti di impegno sociale non armato".
    Dopo tale pronunzia il concetto di difesa della Patria ha
  cessato, anche sotto il profilo giuridico, di essere ostaggio
  della cultura militarista ed ha acquistato una più estesa e
  penetrante valenza positiva.
    E tuttavia appare più che mai necessaria una norma che
  renda espliciti e definiti i contenuti del dovere civico di
  difesa della Patria per evitare ogni aberrazione (come sarebbe
  l'estensione della difesa militare ai cosiddetti interessi
  vitali dell'Occidente) e per rendere coerente la difesa con i
  princìpi finalistici e solidaristici dell'articolo 11.
    A questo riguardo il comma 2 dell'articolo 2 precisa che
  l'Italia provvede alla difesa, così come concepita nel comma
  1, "nella indivisibile solidarietà con tutti i popoli".
    Il comma 3 dell'articolo 2, rompendo un inveterato
  pregiudizio della cultura militarista sull'esclusività della
  difesa armata, introduce il concetto della difesa popolare
  nonviolenta (DPN), stabilendo che la difesa da aggressioni e
  attacchi armati si fonda su due componenti, che hanno pari
  dignità e pari valore strategico: la difesa militare armata e
  la difesa popolare non violenta.  L'organizzazione concreta
  della difesa popolare non violenta, esulendo dagli scopi di
  una normativa sui princìpi, viene rinviata ad una apposita
  legge, che dovrà raccogliere i frutti della ricerca e della
  sperimentazione scientifica elaborata in questo settore.  In
  questa sede viene soltanto precisato che la DPN si avvale del
  servizio civile, escludendosi implicitamente che il servizio
  civile ne possa essere completamente assorbito.
    L'elaborazione del concetto di difesa della Patria porta
  anche ad un inquadramento di principio dell'obiezione di
  coscienza al servizio militare attraverso la norma di cui
  all'articolo 3.
    Tale norma sancisce la pari dignità del servizio civile e
  il diritto di scelta tra l'un servizio e l'altro, dal momento
  che entrambi concorrono a dare attuazione ai differenti
  profili che integrano il concetto di difesa della Patria, e
  sono ambedue orientati ai fini generali dell'ordinamento.
    Ovviamente la disciplina del servizio civile viene rinviata
  ad una specifica normativa (che esulerebbe dagli scopi di
  questa legge), in considerazione del fatto che è in fase
  avanzata di elaborazione da parte delle Camere una legge di
  riforma in questa materia.
    Nell'articolo 4 si rende esplicita l'assunzione da parte
  dell'Italia degli impegni presi dai popoli delle Nazioni
  Unite, di cui al preambolo dello statuto dell'ONU, sia in
  ordine alla liberazione dal "flagello della guerra", sia in
  ordine all'affermazione di diritti umani, della giustizia, del
  diritto, sia in ordine all'istituzione di sistemi alternativi
  alla forza delle armi; e si riprende il contenuto del punto 4
  dell'articolo 2 dello statuto dell'ONU sulla rinunzia alla
  minaccia e all'uso della forza, e dell'articolo 33 sul
  perseguimento della soluzione pacifica delle controversie
  internazionali.
    Il principio della dignità e della giustizia fra le nazioni
  postula una serie di politiche volte a realizzare una azione
  di cooperazione internazionale, una politica di solidarietà
  col Sud del mondo, di promozione della pace, di appoggio alla
 
                              Pag. 11
 
  crescita economica ed umana del pianeta.  Oggi è possibile
  individuare dei criteri oggettivi per dare un contenuto
  sufficientemente preciso al concetto di giustizia
  internazionale, sì da renderlo più concretamente attuabile.
    Il punto di partenza ovviamente è la Carta dell'ONU ed i
  numerosi atti internazionali, sia pure di diverso valore e
  portata, che hanno definito contenuti concreti e percorsi di
  attuazione ai princìpi di emancipazione, giustizia,
  solidarietà e rispetto della dignità dell'uomo che sono a
  fondamento dello statuto delle Nazioni Unite: dalla
  dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 ai due
  patti sui diritti civili e politici e sui diritti economici,
  sociali e culturali del 1966, dalla risoluzione dell'Assemblea
  generale circa la sovranità sulle risorse naturali del 1962
  alla Carta dei diritti e doveri economici degli Stati del
  1974, alla Dichiarazione sul diritto allo sviluppo del
  1986.
    I criteri che debbono ispirare l'azione dell'Italia per la
  promozione della dignità umana e della giustizia
  internazionale sono delineati dall'articolo 5.  Tale norma è
  divisa in tre parti.
    La prima parte contiene un esplicito richiamo ai princìpi
  contenuti nei Patti ONU del 1966 (ratificati dall'Italia con
  legge 25 ottobre 1977, n. 881), che costituiscono una vera e
  propria pietra miliare per la costruzione di un nuovo ordine
  internazionale basato sul diritto e sui diritti dell'uomo e
  dei popoli, nonché alla Carta dei diritti e dei doveri
  economici degli Stati (approvata dall'Assemblea generale con
  la risoluzione 12 dicembre 1974, n. 3281 - XXIX) e agli altri
  princìpi e programmi deliberati dalle Nazioni Unite "per
  promuovere un nuovo ordine politico ed economico
  internazionale che assicuri la dignità umana, lo sviluppo
  economico ed il progresso sociale di tutti i popoli".
    La seconda parte esplicita, estrapolandoli, taluni princìpi
  contenuti tanto nella Carta del 1974, quanto nella successiva
  Dichiarazione sul diritto allo sviluppo (adottata
  dall'Assemblea generale con la risoluzione 4 dicembre 1986, n.
  128-XLI).
  Il rapporto con il Sud del mondo non deve essere improntato
  al perseguimento del maggior vantaggio commerciale, né può
  limitarsi a fornire programmi di assistenza a quegli Stati che
  si trovino in condizioni svantaggiate, bensì deve tendere ad
  incoraggiare una ristrutturazione degli scambi ed un più
  equilibrato rapporto fra i prezzi di prodotti esportati e
  quelli dei prodotti importati dai Paesi in via di sviluppo, al
  fine di consentire a tutti i Paesi un adeguato sviluppo
  economico-sociale.
    Non si tratta di mere petizioni di principio.  Malgrado
  l'accentuarsi della distanza fra il Nord ed il Sud del mondo
  ed il non avvenuto decollo del nuovo ordine economico
  internazionale, le politiche di cooperazione allo sviluppo
  sono avvertite tuttora dalla Comunità internazionale come un
  imperativo giuridico.
    Tale imperativo è, per esempio, alla base delle quattro
  Convenzioni stipulate dalla CEE con i Paesi ACP (all'ultima
  delle quali l'Italia ha aderito con la legge 6 giugno 1991, n.
  177).
    Infine la terza parte dell'articolo 5 mette in gioco le
  formazioni sociali internazionali, attive nel campo della
  cooperazione allo sviluppo e della protezione dei diritti
  umani, disponendo che l'azione per la promozione della
  giustizia internazionale si realizza anche attraverso la
  collaborazione con tali formazioni sociali.
    Si tratta di un significativo riconoscimento del ruolo e
  della funzione delle ONG, cioè di questo nuovo soggetto
  collettivo, attivo sulla scena internazionale, che rappresenta
  interessi panumani (si pensi alle oltre 20.000 organizzazioni
  internazionali non governative, di cui 831 con  status
  consultivo all'ONU) ed introduce un elemento irriducibile di
  pluralismo rispetto al vecchio ordinamento internazionale
  inteso come società di Stati.
    Infine gli articoli 6, 7 e 8 completano il quadro dei
  princìpi ponendo il parametro fondamentale dell'integrità
  della biosfera, intesa anche come preservazione della vita per
  le generazioni future, del sostegno alla liberazione dei
  popoli nell'autodeterminazione, nell'interdipendenza e nella
  solidarietà,
 
