| MARIO ALBERTO TABORELLI. Signor Presidente, onorevoli
colleghi, signor rappresentante del Governo, il provvedimento
che stiamo esaminando è di grande rilievo sul piano dei
principi e noi speriamo possa diventarlo anche su quello
dell'applicazione concreta.
Sappiamo che la cultura del diritto nel mondo moderno, nei
paesi di alta civiltà giuridica, concepisce la carcerazione
innanzitutto come strumento di recupero e di rieducazione del
reo. La funzione rieducativa della pena sul piano dei principi
è considerata prioritaria, prevalente su quella remunerativa
come intesa in passato. Il carcere non è più - o almeno non
dovrebbe più essere - uno strumento per liberare la società da
elementi di disturbo, segregandoli, ma un mezzo per
riconsegnare alla società, dopo la giusta espiazione delle
proprie pene, cittadini capaci di vivere onestamente. Questi
principi sono puntualmente recepiti dall'articolo 27 della
nostra Costituzione, ma trovano corrispondenza
nell'effettività della nostra situazione carceraria? Credo che
la risposta sia purtroppo scontata e che chiunque abbia
visitato un carcere italiano, tranne poche e fortunate
eccezioni, conosca benissimo la risposta. Credo inoltre che
basti anche un'occhiata superficiale alle notizie che ci
vengono dai giornali o dall'informazione radiotelevisiva per
non avere dubbi. Le recenti, gravissime notizie che ci
giungono dal carcere di Sassari e da altre carceri, non solo
in Sardegna, sono l'emblema di un fallimento. Ne sono vittima
tutte le parti in causa, in primo luogo i detenuti, costretti
a subire un trattamento umiliante quando non violento e gli
agenti della polizia penitenziaria, i quali percepiscono una
retribuzione irrisoria e sono costretti a fare del loro meglio
in condizioni difficilissime per gestire situazioni
pericolose. Ne è vittima, soprattutto, il concetto stesso
della carcerazione rieducativa, com'è intesa dal nostro
ordinamento.
Il danno sociale che ne deriva è enorme. Per avere la
misura dello sfascio, proviamo a riflettere su un paio di dati
clamorosi. La popolazione carceraria italiana, nel 1990, era
di circa 29 mila detenuti, mentre nel 1998 è diventata di 47
mila detenuti; insomma, essa è quasi raddoppiata, mentre - lo
sottolineo solo per inciso -, come sappiamo, l'edilizia
carceraria non ha certo tenuto il passo di tale crescita.
Credo di poter dire, anzi, che la capienza delle nostre
carceri è rimasta pressoché immutata.
Sarà anche per effetto di ciò, ossia per la mancanza di
spazio fisico, che le condizioni di vita nelle carceri sono
straordinariamente peggiorate. Il risultato è comunque
chiarissimo: dal 1990 ad oggi la percentuale di detenuti
impiegati in attività lavorative è scesa dal 43 per cento al
20 per cento. E' questo il bilancio di una grave sconfitta per
lo Stato, per la nostra civiltà giuridica, per il futuro
stesso della sicurezza sociale del nostro paese.
Una delle principali ragioni, in effetti, per la quale la
carcerazione in Italia non ha alcuna funzione rieducativa
reale e, anzi, è piuttosto, molto spesso, un elemento di
ulteriore corruzione del reo, rischiando di trasformare in
delinquente abituale chi, soprattutto tra i più giovani, abbia
commesso un errore che lo abbia condotto in carcere, è proprio
l'ozio forzato che, oltre alla promiscuità, è la ragione
principale di degrado della vita in carcere.
Garantire ai detenuti la possibilità di svolgere un lavoro
durante la detenzione non è soltanto un modo per far avere
loro qualche risorsa economica, spesso comunque utilissima
soprattutto per i non abbienti, che rappresentano senz'altro
la
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maggioranza della popolazione carceraria; il lavoro in
carcere ha altre due funzioni fondamentali: quella di tipo
formativo, nel senso di creare o mantenere una professionalità
utile in vista del reinserimento nella vita al di fuori del
carcere e per non tornare a delinquere, e quella più generale
di dare una dignità e un senso all'espiazione della pena, che
non sia esclusivamente di avvilimento della dignità umana, che
appartiene anche ai detenuti.
Lo svolgimento di una professione in luogo dell'ozio
forzato può essere esso stesso una ragione di recupero di un
rapporto corretto con la vita sociale, restituendo al detenuto
una soggettività, strappandolo alla condizione di numero
gettato in una cella e lì abbandonato fino alla scadenza dei
termini fissati dal giudice. Certo, questi concetti, che sono
di elementare civiltà giuridica, possono tuttavia risultare di
difficile applicazione in un clima sociale nel quale la crisi
del nostro sistema produttivo e l'andamento della
disoccupazione, con buona pace dell'ottimismo sbandierato in
queste settimane dal Presidente del Consiglio, sono e
rimangono drammatici.
