| Onorevoli Colleghi! -- L'Italia, nel solo 1992, ha
stanziato oltre 26.000 miliardi di lire per le spese del
Ministero della difesa.
Sebbene pressati da problemi quali l'enorme deficit
pubblico, il progressivo deterioramento di servizi pubblici
essenziali nei campi della assistenza, della sanità e
dell'istruzione, i governanti del nostro Paese perseguono con
ostinazione l'obiettivo di un "nuovo modello di difesa", in
cui si prevede di investire non solo gli "ordinari" 26.000
miliardi, ma anche ben 40.000 miliardi "straordinari".
Chi vuole questa allocazione delle risorse, tanto
indispensabili al Paese, fa leva sulle peggiori paure dei
cittadini: tramuta in pericolo militare gli emigranti che
chiedono di poter sopravvivere sfuggendo alla miseria del sud
del pianeta, trasforma
forme di integralismo religioso in gravi problemi di
sicurezza, intende rispondere con nuove portaerei o centinaia
di carri armati non già ad un'ipotetica minaccia da parte
dell'ormai disciolto Patto di Varsavia, ma ai profughi
albanesi o a piccoli gruppi terroristici dotati di armi
leggere ed esplosivi.
A cosa serviranno armi come il nuovo caccia EFA, elicotteri
come l'EH 101 o l'NH 90, il carro armato Ariete o i
lanciarazzi Firos, quali minacce militari dovranno
affrontare?
Il nuovo modello di difesa lo scrive assai chiaramente
quando, dopo aver ammesso la scomparsa della minaccia militare
tradizionale, quella delle divisioni corazzate del Patto di
Varsavia, delinea scenari in cui, vista l'impossibilità di
configurare la minaccia in termini tradizionali, si
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afferma una insicurezza diffusa, tanto da passare dalla
domanda "da chi difendersi" a quelle di "cosa" difendere e
"come" farlo.
Le risposte che vengono date sono preoccupanti: si indica
l'esigenza della difesa degli interessi nazionali dovunque
essi siano, e quindi si richiede la predisposizione di
strumenti militari con capacità di proiezione offensiva,
utilizzati da reparti (per la precisione cinque brigate) a
componente all volunteers.
Scelte di questo genere, se verranno confermate e si
tramuteranno in dispositivi legislativi, sia a livello di
leggi speciali di finanziamento che di rimpinguamento del
bilancio ordinario della difesa, non possono non destare forti
preoccupazioni.
Per quel che riguarda la allocazione delle risorse
finanziarie destinate alla difesa, difesa che, come ha anche
sottolineato la Corte costituzionale nelle sue sentenze, non è
comprimibile nella sola difesa armata demandata
istituzionalmente alle Forze armate, ormai da molti anni nel
nostro Paese si è avviato un dibattito con l'indicazione di
strade alternative a quelle tradizionali.
La più conosciuta è certamente quella dell'obiezione di
coscienza al servizio militare, che nel solo 1991 ha
interessato oltre 20.000 giovani, e che grazie ad una legge
approvata nel 1972 ha permesso di rispondere all'obbligo di
difesa della nazione con un servizio civile alternativo a
quello militare.
Da varie legislature si tenta di riformare la legge che
regola l'obiezione di coscienza, in modo da rendere a tutti
gli effetti tale scelta un diritto soggettivo del cittadino,
oltre che rendere il servizio civile più efficiente e meglio
controllato da parte di un apposito dipartimento del servizio
civile.
Conosciamo tutti gli ostruzionismi a cui è stata soggetta
la riforma della legge sull'obiezione di coscienza, tanto da
essere bloccata.
A fianco dell'obiezione di coscienza al servizio militare,
riconosciuta da una legge, per quanto imperfetta, dello Stato,
vi è un'altra forma di obiezione alla difesa armata e
violenta.
Si tratta dell'obiezione di coscienza alle spese militari,
che consiste nel detrarre, in sede di dichiarazione dei
redditi, dall'imposta dovuta allo Stato (debitamente calcolata
dall'obiettore) l'equivalente della percentuale che, nel
bilancio complessivo dello Stato, viene destinata al bilancio
del Ministero della difesa per il finanziamento alle spese per
armamenti, devolvendo una somma di pari importo a scopi di
pace.
Questa forma di protesta, che affonda le sue radici nel
secolo scorso, e che è divenuta anche oggetto di campagne
nazionali di resistenza alla politica di governo (la più
celebre è quella promossa da Gandhi all'inizio degli anni
trenta), ha iniziato a diffondersi in Europa in maniera
consistente per opera dei movimenti pacifisti, come reazione
al dispiegamento degli euromissili da parte delle due
superpotenze.
Nel 1991, con la guerra del Golfo, ha avuto un'ulteriore
espansione, tanto che solo in quell'anno sono stati oltre
10.000 i cittadini che hanno praticato questa forma di
disobbedienza civile.
Con la presente proposta di legge si vuole istituire il
meccanismo dell'opzione fiscale, richiesto dagli obiettori
alle spese militari, consentendo cioè di effettuare una scelta
sulla destinazione della quota dovuta ai fini IRPEF, pari
all'incidenza percentuale delle spese militari sul totale
degli stanziamenti di competenza del bilancio di previsione
dello Stato. Il contribuente può dunque scegliere se
indirizzare la propria quota alle spese per armamenti, oppure
alla difesa civile non violenta, cioè un modello di difesa
basato sull'apporto di tutti i cittadini ad una difesa
realizzata con metodi non violenti, anche nel caso di
aggressioni armate.
Non si deve inoltre dimenticare che il termine "difesa
civile non violenta" era contenuto nella legge di riforma
dell'obiezione di coscienza al servizio militare, approvata
dal Parlamento ma non promulgata dal Capo dello Stato.
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Onorevoli colleghi, dobbiamo dare strumenti efficaci al
nostro Paese perché si possa costruire una reale politica di
disarmo, di pace e di cooperazione.
Con questa proposta di legge vogliamo contribuire a tale
fine, ripresentando un analogo progetto, già presentato nella
X legislatura dall'onorevole Guerzoni e che aveva raccolto i
consensi di numerosi deputati.
L'articolo 1 descrive i criteri per l'esercizio
dell'opzione fiscale da parte del contribuente.
All'articolo 2 si delega il Ministro delle finanze a
stabilire con proprio decreto le modalità per la
predisposizione di moduli per la dichiarazione dei redditi
idonei all'esercizio dell'opzione.
All'articolo 3 viene disposta l'istituzione, presso la
Presidenza del Consiglio dei ministri, di un apposito
Dipartimento per la difesa civile non violenta, con
funzioni di ricerca, organizzazione e coordinamento. Al
Dipartimento ciascuna regione presenta piani per
l'organizzazione della difesa civile non violenta a livello
territoriale dotati di idonee mappe territoriali.
All'articolo 4 il Governo viene delegato a emanare un
decreto legislativo al fine di fissare le modalità di
svolgimento dell'attività del Dipartimento, i criteri di
presentazione dei piani regionali e della relativa
approvazione.
L'articolo 5 stabilisce i criteri di finanziamento
dell'attività svolta dal Dipartimento per la difesa civile non
violenta, nonché la ripartizione degli stanziamenti, iscritti
in un apposito capitolo della Presidenza del Consiglio dei
ministri, tra il Dipartimento (per lo svolgimento delle
funzioni assegnategli dalla presente proposta di legge) e le
regioni (per il finanziamento dei rispettivi piani
territoriali).
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