                              Pag. 12
 
  e del rispetto dei valori culturali, fondato tanto sul
  riconoscimento reciproco delle diverse culture, quanto sul
  dialogo e quindi sulla "coesistenza pacifica" fra le diverse
  culture (con la delegittimazione di ogni integralismo).
  Capo   II - Azione rispetto alle minacce alla pace, alle
  violazioni della pace ed agli atti di aggressione;  azione
  umanitaria.
    L'Italia ha aderito alle Nazioni Unite essendo diventata un
  membro dell'Organizzazione nel 1955 (l'adesione è stata
  ratificata con la legge 17 agosto 1957, n. 848).
    Ciò è avvenuto in attuazione della seconda e terza
  proposizione dell'articolo 11 della Costituzione, che i
  Costituenti hanno concepito proprio in vista dell'adesione
  dell'Italia alle Nazioni Unite, considerata come
  l'Organizzazione internazionale funzionalmente rivolta alla
  costruzione di un ordine internazionale fondato sulla pace e
  la giustizia fra le nazioni.
    L'adesione alle Nazioni Unite non costituisce una deroga od
  una limitazione al principio del ripudio della guerra poiché,
  come ha testimoniato recentemente Dossetti, uno dei padri
  dell'articolo 11, la seconda proposizione "non attenua, ma
  conferma il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione
  delle controversie internazionali".
    E tuttavia il sistema di sicurezza introdotto dalla Carta
  di San Francisco prevede la possibilità dell'adozione di
  misure coercitive contro gli Stati che compiano atti di
  aggressione o pongano in essere minacce alla pace o alla
  sicurezza collettiva, mediante ricorso all'uso delle Forze
  armate che gli Stati membri devono mettere a disposizione del
  Consiglio di sicurezza.
    L'uso residuo, circoscritto, e limitato della forza sotto
  la direzione del Consiglio di sicurezza, così come previsto
  dagli articoli 42 e seguenti della Carta dell'ONU, però, è
  qualcosa di profondamente differente dal fatto bellico.
    L'uso della forza in funzione di polizia è qualcosa di
  ontologicamente differente dall'uso della forza in funzione
  della guerra.
    Lo statuto dell'ONU non ammette il ricorso alla guerra come
  mezzo lecito di soluzione delle controversie internazionali,
  né - tanto meno - come strumento di azione delle Nazioni
  Unite.
    E' ben vero che la distinzione fra misure coercitive
  realizzate con l'uso della forza e ricorso alla
  guerra-sanzione può apparire sfumata ove si depotenzi la
  concezione universalistica e normativa dell'ONU, quale
  ordinamento finalizzato alla salvaguardia della pace tramite
  la soluzione pacifica delle controversie fra Stati e la tutela
  dei diritti fondamentali dell'uomo e dei popoli, a favore
  della concezione statalistica e realistica dell'ONU, quale
  associazione fra Stati sovrani dominata dalle grandi potenze
  alle quali sarebbe affidato il mantenimento dell'ordine, anche
  con il mezzo della guerra.
    In realtà le due concezioni convivono ambiguamente
  nell'esperienza delle Nazioni Unite.  L'articolo 11 della
  Costituzione, prefigurando l'adesione dell'Italia ad
  organizzazioni internazionali rivolte allo scopo di promuovere
  un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le
  nazioni, ha optato inequivocabilmente per la concezione
  universalistica e normativa dell'ONU.
    Questa concezione deve essere tenuta ferma nel
  comportamento dell'Italia quale membro delle Nazioni Unite.
    La Carta delle Nazioni Unite privilegia la soluzione con
  mezzi pacifici delle controversie che potrebbero portare ad
  una violazione della pace (articolo 1, primo comma) e tratta
  nel capo VI i mezzi e le procedure per la soluzione pacifica
  delle controversie come prevenzione della guerra.
    Qualora il regolamento pacifico delle controversie non sia
  stato tentato o non abbia avuto effetto positivo, allora si
  pone il problema delle misure da adottare per far fronte alle
  violazioni della pace ed agli atti di aggressione.
 
