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Testi integrali degli Atti Parlamentari della XII Legislatura

Documento


787
DDL0057-0002
Progetto di legge Camera n. 57 - testo presentato - (DDL12-57)
(suddiviso in 9 Unità Documento)
Unità Documento n.2 (che inizia a pag.1 dello stampato)
...C57. TESTIPDL
...C57.
RELAZIONE
ZZDDL ZZDDLC ZZNONAV ZZDDLC57 ZZ12 ZZRL ZZPR
    Onorevoli Deputati! -- L'iniziativa legislativa e la
  conseguente attività di governo concernente la conversione
  industriale delle aziende che producono beni e servizi per usi
  militari non possono e non debbono riguardare, ad avviso del
  firmatario di questa proposta di legge, l'indirizzo e la
  programmazione generale o parziale della trasformazione
  produttiva a fini civili dell'industria bellica.
    Tali questioni vanno affrontate e risolte nelle sedi in cui
  si definisce la politica di sicurezza e si decide
  l'allocazione delle risorse del Paese.  Scopo di questa
  proposta di legge è di definire le procedure e le sedi in cui,
  una volta adottate le necessarie decisioni politiche, sia
  possibile la realizzazione di un programma di conversione
  industriale (ovvero: di favorire le condizioni perché un
  simile programma possa
  aver luogo).  Intraprendere infatti al buio, senza una
  rigorosa programmazione, un processo di conversione, limitata
  o totale, delle aziende che operano nel settore militare
  avrebbe conseguenze destabilizzanti dal punto di vista
  politico, economico, produttivo ed occupazionale: sarebbe
  impresa impossibile.
                           *  *  *
    All'articolo 1 della presente proposta di legge è prevista
  l'istituzione della commissione per la conversione
  industriale, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri,
  al fine di costituire il punto centrale di riferimento
  dell'attività di conversione, sia per l'organizzazione dei
  dati conoscitivi circa la struttura produttiva per fini
  militari, sia per l'elaborazione di piani di conversione.
 
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  L'articolo 2 stabilisce che la commissione predispone un
  programma degli orientamenti per la conversione industriale,
  come guida pratica - a partire da un'analisi macroeconomica
  della realtà produttiva e del mercato - per organizzare il
  riaddestramento degli addetti all'industria bellica, ai
  diversi livelli; la trasformazione degli impianti; la
  soluzione dei nodi normativi e contrattuali.
    Particolare importanza avrà il censimento di tutte le
  aziende, con le loro caratteristiche.  E' noto, infatti, che
  l' handicap  pressoché insormontabile non solo per una
  possibile conversione, ma già per la mera analisi della realtà
  dell'industria bellica è rappresentato oggi dalla
  indisponibilità di dati conoscitivi.
    L'articolo 3 individua i settori verso i quali dovrà
  indirizzarsi l'attività di conversione, e definisce l'ambito
  di collaborazione tra la commissione e i comitati locali per
  gli impieghi alternativi.  Questi ultimi - disciplinati
  dall'articolo 4 - sono responsabili tra l'altro
  dell'elaborazione di piani per la conversione parziale o
  totale delle imprese operanti nella provincia di competenza;
  piani dettagliati "circa l'uso alternativo e la
  ristrutturazione degli impianti e delle tecnologie esistenti
  nonché il riorientamento e la formazione del personale in
  funzione dei reimpieghi proposti", essendo evidente che ogni
  situazione - con le sue peculiarità - esige iniziative
  specifiche.  I comitati rappresentano anche l'osservatorio
  locale per la raccolta, da aggiornarsi semestralmente, dei
  dati relativi al controllo proprietario, al fatturato, al
  personale, alla produzione, all'attività di R/S.
    L'articolo 5 istituisce il Fondo di solidarietà in favore
  dei dipendenti delle imprese interessate da un processo di
  conversione, i quali possono godere di una gamma di interventi
  pubblici di tutela cui sono associati anche i dipendenti che
  "per imprescindibili motivi di coscienza" non intendano
  proseguire nella loro attività di collaborazione con imprese
  operanti nel settore militare.
    Il Fondo per il riassetto economico, in grado di disporre
  mutui agevolati e contributi alle imprese che abbiano
  predisposto un piano di conversione parziale o totale, è
  istituito all'articolo 6; mantenimento dei livelli
  occupazionali ed effettiva attuazione progressiva del piano
  costituiscono i requisiti per determinare l'erogazione.
    La copertura finanziaria del provvedimento è assicurata,
  all'articolo 7, attraverso l'aumento delle tasse sulla
  produzione di armi e tramite il versamento da parte delle
  aziende del comparto militare dell'1 per cento del proprio
  fatturato annuo.  Tali proventi vengono ripartiti
  proporzionalmente tra i vari soggetti istituiti nella proposta
  di legge.
                           *  *  *
    Si è iniziato a discutere del costo diretto della spesa
  militare: le risorse monetarie assegnate alla Difesa e da
  questa girate in parte alle imprese che producono sistemi
  d'arma.
    Gli studi economici sulla conversione sottolineano un altro
  tipo di costo: il costoopportunità dei beni e servizi civili
  che la collettività viene a perdere quando alcune risorse
  vengono destinate alla produzione militare.  Si tratta di un
  principio valido in generale per la valutazione di qualsiasi
  intervento di politica economica, così come delle conseguenze
  che questo comporta in termini di riallocazione delle
  risorse.
    In questo caso però ci interessa a causa delle particolari
  caratteristiche dei beni prodotti.  Scrive in proposito
  l'economista americano Seymour Melman: "Un bombardiere a
  reazione moderno, un caccia supersonico, un sottomarino od un
  missile nucleare, rappresentano eccezionali realizzazioni
  tecnologiche.  Tuttavia essi, qualsiasi sia lo scopo cui
  possono servire, non servono minimamente a contribuire ai
  consumi ordinari, e quindi non incidono sul livello di vita;
  né possono essere utilizzati per ulteriori produzioni.
  Infatti, per quanto complesso possa essere un sottomarino a
  propulsione nucleare, nessuno può farci nulla di utile".
    Secondo un altro studioso americano dell'economia militare,
  Hugh Mosley, sono tre gli usi più comuni del concetto
 