E' fin troppo facile e fin troppo ovvio chiedersi perché
la logica, che è corretta e che condivido, degli sgravi
fiscali e contributivi per le cooperative o le aziende che
impiegano detenuti o ex detenuti non possa essere applicata a
chi assume disoccupati che non sono stati in carcere. Ciò,
però, ci condurrebbe ovviamente a riflessioni molto più ampie
sulla logica generale della politica del lavoro del Governo
che, a nostro giudizio, costituisce uno dei fallimenti più
clamorosi del centrosinistra (per parlarne vi saranno molte
altre occasioni). Va detto, tuttavia, che non si sanerebbero
gli errori della politica economica del Governo penalizzando
una categoria, come i detenuti o gli ex detenuti,
oggettivamente debole. Non dimentichiamo mai che, se ogni
uomo, ancorché detenuto, ancorché colpevole dei reati più
gravi, rimane portatore di alcuni diritti fondamentali, il
recupero alle regole della convivenza civile di chi delinque è
nell'interesse prioritario della società, della sicurezza dei
cittadini.
Il consolidarsi di un'area, di un settore della società
che vive ai margini della legalità è un fenomeno
pericolosissimo, nel quale la malavita organizzata recluta con
grande facilità i propri organici. Se dal carcere non
uscissero cittadini pronti a ricominciare a vivere nelle
regole, ma delinquenti abituali, pronti cioè a tornare sulla
strada del delitto, ciò determinerebbe un costo sociale
altissimo. Mi rendo conto che anche questo è un discorso
difficile di fronte all'allarme sociale che deriva da un altro
grave fallimento del Governo: quello sul fronte della
sicurezza. E' un fallimento che sta nei numeri. Sono le
relazioni annuali del procuratore generale presso la Corte di
cassazione, all'apertura dell'anno giudiziario, a regalarci la
fotografia agghiacciante di un paese nel quale il 95 per cento
dei reati commessi ogni anno rimane impunito, nel quale il 50
per cento degli omicidi e il 90 per cento dei furti non
trovano un colpevole.
Questo scenario coinvolge responsabilità del Governo e
responsabilità delle procure della repubblica, alcune delle
quali, forse, sono troppo indaffarate in indagini
retrospettive su uomini politici della prima o della seconda
Repubblica o sulle aziende da qualcuno di loro create per
occuparsi di banalità meno spettacolari e meno politicamente
utilizzabili, come gli omicidi e i furti. Peccato che queste
situazioni, invece, siano quelle che contano per i cittadini e
quelle che giustificano la richiesta di una severità che è
giustissima se non diventa inutile arbitrio.
La tolleranza zero che noi auspichiamo non significa
riduzione dei diritti dei cittadini, ma significa certezza
dell'effettività della pena a partire proprio dalla
criminalità minore e occasionale. La pena, però, per essere
efficace, deve essere certa e non inutilmente avvilente.
Le gride dei governatori spagnoli del seicento, quelle di
cui ci parla Manzoni, che minacciavano punizioni sempre più
gravi e che rimanevano sostanzialmente
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inapplicate, oltre a non essere un modello per la nostra
civiltà giuridica, non erano nemmeno, e non sono, uno
strumento efficace per la repressione del crimine. Dunque, il
recupero dei detenuti all'attività lavorativa è un aspetto
dell'itinerario verso il loro recupero alla vita onesta. E'
una misura di salvaguardia sociale. Perseguire tale obiettivo
attraverso lo strumento di incentivi fiscali e contributivi è
sicuramente una strada corretta, forse l'unica oggettivamente
possibile per ottenere dei risultati concreti in una logica,
per una volta, non strettamente dirigista.
Certamente, questa legge afferma dei principi giusti dei
quali bisognerà verificare l'applicazione. Non è soltanto
teorico il pericolo, per esempio, che la formazione dei
detenuti si traduca piuttosto in uno strumento per alimentare
burocrazia carceraria e non in un effettivo beneficio per
coloro che ne dovrebbero essere i destinatari. Va detto però
che la previsione dell'articolo 3 di affidare questo compito
direttamente alle imprese a fronte degli sgravi fiscali
dovrebbe essere garanzia di qualche maggiore efficienza.
Sempre in materia di applicazione, va detto che gran parte
dell'efficacia di questo provvedimento dipenderà dalla misura
effettiva degli sgravi previsti che, a norma dell'articolo 4,
verranno determinati annualmente con un decreto
interministeriale. Questa è oggettivamente una delle più
grandi incognite di questa legge: evidentemente, soltanto un
livello di sgravi significativamente adeguato può produrre
risultati di reale efficacia. Su questo vorrei mettere fin
d'ora, come si suol dire, le mani avanti. C'è il rischio di
affermare un principio alto e nobile e poi di non applicarlo.
Sarebbe la cosa peggiore che potremmo fare.
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