                              Pag. 13
 
    Mentre l'attuazione del capo VI della Carta di San
  Francisco non richiede alcuna particolare disciplina, ben
  diverso è il problema dell'attuazione del capo VII, che
  postula uno specifico adattamento dell'ordinamento giuridico
  interno.
    Le misure sanzionatorie che possono essere adottate dal
  Consiglio di sicurezza sono di due tipi: misure non implicanti
  l'uso della forza (di cui all'articolo 41) e misure implicanti
  l'uso della forza (di cui all'articolo 42).  Delle prime si
  occupa l'articolo 9 e delle seconde l'articolo 10 della
  presente proposta di legge.
    Articolo 9 - Anzitutto si afferma l'impegno dell'Italia a
  cooperare alla soluzione pacifica delle controversie, con
  mezzi di diplomazia preventiva.
    Quanto alle misure previste dall'articolo 41, esse
  vincolano tutti gli Stati membri, però non sono immediatamente
  esecutive poiché l'adesione all'ONU non comporta cessione di
  sovranità in senso tecnico, come avviene nei confronti della
  CEE (che può emanare dei regolamenti che hanno forza di legge
  in tutti gli Stati membri), bensì soltanto l'assunzione di
  penetranti obblighi internazionali.
    Di qui l'esigenza dl prefigurare il ricorso ad appositi
  provvedimenti legislativi per dare attuazione alle misure di
  cui all'articolo 41 "sempre che tali misure risultino conformi
  allo statuto".
    Tale inciso non costituisce una scappatoia per sottrarsi
  all'obbligo di porre in essere le sanzioni decretate dal
  Consiglio di sicurezza, bensì una clausola di garanzia del
  sistema
    E' noto, infatti, che la Carta dell'ONU presenta un
  carattere rigido e che gli organi non possiedono un potere
  costituente: non possono pertanto adottare provvedimenti che
  modifichino o deroghino le norme dello statuto.
    D'altro canto non esiste neanche la possibilità di invocare
  una istanza giurisdizionale in cui possa essere effettuato il
  controllo di legittimità degli atti (tale non è la Corte
  internazionaie di giustizia).
    Vale pertanto il principio affermato dall'articolo 2,
  quinto comma, della Carta che stabilisce che i membri delle
  Nazioni Unite devono collaborare con ogni azione intrapresa
  dall'organizzazione in conformità alle disposizioni dello
  statuto.
    Le misure implicanti l'uso della forza armata di cui
  all'articolo 42 possono essere realizzate dal Consiglio di
  sicurezza soltanto facendo ricorso alle forze armate messe a
  disposizione dagli Stati membri, in virtù degli accordi
  speciali previsti dall'articolo 43.
    E' noto che tali accordi non sono mai stati stipulati e che
  il Consiglio di sicurezza non dispone delle forze armate
  necessarie per poter intraprendere le possibili azioni di
  polizia internazionale richieste per la tutela della pace.
    E tuttavia il problema, a seguito delle più recenti
  evoluzioni del quadro internazionale è divenuto nuovamente di
  attualità.  Infatti il Consiglio di sicurezza dell'ONU
  riunitosi, per la prima volta nella sua storia, a livello dei
  Capi di Stato e di governo dei Paesi membri il 31 gennaio
  1992, ha incaricato il Segretario generale, Boutros Ghali, di
  stendere un rapporto sulle modalità di intervento dell'ONU nel
  campo delle azioni in favore della pace.
    Il rapporto, reso pubblico il 18 giugno 1992, propugna la
  costituzione di forze armate dell'ONU ed invita il Consiglio
  di sicurezza a concludere, quanto prima possibile, gli accordi
  speciali previsti dall'articolo 43 dello statuto e a
  riattivare quel Comitato di Stato maggiore, previsto
  dall'articolo 47, che inutilmente Francia ed URSS avevano
  tentato di suscitare nel corso della crisi del Golfo
  Persico.
    Articolo 10 - Benché il sistema previsto dagli articoli 43
  e seguenti per le azioni di polizia internazionale dell'ONU
  non abbia avuto finora attuazione, la prassi conosce diverse
  esperienze in cui si è fatto ricorso all'uso di una forza
  armata dell'ONU (i cosiddetti caschi blu) sotto il comando del
  Segretario generale per effettuare delle missioni di
  interposizione, pacificazione e controllo dei conflitti.
    E' questo il caso delle operazioni della Forza delle
  Nazioni Unite nel Congo (ONUC - 1960/1964) o delle varie
  missioni
 
                              Pag. 14
 
  nel Medio Oriente per controllare il rispetto degli accordi
  di tregua, a partire dall'UNEF I (che operò sulla frontiera
  egiziano-israeliana dal 1956 al 1967), all'UNEF II (sempre
  sulla frontiera egizianoisraeliana dal 1973 al 1979) all'UNDOF
  (Forza di osservazione dislocata nel Golan nel 1974 e tuttora
  in opera), all'UNIFIL (forza cuscinetto fra Israele e il
  Libano, costituita nel 1978 e tuttora in opera).  Le forze
  delle Nazioni Unite operano anche a Cipro (UNFICYP, costituita
  nel 1964 e tuttora in essere) e si apprestano a garantire il
  prossimo svolgimento del   referendum   istituzionale
  nel Sahara occidentale con una missione denominata MINURSO,
  disposta dalla risoluzione n. 690/1991 del Consiglio di
  sicurezza, nonché in Cambogia, dove una missione militare e
  civile delle Nazioni Unite, denominata UNTAC, stabilita sulla
  base della risoluzione n. 668/1990, sta assicurando la
  transizione verso un assetto pacifico dopo gli orrori del
  genocidio e di undici anni di guerra civile.
    Il compito più difficile sino ad ora affrontato dalle forze
  di pace dell'ONU, è certamente quello della missione in
  Jugoslavia, denominata UNPROFOR, stabilita sulla base delle
  risoluzioni 713/1991 e seguenti del Consiglio di sicurezza,
  che ha giocato un ruolo determinante per bloccare il conflitto
  sulla frontiera serbo-croata e si è poi impegnata ad
  assicurare il flusso dei soccorsi per la martoriata
  popolazione di Sarajevo e di altri centri bosniaci, in una
  drammatica congiuntura della quale è impossibile prevedere gli
  esiti.
    Le forze per il mantenimento della pace vengono dislocate
  con il consenso di tutte le parti interessate, sono dotate di
  armamenti modesti e non hanno una funzione di belligeranza.
    E' controverso se la loro costituzione ed il loro operato
  rientri nel capitolo VI (azione di conciliazione) o nel
  capitolo VII (azione di polizia internazionale).  Non può
  dubitarsi, tuttavia, che esse svolgano una azione positiva per
  il mantenimento della pace e che siano configurabili come vere
  e proprie forze armate dell'ONU, essendo sotto il comando del
  Segretario generale, e che l'uso della forza è perfettamente
  conforme ai limiti intrinseci di cui all'articolo 42.
    Questa funzione positiva (anche se limitata) per il
  mantenimento della pace è generalmente riconosciuta, tanto che
  nel 1988 è stato attribuito il premio Nobel per la pace
  proprio alle Forze dell'ONU per il mantenimento della pace.
    Nell'occasione Perez De Cuellar aveva dichiarato nel
  discorso di accettazione: "le operazioni per il mantenimento
  della pace hanno contribuito ad introdurre nella sfera
  militare il principio della non-violenza.  Esse offrono una
  onorevole alternativa ai conflitti ed un mezzo per ridurre
  contese e tensioni, in modo che una soluzione possa essere
  ricercata attraverso il negoziato.  Non era mai accaduto prima
  d'ora nella storia dell'umanità che delle forze militari
  venissero impiegate sul piano internazionale, non già con
  l'intenzione di muovere una guerra o di divenire uno strumento
  di dominazione o di servire gli interessi di una potenza,
  oppure di un gruppo di potenze, ma col preciso scopo di
  prevenire dei conflitti fra i popoli".
    Poiché le forze per il mantenimento della pace non sono
  previste dallo statuto delle Nazioni Unite, la eventuale
  partecipazione dell'Italia deve essere necessariamente
  regolata con legge.  A tal fine è stata posta la norma di cui
  all'articolo 10 che prevede che l'Italia, fin quando non
  avranno attuazione gli articoli 45 e seguenti dello statuto,
  può soltanto fornire formazioni non armate, forze di polizia e
  personale civile, per funzioni non implicanti l'uso della
  forza, nonché contingenti militari per partecipare all'azione
  delle forze dell'ONU.
    Anche in questo caso è previsto che i relativi accordi
  siano autorizzati dalle Camere in virtù dell'articolo 80 della
  Costituzione.
    L'articolo 11 della proposta di legge si propone di dare
  attuazione all'articolo 43 dello statuto dell'ONU,
  riconoscendo la validità di tale norma, rimasta sino ad ora
  inattuata.
 
