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Testi integrali degli Atti Parlamentari della XIII Legislatura

Documento


115154
STA0722-0030
Somm. e Sten. d'Aula n. 722 del 12 maggio 2000 (STA13-722)
(suddiviso in 42 Unità Documento)
Unità Documento n.30 (che inizia a pag.20 dello stampato)
(il TITOLO si trova nell'Unità Documento n.23)
DISCUSSIONE: C5967; C1823, C2283, C2359. ...(Discussione sulle linee generali - A.C. 5967) LAVASS
...DISCUSSIONE: C5967; C1823, C2283, C2359. ...(Discussione sulle linee generali - A.C. 5967)
MARIO ALBERTO TABORELLI.
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE PIERLUIGI PETRINI
ZZSTA ZZRES ZZSTA120500 ZZSTA000512 ZZSTA000500 ZZSTA000000 ZZSTA722 ZZ13 ZZDI ZZLL
    MARIO ALBERTO TABORELLI.  Signor Presidente, onorevoli
  colleghi, signor rappresentante del Governo, il provvedimento
  che stiamo esaminando è di grande rilievo sul piano dei
  principi e noi speriamo possa diventarlo anche su quello
  dell'applicazione concreta.
     Sappiamo che la cultura del diritto nel mondo moderno, nei
  paesi di alta civiltà giuridica, concepisce la carcerazione
  innanzitutto come strumento di recupero e di rieducazione del
  reo.  La funzione rieducativa della pena sul piano dei principi
  è considerata prioritaria, prevalente su quella remunerativa
  come intesa in passato.  Il carcere non è più - o almeno non
  dovrebbe più essere - uno strumento per liberare la società da
  elementi di disturbo, segregandoli, ma un mezzo per
  riconsegnare alla società, dopo la giusta espiazione delle
  proprie pene, cittadini capaci di vivere onestamente.  Questi
  principi sono puntualmente recepiti dall'articolo 27 della
  nostra Costituzione, ma trovano corrispondenza
  nell'effettività della nostra situazione carceraria?  Credo che
  la risposta sia purtroppo scontata e che chiunque abbia
  visitato un carcere italiano, tranne poche e fortunate
  eccezioni, conosca benissimo la risposta.  Credo inoltre che
  basti anche un'occhiata superficiale alle notizie che ci
  vengono dai giornali o dall'informazione radiotelevisiva per
  non avere dubbi.  Le recenti, gravissime notizie che ci
  giungono dal carcere di Sassari e da altre carceri, non solo
  in Sardegna, sono l'emblema di un fallimento.  Ne sono vittima
  tutte le parti in causa, in primo luogo i detenuti, costretti
  a subire un trattamento umiliante quando non violento e gli
  agenti della polizia penitenziaria, i quali percepiscono una
  retribuzione irrisoria e sono costretti a fare del loro meglio
  in condizioni difficilissime per gestire situazioni
  pericolose.  Ne è vittima, soprattutto, il concetto stesso
  della carcerazione rieducativa, com'è intesa dal nostro
  ordinamento.
     Il danno sociale che ne deriva è enorme.  Per avere la
  misura dello sfascio, proviamo a riflettere su un paio di dati
  clamorosi.  La popolazione carceraria italiana, nel 1990, era
  di circa 29 mila detenuti, mentre nel 1998 è diventata di 47
  mila detenuti; insomma, essa è quasi raddoppiata, mentre - lo
  sottolineo solo per inciso -, come sappiamo, l'edilizia
  carceraria non ha certo tenuto il passo di tale crescita.
  Credo di poter dire, anzi, che la capienza delle nostre
  carceri è rimasta pressoché immutata.
     Sarà anche per effetto di ciò, ossia per la mancanza di
  spazio fisico, che le condizioni di vita nelle carceri sono
  straordinariamente peggiorate.  Il risultato è comunque
  chiarissimo: dal 1990 ad oggi la percentuale di detenuti
  impiegati in attività lavorative è scesa dal 43 per cento al
  20 per cento.  E' questo il bilancio di una grave sconfitta per
  lo Stato, per la nostra civiltà giuridica, per il futuro
  stesso della sicurezza sociale del nostro paese.
     Una delle principali ragioni, in effetti, per la quale la
  carcerazione in Italia non ha alcuna funzione rieducativa
  reale e, anzi, è piuttosto, molto spesso, un elemento di
  ulteriore corruzione del reo, rischiando di trasformare in
  delinquente abituale chi, soprattutto tra i più giovani, abbia
  commesso un errore che lo abbia condotto in carcere, è proprio
  l'ozio forzato che, oltre alla promiscuità, è la ragione
  principale di degrado della vita in carcere.
     Garantire ai detenuti la possibilità di svolgere un lavoro
  durante la detenzione non è soltanto un modo per far avere
  loro qualche risorsa economica, spesso comunque utilissima
  soprattutto per i non abbienti, che rappresentano senz'altro
  la
 
