| Onorevoli Deputati! -- L'iniziativa legislativa e la
conseguente attività di governo concernente la conversione
industriale delle aziende che producono beni e servizi per usi
militari non possono e non debbono riguardare, ad avviso del
firmatario di questa proposta di legge, l'indirizzo e la
programmazione generale o parziale della trasformazione
produttiva a fini civili dell'industria bellica.
Tali questioni vanno affrontate e risolte nelle sedi in cui
si definisce la politica di sicurezza e si decide
l'allocazione delle risorse del Paese. Scopo di questa
proposta di legge è di definire le procedure e le sedi in cui,
una volta adottate le necessarie decisioni politiche, sia
possibile la realizzazione di un programma di conversione
industriale (ovvero: di favorire le condizioni perché un
simile programma possa
aver luogo). Intraprendere infatti al buio, senza una
rigorosa programmazione, un processo di conversione, limitata
o totale, delle aziende che operano nel settore militare
avrebbe conseguenze destabilizzanti dal punto di vista
politico, economico, produttivo ed occupazionale: sarebbe
impresa impossibile.
* * *
All'articolo 1 della presente proposta di legge è prevista
l'istituzione della commissione per la conversione
industriale, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri,
al fine di costituire il punto centrale di riferimento
dell'attività di conversione, sia per l'organizzazione dei
dati conoscitivi circa la struttura produttiva per fini
militari, sia per l'elaborazione di piani di conversione.
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L'articolo 2 stabilisce che la commissione predispone un
programma degli orientamenti per la conversione industriale,
come guida pratica - a partire da un'analisi macroeconomica
della realtà produttiva e del mercato - per organizzare il
riaddestramento degli addetti all'industria bellica, ai
diversi livelli; la trasformazione degli impianti; la
soluzione dei nodi normativi e contrattuali.
Particolare importanza avrà il censimento di tutte le
aziende, con le loro caratteristiche. E' noto, infatti, che
l' handicap pressoché insormontabile non solo per una
possibile conversione, ma già per la mera analisi della realtà
dell'industria bellica è rappresentato oggi dalla
indisponibilità di dati conoscitivi.
L'articolo 3 individua i settori verso i quali dovrà
indirizzarsi l'attività di conversione, e definisce l'ambito
di collaborazione tra la commissione e i comitati locali per
gli impieghi alternativi. Questi ultimi - disciplinati
dall'articolo 4 - sono responsabili tra l'altro
dell'elaborazione di piani per la conversione parziale o
totale delle imprese operanti nella provincia di competenza;
piani dettagliati "circa l'uso alternativo e la
ristrutturazione degli impianti e delle tecnologie esistenti
nonché il riorientamento e la formazione del personale in
funzione dei reimpieghi proposti", essendo evidente che ogni
situazione - con le sue peculiarità - esige iniziative
specifiche. I comitati rappresentano anche l'osservatorio
locale per la raccolta, da aggiornarsi semestralmente, dei
dati relativi al controllo proprietario, al fatturato, al
personale, alla produzione, all'attività di R/S.
L'articolo 5 istituisce il Fondo di solidarietà in favore
dei dipendenti delle imprese interessate da un processo di
conversione, i quali possono godere di una gamma di interventi
pubblici di tutela cui sono associati anche i dipendenti che
"per imprescindibili motivi di coscienza" non intendano
proseguire nella loro attività di collaborazione con imprese
operanti nel settore militare.
Il Fondo per il riassetto economico, in grado di disporre
mutui agevolati e contributi alle imprese che abbiano
predisposto un piano di conversione parziale o totale, è
istituito all'articolo 6; mantenimento dei livelli
occupazionali ed effettiva attuazione progressiva del piano
costituiscono i requisiti per determinare l'erogazione.
La copertura finanziaria del provvedimento è assicurata,
all'articolo 7, attraverso l'aumento delle tasse sulla
produzione di armi e tramite il versamento da parte delle
aziende del comparto militare dell'1 per cento del proprio
fatturato annuo. Tali proventi vengono ripartiti
proporzionalmente tra i vari soggetti istituiti nella proposta
di legge.