                              Pag. 15
 
    E' previsto perciò l'obbligo dell'Italia di procedere alla
  stipulazione degli accordi speciali previsti dallo statuto per
  mettere a disposizione del Consiglio di sicurezza le forze
  necessarie ai fini istituzionali dell'Organizzazione.  Tali
  accordi possono essere stipulati anche in forma collettiva
  come previsto dall'articolo 43, terzo comma, dello statuto
  delle Nazioni Unite; e ciò tenendo conto del fatto che
  l'Italia partecipa al processo di integrazione europea e a
  diverse organizzazioni internazionali le quali potrebbero
  stipulare specifici accordi con il Consiglio di sicurezza,
  mentre la stessa CEE potrebbe operare secondo le previsioni
  dell'articolo 53 dello statuto.
    Per contrastare una deprecatissima prassi instauratasi nel
  campo dei rapporti internazionali, che tende a sottrarre al
  Parlamento il controllo della politica estera, il comma 3
  dell'articolo 11 precisa opportunamente che gli accordi di cui
  sopra devono essere autorizzati dalle Camere, in conformità
  all'articolo 80 della Costituzione e all'articolo 43, terzo
  comma, dello statuto dell'ONU.
    Il comma 4 stabilisce che l'impiego dei contingenti
  militari, messi a disposizione dell'ONU, deve avvenire
  esclusivamente sotto il comando del Consiglio di sicurezza in
  conformità degli articoli 45, 46 e 47 dello statuto
  dell'ONU.
    Il costante richiamo alle norme dello statuto, per quanto
  possa sembrare ovvio, trova una sua robusta ragione di essere
  nell'esigenza di evitare che possa essere contrabbandata per
  azione di polizia internazionale delle Nazioni Unite
  l'iniziativa militare di singoli Stati o multinazionale,
  quand'anche questa azione venga consentita o approvata dal
  Consiglio di sicurezza, e quindi di impedire il ricorso
  all'azione militare al di là o al di fuori dei limiti
  strutturali e funzionali delle Nazioni Unite.
    Proprio per questo motivo il comma 5 dell'articolo 11 fa
  salva la facoltà dell'Italia di rifiutare la propria
  collaborazione militare in caso di azioni armate che
  esorbitino dai limiti intrinseci di cui all'articolo 42 dello
  statuto dell'ONU o che comportino, comunque "un uso massiccio
  ed indiscriminato della violenza militare proprio della
  guerra".
    Anche in questo caso vale quanto si è detto prima in ordine
  al diritto-dovere degli Stati membri dell'ONU di cooperare con
  le Nazioni Unite in conformità alle disposizioni dello
  statuto.
    La partecipazione alle azioni di polizia internazionale
  delle Nazioni Unite non può, pertanto, essere frutto di un
  mero automatismo che, dalla stipulazione di un accordo per la
  messa a disposizione delle truppe, faccia discendere la
  partecipazione a qualunque operazione senza possibilità di
  sindacato alcuno.
    In ultima istanza la decisione sull'uso della forza spetta
  sempre all'Italia che non può vagliare l'opportunità politica
  delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza, ma deve
  verificare la loro conformità allo statuto.
    Tale decisione deve essere assunta in conformità ai
  princìpi della rappresentatività democratica: pertanto
  l'ultimo inciso del comma 4 prevede che la decisione su ogni
  ipotesi di impiego delle forze armate deve essere
  preventivamente autorizzata dalle Camere.
    Va da sé che le Camere non potrebbero autorizzare il
  ricorso ad un uso massiccio ed indiscriminato della violenza
  militare poiché ciò contrasta tanto col principio
  costituzionale del ripudio della guerra, quanto con le norme
  che sono a fondamento delle Nazioni Unite.
    Articolo 12. - Il 1992 è stato l'anno di Maastricht, il
  trattato, siglato il 7 febbraio 1992, che dovrebbe sancire la
  nascita di una nuova Europa, attraverso la trasformazione
  delle Comunità Europee in "Unione europea".  Col trattato il
  processo di integrazione europea effettua un notevole, anche
  se controverso, passo in avanti.  Gli obiettivi fondamentali
  della nuova Unione sono due:  a)   rafforzare la coesione
  economico-sociale attraverso l'instaurazione di una unione
  economica e monetaria che porti alla adozione di una moneta
  unica;  b)  definire una identità dell'Europa sulla scena
  internazionale, mediante l'attuazione di una politica estera e
  di sicurezza
 