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  di costo-opportunità: un costo-opportunità relativo al
  bilancio pubblico (in termini cioè di allocazione politica di
  risorse governative), uno in termini di risorse economiche
  reali, ed uno per così dire di  performance  (in termini
  di sviluppo economico al quale si deve rinunciare).  Il terzo
  tipo di uso del concetto è chiaramente il più complesso,
  richiedendo un'analisi della spesa militare in rapporto alle
  caratteristiche generali dell'economia di un Paese.  Lo scopo
  sarebbe quello di misurarne l'impatto sulla crescita, sulla
  competitività, sull'occupazione, sull'inflazione, e così
  via.
    La sostanziale inutilità dei beni prodotti dall'industria
  bellica implica, secondo Melman, un ulteriore tipo di costo
  per la collettività: l'incremento della produttività marginale
  del capitale (in sostanza, l'aumento di efficienza
  nell'impiego di questo fattore produttivo) nel settore
  militare viene utilizzato per obiettivi che non possono
  condurre ad una nuova produzione, perciò esso viene perso per
  sempre.  Lo stesso discorso vale per le risorse finanziarie ed
  umane utilizzate nella R/S militare, le quali conducono ad un
  knowhow  applicabile solo nel settore militare medesimo.
  Robert De Grasse, un altro economista americano, nota in
  proposito come la ricerca e la produzione militare distolgano
  ingegneri e scienziati dal settore civile.  Il che appare di
  particolare gravità quando, come ora, scarseggiano le risorse
  nel campo delle tecnologie avanzate.
    Quanto alla questione delle ricadute tecnologiche nel
  settore civile, vale la pena di riportare l'opinione del
  Nobel  per l'economia Wassily Leontief: "Benché alcuni
  ricercatori sostengano che l'economia civile ricavi benefìci
  secondari dall'addestramento militare e dalle infrastrutture,
  nei Paesi meno sviluppati, e dalla ricerca e sviluppo, nei
  Paesi industrializzati, e che tali benefìci compensino gli
  effetti negativi dell'onere militare, si potrebbe anche
  affermare che un programma ben finanziato per l'esplorazione
  dello spazio, oppure la costruzione, o ricostruzione di una
  rete ferroviaria su larga scala - o la costruzione di...
  moderne piramidi - potrebbero servire allo stesso scopo".
    Un altro aspetto sul quale insistono gli studi sulla
  conversione è la gestione inefficiente che caratterizza le
  aziende che producono per la difesa.  In generale esse non
  seguono il criterio della minimizzazione dei costi,
  caratteristico di un'economia di mercato.  Al contrario:
  massimizzano i costi e li compensano poi con l'aumento dei
  prezzi (o dei sussidi).  I  manager  delle aziende belliche
  sanno infatti che una volta aggiudicatisi una commessa del
  Ministero della difesa i prezzi potranno gonfiarsi grazie
  all'invisibile lievito della cosiddetta inflazione militare.
  Tutto ciò li porta ad assuefarsi all'inefficienza.  Il che si
  palesa anche nell'inaffidabilità del prodotto miltare.  Nel
  settore civile si nota, sempre più diffusa, una tendenza
  all'aumento del periodo di garanzia del prodotto, il che
  segnala una crescente affidabilità del prodotto.  La logica
  opposta sembra invece prevalere nel settore militare.  Nota
  Melman che per ogni cento F-15 (il gioiello della tecnologia
  aeronautica americana) in servizio, quarantacinque sono nel
  contempo in manutenzione.  A seguito di questo disinteresse per
  l'affidabilità del prodotto, anche la forza lavoro si abitua a
  produrre in modo inefficiente.
                           *  *  *
    Le condizioni strutturali dell'industria bellica italiana -
  solitamente descritte ed analizzate in modo tortuoso, data
  l'indisponibilità di dati conoscitivi certi - sono tali da
  rendere praticabile un processo di conversione a fini
  civili.
    I vincoli dell'esistente sono infatti consistenti, ma non
  di primaria grandezza: secondo le stime dell'IRDISP (Istituto
  di ricerche per il disarmo, lo sviluppo e la pace),
  l'industria bellica annovera l'1,6 per cento degli occupati,
  il 2,1 per cento della produzione, il 2,3 per cento delle
  esportazioni dell'industria nazionale.  Sono cifre che fanno
  riflettere; soprattutto se le colleghiamo al dibattito che si
  è aperto nei primi sei mesi del 1986 sulle colonne del
 
