| Onorevoli Colleghi! -- L'amministrazione statunitense fin
dal 1992 ha deciso una riduzione del bilancio della difesa,
stabilendo una diminuzione dei fondi iniziale del 7 per
cento.
E' solo il primo passo di un declino generalizzato delle
spese militari della massima potenza militare dell'Occidente,
declino che avrà ulteriori seguiti sino al 1997.
La tendenza in atto avrà immediate ripercussioni
sull'industria statunitense produttrice di armamenti, con la
chiusura di intere linee di produzione ed il conseguente
licenziamento di migliaia di lavoratori.
Inoltre molti dei programmi, in stadio avanzato di
realizzazione, verranno trasformati in veri e propri "esercizi
di ricerca tecnologica e fattibilità": si arriverà sino allo
stadio prototipico, ma non si
passerà alla produzione di serie. Con questa impostazione si
manterrà il know how e la supremazia tecnologica,
ovviamente a discapito delle "tute blu".
Dall'esempio statunitense emerge chiaramente la stretta
relazione tra stanziamenti per la difesa armata e situazione
occupazionale e tecnologica dell'industria produttrice di
armamenti.
C'è chi obietta che tale situazione non è comparabile con
quella italiana: gli USA nel passato decennio hanno investito
ingentissime risorse in armamenti, procedendo ad un completo
rinnovamento dei sistemi d'arma in dotazione alle forze armate
statunitensi, mentre i vertici militari italiani lamentano una
obsolescenza accentuata dei mezzi in dotazione, giungendo a
chiedere, nel documento sul nuovo modello di difesa,
investimenti straordinari per 40.000 miliardi di lire nel
prossimo decennio.
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L'industria produttrice di armamenti italiana sta
attraversando un periodo di profonda crisi e di tentativi di
ristrutturazione.
Il venir meno dei mercati del terzo mondo, tradizionale
sbocco dell' export dell'industria bellica italiana, la
più che dimostrata incapacità di sfondare sui mercati
occidentali e di reggere la concorrenza dei grandi gruppi
europei e statunitensi sono fatti che sono sotto gli occhi di
tutti e che risultano dalle analisi delle industrie del
settore.
Le risposte date dalle aziende sono state contraddittorie,
ma comunque sostenute da consistenti parti del mondo politico
italiano.
Si è tentata da un lato la strada degli accorpamenti e
delle sinergie tra aziende (a questo proposito è emblematico
il caso della creazione della Alenia, nata dall'unione tra
Selenia ed Aeritalia), che hanno portato come conseguenza
immediata una grave crisi occupazionale nelle aziende
interessate, con la riduzione di migliaia di posti di
lavoro.
Altre aziende hanno scelto invece la via basata sul
considerare i soggetti in esse occupati come variabile
dipendente dalle esigenze produttive dell'azienda, che
pervicacemente insiste in produzioni a carattere
preminentemente militare.
A tal fine è emblematico il caso dell'Aermacchi, che dal
settembre 1990 alla primavera del 1992 si è "liberata" di
oltre 600 dipendenti, a fronte di una situazione occupazionale
che al 31 dicembre 1990, registrava 2.704 occupati.
La riduzione occupazionale dell'Aermacchi si accompagna
alle seguenti scelte strategiche aziendali:
la scelta di investire in progetti civili (Dornier
328) che assicurino anche alleanze per produzioni nel
settore militare. Le timide conversioni al civile sono quindi
non alternative, ma funzionali alla continuazione della
produzione militare;
la ricerca e sviluppo rimane incentrata sul militare,
mentre si trascurano investimenti in ricerche nel settore
civile che potrebbero aprire nuovi interessanti mercati
(velivolo propulso ad idrogeno chimico, settore spazio).