                              Pag. 16
 
  comune, nella prospettiva di pervenire ad una difesa
  comune.
    Il trattato accomuna la politica estera e la politica di
  difesa, sebbene si tratti di settori concettualmente
  distinti.
    A norma dell'articolo J. 2: "gli obiettivi della politica
  estera e di sicurezza comune sono i seguenti:
      difesa dei valori comuni, degli interessi fondamentali e
  dell'indipendenza dell'Unione;
      rafforzamento della sicurezza dell'Unione e dei suoi
  Stati membri in tutte le sue forme;
      mantenimento della pace e rafforzamento della sicurezza
  internazionale conformemente ai princìpi della Carta delle
  Nazioni Unite, nonché ai princìpi dell'Atto finale di Helsinki
  e agli obiettivi della Carta di Parigi;
      promozione della cooperazione internazionale;
      sviluppo e consolidamento della democrazia e dello Stato
  di diritto, nonché rispetto dei diritti dell'uomo e delle
  libertà fondamentali".
    Per perseguire questi obiettivi il trattato prevede che gli
  Stati membri dell'Unione realizzeranno delle "azioni comuni",
  che saranno decise dal Consiglio (dei ministri) sulla base
  degli orientamenti generali del Consiglio europeo.
    Le azioni comuni "vincolano gli Stati membri nelle loro
  prese di posizione e nella condotta della loro azione"
  (articolo J. 3, n. 4).  In mancanza di strutture comuni o
  integrate di difesa, il trattato prevede che le azioni comuni,
  decise dal Consiglio, dovranno essere elaborate ed attuate
  dalla Unione dell'Europa Occidentale (UEO).  In questo modo
  l'UEO viene assorbita nel processo di integrazione europea e
  diviene una struttura della nascente Unione europea, sebbene
  non tutti gli Stati membri delle Comunità europee facciano
  parte della UEO (non vi partecipano, infatti, la Grecia, la
  Danimarca e l'Irlanda).  In realtà l'UEO è un organismo dotato
  soltanto di strutture politiche, essendo stata la cooperazione
  militare tra gli stessi Stati membri dell'Unione dell'Europa
  Occidentale sviluppata tradizionalmente ed esclusivamente in
  ambito NATO.  In tema di sicurezza, quindi, il trattato di
  Maastricht, introduce un preciso riferimento alla NATO,
  prevedendo che: "la politica dell'Unione... rispetta gli
  obblighi derivanti per alcuni Stati membri dal Trattato
  dell'Atlantico del Nord ed è compatibile con la politica di
  sicurezza e difesa comune adottata in questo ambito" (cioè
  nell'ambito della NATO).  La UEO, che viene costantemente
  definita come il pilastro europeo dell'Alleanza atlantica, non
  avendo vere e proprie strutture militari, ha bisogno di
  appoggiarsi sull'Alleanza atlantica e di utilizzarne mezzi e
  strutture, secondo il principio del doppio cappello.  Infatti,
  come prima conseguenza del trattato, la UEO ha deciso di
  trasferire la sede del Consiglio e del Segretariato generale
  da Londra a Bruxelles.  In definitiva il rapporto tra la
  nascente Unione europea, la UEO, la NATO e gli Stati Uniti
  d'America (nazione egemone della NATO) non è stato affrontato
  con chiarezza, né risolto in modo definitivo nel testo del
  trattato di Maastricht, talché la futura difesa comune europea
  appare come una nebulosa dai confini indefinibili.
    In questo quadro non aiutano a fare chiarezza le ulteriori
  vicende relative alla nascita del corpo militare integrato
  francotedesco, annunziata a La Rochelle nel maggio del 1992,
  struttura che si propone come un embrione di esercito europeo
  integrato, in concorrenza col ruolo che dovrebbe giocare l'UEO
  e la recente decisione della NATO, assunta dal Consiglio
  atlantico di Oslo del 4 giugno 1992, con la quale l'Alleanza,
  per la prima volta nella sua storia e in aperta contraddizione
  con il trattato NATO, ha dichiarato la sua disponibilità a
  mettere le sue strutture militari a disposizione della
  Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa per
  operazioni di  peace keeping  o di  peace making
  nell'area euro-asiatica.
    L'UEO, dal canto suo, riunitasi a livello di Consiglio dei
  ministri degli esteri e della difesa, il 19 giugno 1992 a
  Petersberg, ha approvato una dichiarazione con cui gli
 
                              Pag. 17
 
  Stati membri si sono fissati come obiettivo di "sostenere,
  caso per caso, la messa in opera di efficaci misure di
  prevenzione dei conflitti e di gestione delle crisi, e
  specialmente le attività di mantenimento della pace della CSCE
  o del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite".  Per
  realizzare questi obiettivi, gli Stati membri si impegnano a
  mettere a disposizione della UEO delle unità militari.  Queste
  unità potranno essere utilizzate: "per delle missioni
  umanitarie o di evacuazione di profughi; delle missioni di
  mantenimento della pace; delle missioni di forze di
  combattimento per la gestione delle crisi, ivi comprese le
  operazioni per il ristabilimento della pace".  Infine la CSCE,
  nella conferenza di Helsinki del luglio del 1992, ha deciso di
  trasformarsi in un patto di sicurezza regionale, ai sensi del
  capitolo VII della Carta dell'ONU.
    In questo momento molte gravissime crisi sono in corso
  nell'area dell'ex Europa Orientale e sono stati ideati
  molteplici strumenti di intervento, in un contesto in cui non
  vi è chiarezza, neanche sotto il profilo giuridico.
    L'unica cosa certa è che le azioni comuni nel settore della
  difesa, tanto in ambito dell'Unione europea, quanto in ambito
  NATO, quanto in ambito UEO, devono comunque rispettare tanto
  le norme dello statuto dell'ONU (che prevalgono sempre sulle
  obbligazioni nascenti da altri trattati internazionali, di cui
  all'articolo 103 dello statuto), quanto i princìpi supremi
  dell'ordinamento costituzionale (che non sono derogabili
  neanche in sede di integrazione europea).
    Per garantire che tali azioni militari non travalichino lo
  statuto dell'ONU e i princìpi supremi dell'ordinamento
  costituzionale, l'articolo 12 subordina la partecipazione
  dell'Italia al preliminare accertamento di conformità da parte
  delle Camere, sulla scia di quanto già previsto dalle
  disposizioni di cui all'articolo 10.
    Articolo 13. - Resta a questo punto il problema di
  individuare se siano consentiti ulteriori impieghi delle Forze
  armate italiane all'estero.  L'unico intervento ammissibile, al
  di là degli interventi in sede ONU, di cui si è detto prima,
  coerente col principio costituzionale del ripudio della
  guerra, è quello umanitario.
    L'articolo 13 prevede che le Forze armate italiane e
  componenti civili non armate possano partecipare ad azioni non
  belligeranti che abbiano contenuto umanitario.  E' richiesto
  però il consenso dello Stato interessato.  Ciò non perché il
  principio della sovranità degli Stati sia ritenuto prevalente
  su quello della solidarietà fra i popoli, bensì per una
  ragione pratica, perché l'intervento delle Forze armate nel
  territorio di un altro Stato, anche se rivolto ad un fine
  umanitario, quando viene attuato senza il consenso dello Stato
  interessato, può essere percepito come un atto di ostilità e
  può portare allo scoppio delle ostilità.
    Che può succedere nei casi in cui a seguito di eventi
  straordinari (colpi di Stato, rivoluzioni, eccetera) lo Stato
  interessato non sia più in grado di esprimere un valido
  consenso?  L'ipotesi non è regolata poiché occorrerà valutare
  caso per caso, ma l'intervento umanitario non può essere
  escluso in via di principio poiché la solidarietà fra gli
  uomini ed i popoli costituisce un criterio fondamentale di
  orientamento nell'esercizio della politica estera.
    Articolo 14. - L'Italia ha ratificato tutte le principali
  convenzioni internazionali di carattere umanitario, relative
  al diritto dei conflitti armati e si è dotata, sin dal 1938,
  di una legge di guerra (regio decreto 8 luglio 1938, n. 1415),
  che recepisce i princìpi di diritto umanitario contenuti nelle
  convenzioni all'epoca vigenti, rendendoli ancora più
  espliciti.
    Dopo la seconda guerra mondiale il diritto bellico
  umanitario ha conosciuto un imponente sforzo di codificazione,
  che ha dato origine al sistema delle quattro convenzioni di
  Ginevra dell'agosto 1949 e dei due protocolli aggiuntivi del
  giugno del 1977.  Anche tali convenzioni e protocolli sono
  stati ratificati dall'Italia e sono pertanto pienamente
  vigenti nel nostro ordinamento giuridico.  Di conseguenza in
  qualunque condizione di impiego e in ogni
 