* * *
Si è iniziato a discutere del costo diretto della spesa
militare: le risorse monetarie assegnate alla Difesa e da
questa girate in parte alle imprese che producono sistemi
d'arma.
Gli studi economici sulla conversione sottolineano un altro
tipo di costo: il costoopportunità dei beni e servizi civili
che la collettività viene a perdere quando alcune risorse
vengono destinate alla produzione militare. Si tratta di un
principio valido in generale per la valutazione di qualsiasi
intervento di politica economica, così come delle conseguenze
che questo comporta in termini di riallocazione delle
risorse.
In questo caso però ci interessa a causa delle particolari
caratteristiche dei beni prodotti. Scrive in proposito
l'economista americano Seymour Melman: "Un bombardiere a
reazione moderno, un caccia supersonico, un sottomarino od un
missile nucleare, rappresentano eccezionali realizzazioni
tecnologiche. Tuttavia essi, qualsiasi sia lo scopo cui
possono servire, non servono minimamente a contribuire ai
consumi ordinari, e quindi non incidono sul livello di vita;
né possono essere utilizzati per ulteriori produzioni.
Infatti, per quanto complesso possa essere un sottomarino a
propulsione nucleare, nessuno può farci nulla di utile".
Secondo un altro studioso americano dell'economia militare,
Hugh Mosley, sono tre gli usi più comuni del concetto
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di costo-opportunità: un costo-opportunità relativo al
bilancio pubblico (in termini cioè di allocazione politica di
risorse governative), uno in termini di risorse economiche
reali, ed uno per così dire di performance (in termini
di sviluppo economico al quale si deve rinunciare). Il terzo
tipo di uso del concetto è chiaramente il più complesso,
richiedendo un'analisi della spesa militare in rapporto alle
caratteristiche generali dell'economia di un Paese. Lo scopo
sarebbe quello di misurarne l'impatto sulla crescita, sulla
competitività, sull'occupazione, sull'inflazione, e così
via.
La sostanziale inutilità dei beni prodotti dall'industria
bellica implica, secondo Melman, un ulteriore tipo di costo
per la collettività: l'incremento della produttività marginale
del capitale (in sostanza, l'aumento di efficienza
nell'impiego di questo fattore produttivo) nel settore
militare viene utilizzato per obiettivi che non possono
condurre ad una nuova produzione, perciò esso viene perso per
sempre. Lo stesso discorso vale per le risorse finanziarie ed
umane utilizzate nella R/S militare, le quali conducono ad un
knowhow applicabile solo nel settore militare medesimo.
Robert De Grasse, un altro economista americano, nota in
proposito come la ricerca e la produzione militare distolgano
ingegneri e scienziati dal settore civile. Il che appare di
particolare gravità quando, come ora, scarseggiano le risorse
nel campo delle tecnologie avanzate.
Quanto alla questione delle ricadute tecnologiche nel
settore civile, vale la pena di riportare l'opinione del
Nobel per l'economia Wassily Leontief: "Benché alcuni
ricercatori sostengano che l'economia civile ricavi benefìci
secondari dall'addestramento militare e dalle infrastrutture,
nei Paesi meno sviluppati, e dalla ricerca e sviluppo, nei
Paesi industrializzati, e che tali benefìci compensino gli
effetti negativi dell'onere militare, si potrebbe anche
affermare che un programma ben finanziato per l'esplorazione
dello spazio, oppure la costruzione, o ricostruzione di una
rete ferroviaria su larga scala - o la costruzione di...
moderne piramidi - potrebbero servire allo stesso scopo".
Un altro aspetto sul quale insistono gli studi sulla
conversione è la gestione inefficiente che caratterizza le
aziende che producono per la difesa. In generale esse non
seguono il criterio della minimizzazione dei costi,
caratteristico di un'economia di mercato. Al contrario:
massimizzano i costi e li compensano poi con l'aumento dei
prezzi (o dei sussidi). I manager delle aziende belliche
sanno infatti che una volta aggiudicatisi una commessa del
Ministero della difesa i prezzi potranno gonfiarsi grazie
all'invisibile lievito della cosiddetta inflazione militare.