Il tutto in un quadro che vede la produzione militare
languire, tanto che:
la vendita di caccia AM-X va male, e l'ipotesi di
esportazione verso la Thailandia non decolla. Inoltre i lotti
destinati all'Aviazione militare italiana sono diminuiti,
anche se risulta che siano state fornite all'azienda
assicurazioni circa il benestare ad un aumento del costo
unitario, e quindi dei margini di profitto, degli aerei che
verranno comunque prodotti;
Aermacchi è inoltre impegnata nella corsa per
aggiudicarsi il contratto per il nuovo trainer destinato
alle forze armate statunitensi, che da parte loro hanno già
dichiarato la riduzione del numero di velivoli richiesti e che
chiederanno comunque consistenti contropartite, economiche e
politiche, nel caso che la scelta cada su un velivolo non
statunitense.
Il caso Aermacchi, rapidamente sopra esposto, dimostra
come, in una situazione caratterizzata da una riduzione della
tensione e dall'estinzione dei blocchi politicomilitari che
hanno caratterizzato il dopoguerra, l'industria bellica
continui a puntare su produzioni a carattere militare a patto
che:
vengano garantiti sostegni dal mondo politico ed
istituzionale che diano segnali chiari, in termini di
investimenti e risorse economiche, dell'interesse pubblico
alla continuazione di produzioni militari;
si possa agire sulla variabile occupazionale per
raddrizzare la difficile situazione economica a livello
aziendale;
si continui ad avere risorse per investire nel settore
consolidato del militare, evitando quindi di lanciarsi in
ricerche e produzioni a carattere civile che in tempi medi
potrebbero risultare concorrenziali rispetto al militare,
giungendo sino a rendere inevitabile una diversa allocazione
delle risorse interne aziendali.
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Da quanto detto finora risulta evidente che la conversione
dell'industria produttrice di armamenti è un problema
soprattutto di carattere politico.
E' lo Stato, che fornisce le risorse economiche per la
ricerca e sviluppo, che decide quale importanza dare, sia in
termini politici che economici, alla difesa militare, che
risulta essere il principale acquirente della "merce" armi,
che può dare alcuni importanti segnali della sua volontà di
elaborare una strategia che miri a mettere a fuoco soluzioni
alternative di utilizzazione delle risorse destinate agli
armamenti e a far in modo che queste soluzioni vengano
correttamente applicate.
Il "disarmo strutturale", implicito in una prospettiva di
conversione dell'industria bellica, contiene aspetti e
problematiche che mettono in discussione la sicurezza
nazionale e internazionale. Ne consegue che la conversione non
può venire considerata indipendentemente dall'insieme delle
relazioni internazionali.
Anche tali assunti confermano l'importanza della volontà
politica dello Stato e del suo desiderio di assumere misure
concrete di riduzione degli armamenti e di disarmo, idonee a
consolidare la sicurezza internazionale.
Ciò nonostante riconoscere l'aspetto politico della
conversione non deve condurre a trascurare gli aspetti
economici, tecnologici, occupazionali. Piani concreti ed
esperienze reali di conversione favoriranno la
credibilità della "corsa al disarmo", ridurranno le tensioni
internazionali, convinceranno le opinioni pubbliche ed i
nostri potenziali avversari o controparti della possibilità
reale di ridurre gli armamenti.
Sono appunto gli aspetti economici, tecnologici ed
occupazionali che vengono affrontati dalla presente proposta
di legge.
All'articolo 1 si individua la necessità della
predisposizione di un piano decennale di conversione,
individuando i settori produttivi su cui intervenire e gli
interventi di riqualificazione del personale.
L'articolo 2 istituisce un'apposita Commissione per la
conversione, con il compito di entrare nel dettaglio del piano
decennale, sia a livello di azienda che di periodo temporale,
oltre a realizzare un osservatorio permanente dell'attività
produttiva impegnata nella costruzione di materiali di
armamento.
L'articolo 3 stabilisce le risorse finanziarie necessarie
per la conversione, mentre l'articolo 4 specifica le misure
protettive a favore degli occupati nel settore, sia nel caso
che compiano scelte di "obiezione alla produzione militare"
sia nel caso in cui si rendano necessarie misure di cassa
integrazione a protezione del salario.
L'articolo 6, infine, stabilisce i tempi e i modi per la
presentazione al Parlamento di un rapporto inerente alle
risorse impiegate per la difesa ed alle possibilità di
passaggio ad un modello di difesa sempre meno aggressivo ed
armato.
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