                              Pag. 18
 
  circostanza, l'utilizzo delle Forze armate italiane è
  soggetto al rigoroso rispetto del diritto bellico umanitario
  regolarmente vigente.  L'esperienza della guerra nel Golfo,
  però, ha mostrato che le Forze aeree italiane sono state poste
  sotto il comando operativo del Centro americano di
  coordinamento delle Forze aeree di Rijad, sebbene gli Stati
  Uniti non avessero ratificato i due protocolli di Ginevra e si
  ritenessero svincolati (come hanno anche dimostrato nel corso
  delle operazioni militari) dalle relative norme.
    In questa circostanza, quindi, le Forze armate italiane
  hanno cooperato con l'azione di una struttura militare che ha
  commesso gravi violazioni delle norme che disciplinano i
  conflitti armati, inevitabilmente concorrendovi.
    Nel caso di azioni comuni o di altre forme di intervento in
  associazione con più Paesi, deve essere chiaro che le Forze
  armate italiane sono comunque e inderogabilmente tenute
  all'osservanza di tutte le norme del diritto bellico
  umanitario, sia quelle di derivazione pattizia, sia quelle di
  derivazione consuetudinaria.  Di qui l'opportunità di ribadire,
  con una apposita norma, questo pur ovvio principio.
    Articolo 15. - Prevedere una disciplina specifica per gli
  interventi delle Forze armate italiane all'estero è già una
  garanzia per scongiurare un uso delle Forze armate che non sia
  coerente con il sistema delineato in applicazione
  dell'articolo 11 della Costituzione.  Tuttavia una norma senza
  sanzione viene comunemente definita imperfetta.  Per rendere
  una normativa pienamente operante occorre che l'ordinamento
  preveda delle adeguate reazioni alle possibili violazioni
  delle norma stessa.
    La questione è particolarmente delicata nella materia in
  oggetto poiché la violazione delle norme che regolano
  l'intervento delle Forze armate all'estero comporta quasi
  inevitabilmente il ricorso alla guerra.
    A questo riguardo non è stato necessario prevedere
  l'introduzione di norme penali  ad hoc.  E' bastato
  richiamare implicitamente la distinzione fra uso lecito ed uso
  illecito della forza, per cui i fatti di uso della violenza
  militare commessi in virtù di operazioni non consentite dalla
  legge non sono suscettibili di discriminazioni di sorta e
  ricadono, pertanto, sotto l'imperio della legge penale comune.
  Per cui ogni uccisione integrerà un reato di omicidio, ogni
  bombardamento integrerà un reato di strage, ogni distruzione
  di cose integrerà un reato di danneggiamento.
    Articolo 16. - In queste circostanze scatteranno le norme
  di cui alla legge sui princìpi della disciplina militare
  (legge n. 382 del 1978) e del rispettivo regolamento (decreto
  del Presidente della Repubblica n. 545 del 1986) che impongono
  ai militari di disobbedire agli ordini la cui esecuzione
  costituisca manifestamente reato.
    Infine è stata introdotta una garanzia politica: il diritto
  di resistenza, da attuarsi esclusivamente in modo non violento
  a fronte di quegli atti e provvedimenti adottati dalla
  Pubblica autorità in violazione delle disposizioni che
  consentono l'uso delle Forze armate all'estero.
    E' facile obiettare che la canonizzazione del diritto di
  resistenza potrebbe generare una diffusa indisciplina sociale
  che potrebbe anche pregiudicare l'uso lecito delle forze
  armate a cagione della difficoltà dei singoli di giudicare
  sulla liceità o illiceità di un determinato tipo di
  intervento; in realtà l'esercizio del diritto di resistenza
  non è un fatto che si può verificare  ad libitum,  rimesso
  agli umori delle masse.  Chi ricorre al diritto di resistenza
  lo fa a proprio rischio e pericolo perché in definitiva
  saranno i giudici a decidere sulla liceità/illiceità degli
  interventi armati e delle azioni di resistenza.
    La previsione del diritto di resistenza, lungi dal demolire
  l'autorità dello Stato, ha, in realtà, una funzione
  preventiva.  Serve a dissuadere gli organi politici di governo
  dal violare la normativa costituzionale in materia, che ne
  esce così rafforzata.
    E' una garanzia politica, la garanzia politica
  fondamentale, quella che affida al
 