Tutto ciò li porta ad assuefarsi all'inefficienza. Il che si
palesa anche nell'inaffidabilità del prodotto miltare. Nel
settore civile si nota, sempre più diffusa, una tendenza
all'aumento del periodo di garanzia del prodotto, il che
segnala una crescente affidabilità del prodotto. La logica
opposta sembra invece prevalere nel settore militare. Nota
Melman che per ogni cento F-15 (il gioiello della tecnologia
aeronautica americana) in servizio, quarantacinque sono nel
contempo in manutenzione. A seguito di questo disinteresse per
l'affidabilità del prodotto, anche la forza lavoro si abitua a
produrre in modo inefficiente.
* * *
Le condizioni strutturali dell'industria bellica italiana -
solitamente descritte ed analizzate in modo tortuoso, data
l'indisponibilità di dati conoscitivi certi - sono tali da
rendere praticabile un processo di conversione a fini
civili.
I vincoli dell'esistente sono infatti consistenti, ma non
di primaria grandezza: secondo le stime dell'IRDISP (Istituto
di ricerche per il disarmo, lo sviluppo e la pace),
l'industria bellica annovera l'1,6 per cento degli occupati,
il 2,1 per cento della produzione, il 2,3 per cento delle
esportazioni dell'industria nazionale. Sono cifre che fanno
riflettere; soprattutto se le colleghiamo al dibattito che si
è aperto nei primi sei mesi del 1986 sulle colonne del
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Bulletin of the Atomic Scientists: una durissima
polemica tra gli organizzatori e i teorici delle campagne
nazionali e locali per la economic conversion (Lloyd J.
Dumas e Suzanne Gordon, Kevin Bean) e il direttore del
Defence Budget Project di Washington, Gordon Adams, il
quale ha puntigliosamente - sebbene tra numerosi errori e
inesattezze - contestato i risultati di tutti i tentativi di
conversione messi in pratica nel mondo occidentale nel secondo
dopoguerra. Nel citato dibattito emerge comunque in modo
nitido lo schiacciante squilibrio di forza reale a favore
degli interessi coalizzati nel complesso militare-industriale
statunitense rispetto a quelli messi in campo dalle
organizzazioni pacifiste, da alcune comunità locali e da
ristretti settori di opinione.
Il complesso militare-industriale italiano, in forte
crescita economica e di consapevolezza politica, resta
tuttavia legato ad un'esperienza recente, caratterizzata dalla
spregiudicatezza delle operazioni di export in
Medio-Oriente, in aree "calde", verso mercati sporchi.
Un'esperienza la cui grande forza è rappresentata dalla
massiccia, senza pari, capacità di distribuire profitti
ingenti attraverso le intermediazioni. Come documentato dallo
stesso governo, negli anni "rampanti" - relativamente ai quali
disponiamo di cifre ufficiali - i soli compensi di mediazione
(ovvero tangenti) autorizzati hanno assommato nel triennio
1981-1983 a 471 miliardi di lire. Queste cifre mostrano la
dimensione di quello che è probabilmente il principale
ostacolo da sormontare per chi voglia mettere in atto un vasto
programma di conversione.
La crescente disponibilità di stanziamenti pubblici per
l'acquisto di mezzi militari e il lento trasferimento
dell'area di iniziativa dal Terzo mondo alla cooperazione
inter-occidentale determina ed accompagnerà fenomeni di crisi
nell'industria italiana degli armamenti, ma saranno crisi
relativamente "frenate" dalla natura in gran parte pubblica
delle imprese. L'esperienza, comunque, dimostra che la
capacità di programmazione non è caratteristica peculiare del
settore.