                               Pag. 4
 
  Bulletin of the Atomic Scientists:  una durissima
  polemica tra gli organizzatori e i teorici delle campagne
  nazionali e locali per la  economic conversion  (Lloyd J.
  Dumas e Suzanne Gordon, Kevin Bean) e il direttore del
  Defence Budget Project  di Washington, Gordon Adams, il
  quale ha puntigliosamente - sebbene tra numerosi errori e
  inesattezze - contestato i risultati di tutti i tentativi di
  conversione messi in pratica nel mondo occidentale nel secondo
  dopoguerra.  Nel citato dibattito emerge comunque in modo
  nitido lo schiacciante squilibrio di forza reale a favore
  degli interessi coalizzati nel complesso militare-industriale
  statunitense rispetto a quelli messi in campo dalle
  organizzazioni pacifiste, da alcune comunità locali e da
  ristretti settori di opinione.
    Il complesso militare-industriale italiano, in forte
  crescita economica e di consapevolezza politica, resta
  tuttavia legato ad un'esperienza recente, caratterizzata dalla
  spregiudicatezza delle operazioni di  export  in
  Medio-Oriente, in aree "calde", verso mercati sporchi.
  Un'esperienza la cui grande forza è rappresentata dalla
  massiccia, senza pari, capacità di distribuire profitti
  ingenti attraverso le intermediazioni.  Come documentato dallo
  stesso governo, negli anni "rampanti" - relativamente ai quali
  disponiamo di cifre ufficiali - i soli compensi di mediazione
  (ovvero tangenti) autorizzati hanno assommato nel triennio
  1981-1983 a 471 miliardi di lire.  Queste cifre mostrano la
  dimensione di quello che è probabilmente il principale
  ostacolo da sormontare per chi voglia mettere in atto un vasto
  programma di conversione.
    La crescente disponibilità di stanziamenti pubblici per
  l'acquisto di mezzi militari e il lento trasferimento
  dell'area di iniziativa dal Terzo mondo alla cooperazione
  inter-occidentale determina ed accompagnerà fenomeni di crisi
  nell'industria italiana degli armamenti, ma saranno crisi
  relativamente "frenate" dalla natura in gran parte pubblica
  delle imprese.  L'esperienza, comunque, dimostra che la
  capacità di programmazione non è caratteristica peculiare del
  settore.
    Ai nostri fini, le nuove tendenze sono tali da non
  prefigurare un nuovo  boom  e da consentire, anzi, le
  condizioni per una politica di conversione settoriale o di più
  ampio respiro.
    E' noto infatti che la congiuntura internazionale ha messo
  in pesante difficoltà la nostra tradizionale politica di
  export,  una politica che aveva garantito l'assorbimento
  di circa il 60 per cento del fatturato (oggi è sceso al 50 per
  cento) e il quarto posto al mondo all'Italia tra gli
  esportatori (oggi è il sesto posto, insidiato da presso dalla
  Cina Popolare).
    In particolare, vi hanno contribuito la crisi economica
  gravissima dei Paesi in via di sviluppo (verso i quali
  complessivamente si è orientato il 90 per cento delle nostre
  esportazioni); la drastica diminuzione delle disponibilità
  finanziarie dei paesi dell'area OPEC, grandi acquirenti di
  armi italiane nell'ultimo decennio; la crescente concorrenza
  sui mercati del Terzo mondo esercitata dai Paesi di nuova
  industrializzazione; la minore agibilità, rispetto alla
  pubblica opinione italiana, di metodologie spregiudicate o
  illegali, determinata dall'esplodere di drammatiche
  contraddizioni di ordine politico e morale (si pensi alle
  forti esportazioni di armi verso il Sudafrica, oppure verso i
  teatri di guerra come quello Iran-Irak) ma anche relative alla
  sicurezza (si pensi alla vicenda libica, ed alla minaccia
  direttamente esercitata sull'Italia dallo stato nordafricano,
  che è il primo beneficiario delle esportazioni di armamenti
  italiani).
    Il tramonto di una fase politica ben sintetizzabile con
  l'operare a Beirut del colonello Giovannone, vero ambasciatore
  e mediatore permanente di molteplici relazioni ed interessi,
  comporta dunque precise conseguenze nell'operatività
  dell' export  italiano di armamenti, sebbene non ne
  estingua le torbide vocazioni e caratteristiche.
    Quanto al rimanente 50 per cento della produzione
  dell'industria italiana degli armamenti, destinato alle nostre
  forze
 