                              Pag. 19
 
  popolo, titolare della sovranità, la tutela di quelle leggi
  che della sovranità sono l'espressione basilare.
    Articolo 17. - Coerente a questo sistema di garanzia è la
  norma di cui all'articolo 17, che prevede che gli atti del
  Consiglio supremo di difesa aventi ad oggetto gli interventi
  delle Forze armate italiane all'estero non possono essere
  classificati come segreti.
    Ciò per consentire alle Camere ed all'opinione pubblica il
  dovuto controllo di legalità.
  Capo  III - Disciplina dei sistemi d'arma e
  divieto del commercio delle armi da guerra.
    Articolo 18. - Lo strumento militare deve essere
  coerente con i fini, i princìpi ed i valori di un ordinamento
  fondato sul ripudio della guerra.  Per questo una legge di
  attuazione dell'articolo 11 della Costituzione non può
  prescindere dall'affrontare il problema degli strumenti
  tecnici operativi di cui le Forze armate devono essere dotate.
  Devono essere banditi, pertanto, quei sistemi d'arma aventi lo
  scopo di una proiezione strategica di potenza (portaerei,
  vettori a lungo raggio e simili), poiché si tratta di
  strumenti che esulano dalle necessità della difesa militare
  della Patria e sono funzionali ad una politica di potenza, che
  il Costituente ha inteso esiliare per sempre dal nostro
  ordinamento.
    L'accumulazione di ingenti quantità di armi e la
  predisposizione di determinati sistemi d'arma con vocazione
  fortemente offensiva è un presupposto indispensabile per ogni
  politica offensiva o di potenza.  Di qui l'esigenza di una loro
  interdizione.  Così come sarebbe un fatto altamente simbolico
  se tutti gli Stati escludessero dai loro arsenali i carri
  armati, tipico sistema d'arma di tutte le invasioni, le
  aggressioni internazionali e le repressioni interne.
    Articolo 19. - Il commercio internazionale delle armi gioca
  un ruolo fondamentale per rendere possibili i conflitti, sia
  internazionali che interni, e, al contempo, consolida quei
  regimi che, per carenza intrinseca di istituti democratici e
  per disprezzo dei diritti umani, hanno bisogno di fare ricorso
  alla forza per l'autoconservazione.
    Non v'è dubbio che la politica di potenza concepita ad
  aggressivamente condotta dall'Iraq di Saddam Hussein è stata
  resa possibile dalla facilità con cui questo Paese è riuscito
  a costruirsi uno strumento militare funzionale a tale
  politica.
    Occorre riconoscere che le armi da guerra, per la loro
  intrinseca pericolosità, non sono un prodotto che possa essere
  immesso nei circuiti del commercio internazionale secondo la
  legge della domanda e dell'offerta.
    Il limite insuperabile della legge n. 185 del 1990 sul
  controllo del commercio delle armi non risiede in questa o
  quella disposizione, ma nell'impostazione di fondo che porta a
  considerare le armi da guerra come una "merce" della quale la
  legge comprime l'intrinseca libertà di produzione e smercio,
  attraverso un sistema autorizzatorio.
    Il punto di partenza, al contrario, non può essere la
  libertà di produzione e di commercio, da regolare, sorvegliare
  ed eventualmente restringere mediante un sistema di
  autorizzazioni, ma il riconoscimento dello statuto di "beni
  illeciti" delle armi, di cui può soltanto essere consentita
  una limitata producibilità e trasferibilità con le stesse
  cautele con cui si consente la circolazione e la produzione -
  per uso terapeutico - di determinate droghe.
    L'articolo 19 vieta, pertanto, in linea di principio, il
  commercio internazionale delle armi da guerra, impegnando il
  Governo italiano ad adoperarsi in sede internazionale perché
  tale divieto sia recepito dagli altri Stati.
    Articolo 20. - Una volta posto il principio generale
  dell'interdizione del commercio delle armi, occorre pensare al
  regime delle deroghe ammissibili per soddisfare
 
                              Pag. 20
 
  le esigenze di difesa della Patria e delle patrie, che non
  possono essere contestate.
    A ciò provvede la norma di cui all'articolo 20 prevedendo
  una sintetica ma efficace disciplina della progettazione,
  produzione e circolazione delle armi da guerra, la cui
  produzione può avvenire solo su commessa e sotto il controllo
  del Governo e la cui circolazione all'estero può avvenire
  soltanto nel quadro di accordi internazionali (che devono
  necessariamente essere sottoposti a ratifica parlamentare ai
  sensi dell'articolo 80 della Costituzione) conformi alle
  disposizioni della presente legge.
    Articolo 21. - Anche in questo quadro di interdizione della
  libertà di produzione e di commercio della "merce" armi,
  rimane un ulteriore problema da risolvere, di non poco conto,
  che riguarda i limiti dei sistemi d'arma ammissibili per le
  funzioni legittime di difesa.  Orbene, il diritto bellico
  umanitario vieta l'impiego in guerra di determinate categorie
  di armi: le armi chimiche, le armi batteriologiche, le bombe a
  frammentazione, i proiettili esplosivi, le armi incendiarie e,
  in genere, quelle che possono causare "sofferenze non
  necessarie".
    Le armi nucleari, invece, pur non essendo direttamente
  interdette (come quelle chimiche e batteriologiche) devono
  considerarsi comunque illecite perché producono effetti, nei
  confronti della popolazione umana e dell'ambiente naturale,
  considerati inammissibili dal diritto bellico.
    Una volta che viene riconosciuto come illecito l'impiego di
  tali sistemi d'arma, è chiaro che ne devono essere vietati
  anche la produzione ed il commercio.  A tal fine l'articolo 21,
  colmando una lacuna della normativa internazionale, introduce
  il principio che è vietata la produzione ed il commercio delle
  armi il cui uso sia vietato dalle Convenzioni
  internazionali.
    La categoria delle armi vietate in assoluto viene,
  pertanto, determinata  per relationem,  facendo rinvio
  all'ordinamento internazionale.  Ciò consente che questo
  divieto possa essere continuamente aggiornato senza far
  ricorso a nuove norme di legge.
    Articolo 22. - Per quanto riguarda le armi nucleari,
  batteriologiche e chimiche, il divieto di fabbricazione,
  produzione e transito è già stato posto dalla legge n. 185 del
  1990 (articolo 1, comma 7), che però introduce una deroga per
  quei sistemi d'arma che siano in dotazione alle Forze armate
  della NATO in Italia, che rende privo di significato pratico
  il ripudio delle armi NBC, dal momento che in Italia sono
  comunque dislocate migliaia di armi nucleari (sulla cui
  consistenza non vengono date informazioni) ed una quantità
  imprecisata di armi chimiche.
    L'articolo 22 rende coerente tale divieto, prevedendo che
  esso si estende anche alle Forze armate dei Paesi alleati, che
  devono provvedere a smantellarle nel termine di sei mesi dalla
  data di entrata in vigore della legge.
    L'articolo 23 canonizza la legittima aspirazione delle
  popolazioni siciliane a che la base militare di Comiso, già
  utilizzata per l'installazione dei missili nucleari americani
  da crociera recentemente smantellati, in virtù del trattato di
  Washington sull'eliminazione degli euromissili, sia finalmente
  riconvertita ad usi civili.
    Gli articoli 24, 25, 26 e 27 completano la disciplina di
  questo capo, prevedendo che essa si estende anche alle
  componenti dei sistemi d'arma, introducendo delle norme penali
  per i contravventori alle disposizioni sulla produzione e sul
  commercio dei materiali di armamento e provvedendo per
  l'abrogazione delle norme incompatibili della legge n. 185 del
  1990.
  Capo  IV - Attivita degli enti locali.
    Articolo 28. - L'attuazione dei princìpi di pace,
  giustizia e solidarietà internazionale postulati dall'articolo
  11 della Costituzione e dal preambolo dello statuto
 