Ai nostri fini, le nuove tendenze sono tali da non
prefigurare un nuovo boom e da consentire, anzi, le
condizioni per una politica di conversione settoriale o di più
ampio respiro.
E' noto infatti che la congiuntura internazionale ha messo
in pesante difficoltà la nostra tradizionale politica di
export, una politica che aveva garantito l'assorbimento
di circa il 60 per cento del fatturato (oggi è sceso al 50 per
cento) e il quarto posto al mondo all'Italia tra gli
esportatori (oggi è il sesto posto, insidiato da presso dalla
Cina Popolare).
In particolare, vi hanno contribuito la crisi economica
gravissima dei Paesi in via di sviluppo (verso i quali
complessivamente si è orientato il 90 per cento delle nostre
esportazioni); la drastica diminuzione delle disponibilità
finanziarie dei paesi dell'area OPEC, grandi acquirenti di
armi italiane nell'ultimo decennio; la crescente concorrenza
sui mercati del Terzo mondo esercitata dai Paesi di nuova
industrializzazione; la minore agibilità, rispetto alla
pubblica opinione italiana, di metodologie spregiudicate o
illegali, determinata dall'esplodere di drammatiche
contraddizioni di ordine politico e morale (si pensi alle
forti esportazioni di armi verso il Sudafrica, oppure verso i
teatri di guerra come quello Iran-Irak) ma anche relative alla
sicurezza (si pensi alla vicenda libica, ed alla minaccia
direttamente esercitata sull'Italia dallo stato nordafricano,
che è il primo beneficiario delle esportazioni di armamenti
italiani).
Il tramonto di una fase politica ben sintetizzabile con
l'operare a Beirut del colonello Giovannone, vero ambasciatore
e mediatore permanente di molteplici relazioni ed interessi,
comporta dunque precise conseguenze nell'operatività
dell' export italiano di armamenti, sebbene non ne
estingua le torbide vocazioni e caratteristiche.
Quanto al rimanente 50 per cento della produzione
dell'industria italiana degli armamenti, destinato alle nostre
forze
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armate, si rinvia all'acuta analisi svolta nel volume
dell'IRDISP L'Italia e la corsa al riarmo, "Un
contro-Libro bianco della difesa", Roma 1986; né apparirà qui
illegittima perché troppo semplificatrice la considerazione
secondo cui spesso in Italia si è determinata una dottrina
militare sulla base della disponibilità di un certo sistema
d'arma; di rado si è acquistato un certo sistema d'arma sulla
base delle dottrine e strategie adeguate a tutelare la
sicurezza nazionale.
In definitiva, nel nostro Paese, ci misuriamo con
un'industria bellica che non rappresenta ancora un settore
chiave, largamente controllata dalla mano pubblica,
attraversata da una profonda trasformazione che comporterà
necessariamente una razionalizzazione di comportamenti e
strutture, rispetto alla quale è poco matura nella pubblica
opinione e anche tra gli addetti ai lavori più motivati la
riflessione circa le possibili alternative civili.
Da qui la grande importanza dell'adozione da parte del
Parlamento di uno strumento legislativo che sia in grado di
consentire di orientare in una direzione nuova, consapevole,
responsabile l'attività del settore industriale che
attualmente produce a fini militari.
La carenza di conoscenze ed analisi sulla praticabilità
della conversione economica ha molte cause, cui solo la
nascita di un'attività pubblica di studio e programmazione può
ovviare.
* * *
Assai importante, rispetto alle affermazioni di chi
magnifica le cosiddette "ricadute" in campo civile degli
investimenti nel settore militare, è l'osservazione di Carlo
Rubbia: "date anche a me 26 miliardi di dollari - lo
stanziamento iniziale per la ricerca sull'Sdi - e vi faccio
vedere che bella ricaduta scientifica e tecnologica a fini
civili si può realizzare senza intervenire nel campo
militare...".