                               Pag. 5
 
  armate, si rinvia all'acuta analisi svolta nel volume
  dell'IRDISP  L'Italia e la corsa al riarmo,  "Un
  contro-Libro bianco della difesa", Roma 1986; né apparirà qui
  illegittima perché troppo semplificatrice la considerazione
  secondo cui spesso in Italia si è determinata una dottrina
  militare sulla base della disponibilità di un certo sistema
  d'arma; di rado si è acquistato un certo sistema d'arma sulla
  base delle dottrine e strategie adeguate a tutelare la
  sicurezza nazionale.
    In definitiva, nel nostro Paese, ci misuriamo con
  un'industria bellica che non rappresenta ancora un settore
  chiave, largamente controllata dalla mano pubblica,
  attraversata da una profonda trasformazione che comporterà
  necessariamente una razionalizzazione di comportamenti e
  strutture, rispetto alla quale è poco matura nella pubblica
  opinione e anche tra gli addetti ai lavori più motivati la
  riflessione circa le possibili alternative civili.
    Da qui la grande importanza dell'adozione da parte del
  Parlamento di uno strumento legislativo che sia in grado di
  consentire di orientare in una direzione nuova, consapevole,
  responsabile l'attività del settore industriale che
  attualmente produce a fini militari.
    La carenza di conoscenze ed analisi sulla praticabilità
  della conversione economica ha molte cause, cui solo la
  nascita di un'attività pubblica di studio e programmazione può
  ovviare.
                           *  *  *
    Assai importante, rispetto alle affermazioni di chi
  magnifica le cosiddette "ricadute" in campo civile degli
  investimenti nel settore militare, è l'osservazione di Carlo
  Rubbia: "date anche a me 26 miliardi di dollari - lo
  stanziamento iniziale per la ricerca sull'Sdi - e vi faccio
  vedere che bella ricaduta scientifica e tecnologica a fini
  civili si può realizzare senza intervenire nel campo
  militare...".
    E' nota, del resto, la peculiare e felicissima evoluzione
  dell'apparato produttivo giapponese in questo dopoguerra,
  favorita, se non proprio determinata, da un ammontare della
  ricerca e sviluppo a fini militari pari a una quota tra l'1 e
  il 2 per cento del totale della R/S.  Osserva in proposito
  l'economista americano Lloyd Dumas: "Il "mondo" militare, è
  caratterizzato dalla vendita a un singolo acquirente (il
  governo), una fortissima pressione per le capacità di massima
  resa dei prodotti ed una attenzione ai costi relativamente
  piccola.  Il "mondo" civile, viceversa, è caratterizzato da
  mercati con molti acquirenti, da un'attenzione ai beni
  prodotti ma non alla capacità di massima resa e da una
  fortissima enfasi sulla minimizzazione dei costi".
    Indiscutibilmente, i recenti sviluppi della produzione di
  armamenti (efficacemente illustrati con l'espressione
  "arsenali barocchi" coniata da Mary Kaldor) dimostrano
  un'esasperazione tale della sofisticazione e quindi delle
  specificità della R/S e produzione militare da rendere assai
  modesta la "ricaduta" civile e tale da farci fare i conti con
  costi sempre più astronomici e con una velocissima
  obsolescenza dei sistemi d'arma più moderni (ed è imminente il
  momento in cui le  Emerging Technologies,  soprattutto
  quelle spaziali, metteranno in crisi le stesse piattaforme
  tradizionali di combattimento: navi, carri, aerei).
    Comunque, potremo rispondere ai nostri critici che di
  fronte ad una scelta politica che intenda riorientarle a fini
  civili, quelle aziende che sono state e si sono magnificate
  per il loro  fallout  civile, sapranno ben dimostrare
  questa loro qualità nel momento in cui la congiuntura
  internazionale o un'iniziativa interna finalmente razionale e
  non subalterna alla logica della corsa al riarmo spingessero
  in direzione di un processo di conversione parziale o anche
  generale.  Ironia a parte, il mondo industriale occidentale ha
  conosciuto - ad esempio nella violenta fase di riconversione
  postbellica - momenti ben più complessi e delicati di quello
  che l'Italia dovrebbe affrontare per ristrutturare un settore
  che occupa 80.000 addetti.
    Un ottimo terreno di sperimentazione ed iniziativa può
  essere rappresentato - a nostro avviso - dalla politica di
  cooperazione
 