                              Pag. 21
 
  dell'ONU, non è affare che riguardi soltanto l'attività degli
  organi incaricati della politica estera.  Anche gli enti locali
  sono chiamati a svolgere un ruolo sul terreno che è loro
  proprio, che è quello dell'educazione e della formazione
  culturale.
    Già la legge sulla cooperazione internazionale (26 febbraio
  1987, n. 49) aveva individuato un ruolo ed una funzione degli
  enti locali, attribuendo loro - indirettamente - soggettività
  giuridica nel campo della cooperazione internazionale.  Questa
  soggettività viene messa ulteriormente a fuoco dalla norma di
  cui all'articolo 28 che chiama gli enti locali ad operare nel
  campo della educazione e soprattutto della formazione
  scolastica per la diffusione della cultura della pace, della
  non violenza e della cooperazione fra i popoli, agendo anche
  in collaborazione con le associazioni attive in questo
  settore.
    Ciò consente di superare definitivamente le difficoltà
  formali che gli organi di controllo avevano talora frapposto
  alle iniziative degli enti locali in questo campo.
  Capo  V - Trasparenza e coerenza dell'azione
  internazionale.
    Articoli 29 e 30. - L'azione internazionale deve essere
  coerente con i princìpi più volte enunciati e, per esserlo
  effettivamente, deve essere trasparente.  Non sono ammissibili
  zone d'ombra, santuari, territori riservati da cui sia escluso
  il controllo politico-parlamentare, quello giuridico e quello
  dell'opinione pubblica.
    Di qui la necessità di reagire ad una aberrante prassi
  costituzionale che ha visto la costruzione di una politica
  internazionale "segreta", attraverso la stipulazione di
  accordi riservati, realizzati in forma diversa dai trattati,
  talora da organi che non sono titolari del potere di
  formazione della volontà dello Stato nel campo dei rapporti
  internazionali (com'è il caso dell'accordo CIA-SIFAR del 1956
  che avrebbe dato origine a Gladio, il cui contenuto è stato
  reso inaccessibile persino ai magistrati che dovrebbero
  indagare sulla dubbia legalità di tale struttura).
    Il rimedio individuato è quello di rendere retroattiva una
  norma di legge (legge 11 dicembre 1984, n. 839) che ha già
  reso obbligatoria la pubblicazione nella  Gazzetta
  Ufficiale  di tutti gli accordi internazionali, comunque
  stipulati.
    Potrebbe però sorgere un ulteriore problema, che è stato
  sollevato proprio in relazione dalla vicenda Gladio.  Spesso
  gli Stati che stipulano accordi segreti prevedono una apposita
  clausola di "segretezza" che vincola i contraenti a non
  rendere di pubblico dominio tale accordo.  Pertanto l'obbligo
  giuridico nascente dal diritto interno di rendere pubblici gli
  accordi segreti, contrasterebbe con l'obbligo internazionale
  di tener fede al patto di segretezza.
    Questo problema viene, pertanto, opportunamente affrontato
  dalla norma in esame che lo risolve dichiarando nulle tali
  clausole, anche sotto il profilo del diritto internazionale,
  alla luce delle disposizioni della Convenzione di Vienna sul
  diritto dei trattati che prevede la possibilità che uno Stato
  possa invocare l'invalidità del consenso prestato nel caso di
  malafede dell'altro contraente.
    Resta a questo punto il problema della ulteriore validità
  dei trattati e degli accordi segreti che verrebbero in luce in
  virtù dell'obbligo di pubblicazione.  Di qui la necessità di
  prevedere che la (eventuale) sanatoria dei trattati che
  rientrano nelle categorie previste dall'articolo 80 della
  Costituzione deve essere fatta per legge (articolo 30).
    L'articolo 31, infine, introduce una norma di "chiusura" di
  questa disciplina organica di attuazione dei princìpi
  costituzionali in materia, statuendo che nella propria azione
  in seno agli organismi internazionali l'Italia debba essere
  coerente con tali princìpi e debba adoperarsi per promuovere
  il metodo democratico tanto nelle relazioni, quanto nel
  funzionamento delle istituzioni internazionali e per il
 
                              Pag. 22
 
  rafforzamento dei poteri e delle funzioni delle istanze
  giurisdizionali internazionali: in altre parole per
  l'attuazione dei princìpi propri dello Stato di diritto anche
  nella comunità internazionale.
  Capo  VI - Disposizioni finali.
    Le disposizioni finali - articoli 32, 33 e 34 - non si
  limitano alla rituale abrogazione delle norme incompatibili ed
  alla fissazione della data dell'entrata in vigore della nuova
  disciplina.  Esse introducono una novità di rilievo:
  l'abolizione della pena di morte, che nel nostro ordinamento
  sopravvive soltanto per i delitti previsti dalle leggi
  militari di guerra, in quanto incompatibile con l'esigenza del
  rispetto dei valori essenziali della persona umana.  Viene,
  inoltre, specificamente prevista l'abrogazione di un intero
  corpo di norme estratte dal codice penale militare di guerra,
  molte delle quali già gravate da pesanti sospetti di
  incostituzionalità, la cui ulteriore permanenza in vita
  costituisce un pericolo gravissimo per l'esistenza stessa
  della democrazia (com'è il caso della norma che consente
  l'applicazione della legge militare di guerra in caso di
  urgente ed assoluta necessità), ovvero un attento potenziale
  ai diritti umani fondamentali ed una inammissibile coartazione
  di ogni azione individuale o collettiva per la pace.
    Se tali abrogazioni non potessero essere rapidamente
  conseguite mediante l'approvazione parlamentare della presente
  proposta di legge e del suo articolo 30, potrà rendersi
  necessario il ricorso al  referendum  abrogativo; sarebbe
  anche questo un modo per dare attuazione, grazie all'impulso e
  alla volontà politica dei cittadini, all'articolo 11 della
  Costituzione e agli impegni di giustizia e di pace enunziati
  dal preambolo dello statuto delle Nazioni Unite; sarebbe anche
  questa una di quelle "Azioni Unite", di cui abbiamo illustrato
  la necessità e il disegno, che molti uomini e donne insieme,
  con i loro movimenti, partiti, sindacati e chiese, potrebbero
  intraprendere nel perseguire il ripudio della guerra, il
  superamento del dominio, l'inveramento della democrazia e il
  servizio alla libertà.
 
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