E' nota, del resto, la peculiare e felicissima evoluzione
dell'apparato produttivo giapponese in questo dopoguerra,
favorita, se non proprio determinata, da un ammontare della
ricerca e sviluppo a fini militari pari a una quota tra l'1 e
il 2 per cento del totale della R/S. Osserva in proposito
l'economista americano Lloyd Dumas: "Il "mondo" militare, è
caratterizzato dalla vendita a un singolo acquirente (il
governo), una fortissima pressione per le capacità di massima
resa dei prodotti ed una attenzione ai costi relativamente
piccola. Il "mondo" civile, viceversa, è caratterizzato da
mercati con molti acquirenti, da un'attenzione ai beni
prodotti ma non alla capacità di massima resa e da una
fortissima enfasi sulla minimizzazione dei costi".
Indiscutibilmente, i recenti sviluppi della produzione di
armamenti (efficacemente illustrati con l'espressione
"arsenali barocchi" coniata da Mary Kaldor) dimostrano
un'esasperazione tale della sofisticazione e quindi delle
specificità della R/S e produzione militare da rendere assai
modesta la "ricaduta" civile e tale da farci fare i conti con
costi sempre più astronomici e con una velocissima
obsolescenza dei sistemi d'arma più moderni (ed è imminente il
momento in cui le Emerging Technologies, soprattutto
quelle spaziali, metteranno in crisi le stesse piattaforme
tradizionali di combattimento: navi, carri, aerei).
Comunque, potremo rispondere ai nostri critici che di
fronte ad una scelta politica che intenda riorientarle a fini
civili, quelle aziende che sono state e si sono magnificate
per il loro fallout civile, sapranno ben dimostrare
questa loro qualità nel momento in cui la congiuntura
internazionale o un'iniziativa interna finalmente razionale e
non subalterna alla logica della corsa al riarmo spingessero
in direzione di un processo di conversione parziale o anche
generale. Ironia a parte, il mondo industriale occidentale ha
conosciuto - ad esempio nella violenta fase di riconversione
postbellica - momenti ben più complessi e delicati di quello
che l'Italia dovrebbe affrontare per ristrutturare un settore
che occupa 80.000 addetti.
Un ottimo terreno di sperimentazione ed iniziativa può
essere rappresentato - a nostro avviso - dalla politica di
cooperazione
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allo sviluppo e di lotta alla fame, malnutrizione e
malattie nel Terzo e Quarto mondo. E' infatti possibile
programmare in questo campo - disponendo di investimenti
pubblici certi che ammontano ad una quota annua equivalente a
quella riservata all'acquisto di beni e servizi per le forze
armate - e che sono destinati a crescere - una
razionalizzazione degli interventi italiani attraverso la
messa in produzione di impianti a piccola e media scala per le
fonti rinnovabili di energia, tecnologie agricole e per
l'irrigazione, strutture per lo stoccaggio, costruzioni, mezzi
meccanici, unità sanitarie, apparecchiature per le
comunicazioni, mezzi di soccorso per le calamità. Vasti
settori produttivi potranno essere coinvolti, d'intesa con le
stesse strutture direzionali ed operative delle forze armate
in un quadro di azione e presenza politica di grande e diretta
rilevanza per la sicurezza e la politica estera e di pace del
Paese.
* * *
Onorevoli deputati! Il proponente giudica che solo
un'attenta e profonda conoscenza della situazione attuale e
delle possibili alternative consenta di adottare una nuova
politica per le aziende che operano oggi nel settore militare.
A questo fine si augura che la presente proposta di legge
possa avviare un confronto nel Paese e tra le forze politiche,
economiche e sociali e trovare una concreta rispondenza in
sede parlamentare, così come ha trovato preventivamente
l'appoggio di associazioni e movimenti quali le ACLI, il
Movimento Nonviolento, Mani Tese, numerosi Comitati e
coordinamenti di obiettori di coscienza, Missione Oggi, Pace e
Sviluppo, consiglieri ed esponenti "verdi", il Movimento
Cristiani per la Pace.
Impegno del proponente sarà quello di far immediatamente
sottoscrivere la proposta di legge da rappresentanti degli
altri gruppi parlamentari.
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