                               Pag. 6
 
  allo sviluppo e di lotta alla fame, malnutrizione e
  malattie nel Terzo e Quarto mondo.  E' infatti possibile
  programmare in questo campo - disponendo di investimenti
  pubblici certi che ammontano ad una quota annua equivalente a
  quella riservata all'acquisto di beni e servizi per le forze
  armate - e che sono destinati a crescere - una
  razionalizzazione degli interventi italiani attraverso la
  messa in produzione di impianti a piccola e media scala per le
  fonti rinnovabili di energia, tecnologie agricole e per
  l'irrigazione, strutture per lo stoccaggio, costruzioni, mezzi
  meccanici, unità sanitarie, apparecchiature per le
  comunicazioni, mezzi di soccorso per le calamità.  Vasti
  settori produttivi potranno essere coinvolti, d'intesa con le
  stesse strutture direzionali ed operative delle forze armate
  in un quadro di azione e presenza politica di grande e diretta
  rilevanza per la sicurezza e la politica estera e di pace del
  Paese.
                           *  *  *
    Onorevoli deputati!  Il proponente giudica che solo
  un'attenta e profonda conoscenza della situazione attuale e
  delle possibili alternative consenta di adottare una nuova
  politica per le aziende che operano oggi nel settore militare.
  A questo fine si augura che la presente proposta di legge
  possa avviare un confronto nel Paese e tra le forze politiche,
  economiche e sociali e trovare una concreta rispondenza in
  sede parlamentare, così come ha trovato preventivamente
  l'appoggio di associazioni e movimenti quali le ACLI, il
  Movimento Nonviolento, Mani Tese, numerosi Comitati e
  coordinamenti di obiettori di coscienza, Missione Oggi, Pace e
  Sviluppo, consiglieri ed esponenti "verdi", il Movimento
  Cristiani per la Pace.
    Impegno del proponente sarà quello di far immediatamente
  sottoscrivere la proposta di legge da rappresentanti degli
  altri gruppi parlamentari.
 
DATA=940415 FASCID=DDL12-57 TIPOSTA=DDL LEGISL=12 NCOMM= SEDE=PR NSTA=0057 TOTPAG=0013 TOTDOC=0009 NDOC=0002 TIPDOC=L DOCTIT=0000 COMM= FRL PAGINIZ=0001 RIGINIZ=008 PAGFIN=0006 RIGFIN=035 UPAG=NO PAGEIN=1 PAGEFIN=6 SORTRES= SORTDDL=005700 00 FASCIDC=12DDL0057 SORTNAV=0005700 000 00000 ZZDDLC57 NDOC0002 TIPDOCL DOCTIT0002 NDOC0002



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