                              Pag. 21
 
  maggioranza della popolazione carceraria; il lavoro in
  carcere ha altre due funzioni fondamentali: quella di tipo
  formativo, nel senso di creare o mantenere una professionalità
  utile in vista del reinserimento nella vita al di fuori del
  carcere e per non tornare a delinquere, e quella più generale
  di dare una dignità e un senso all'espiazione della pena, che
  non sia esclusivamente di avvilimento della dignità umana, che
  appartiene anche ai detenuti.
     Lo svolgimento di una professione in luogo dell'ozio
  forzato può essere esso stesso una ragione di recupero di un
  rapporto corretto con la vita sociale, restituendo al detenuto
  una soggettività, strappandolo alla condizione di numero
  gettato in una cella e lì abbandonato fino alla scadenza dei
  termini fissati dal giudice.  Certo, questi concetti, che sono
  di elementare civiltà giuridica, possono tuttavia risultare di
  difficile applicazione in un clima sociale nel quale la crisi
  del nostro sistema produttivo e l'andamento della
  disoccupazione, con buona pace dell'ottimismo sbandierato in
  queste settimane dal Presidente del Consiglio, sono e
  rimangono drammatici.
     E' fin troppo facile e fin troppo ovvio chiedersi perché
  la logica, che è corretta e che condivido, degli sgravi
  fiscali e contributivi per le cooperative o le aziende che
  impiegano detenuti o ex detenuti non possa essere applicata a
  chi assume disoccupati che non sono stati in carcere.  Ciò,
  però, ci condurrebbe ovviamente a riflessioni molto più ampie
  sulla logica generale della politica del lavoro del Governo
  che, a nostro giudizio, costituisce uno dei fallimenti più
  clamorosi del centrosinistra (per parlarne vi saranno molte
  altre occasioni).  Va detto, tuttavia, che non si sanerebbero
  gli errori della politica economica del Governo penalizzando
  una categoria, come i detenuti o gli ex detenuti,
  oggettivamente debole.  Non dimentichiamo mai che, se ogni
  uomo, ancorché detenuto, ancorché colpevole dei reati più
  gravi, rimane portatore di alcuni diritti fondamentali, il
  recupero alle regole della convivenza civile di chi delinque è
  nell'interesse prioritario della società, della sicurezza dei
  cittadini.
     Il consolidarsi di un'area, di un settore della società
  che vive ai margini della legalità è un fenomeno
  pericolosissimo, nel quale la malavita organizzata recluta con
  grande facilità i propri organici.  Se dal carcere non
  uscissero cittadini pronti a ricominciare a vivere nelle
  regole, ma delinquenti abituali, pronti cioè a tornare sulla
  strada del delitto, ciò determinerebbe un costo sociale
  altissimo.  Mi rendo conto che anche questo è un discorso
  difficile di fronte all'allarme sociale che deriva da un altro
  grave fallimento del Governo: quello sul fronte della
  sicurezza.  E' un fallimento che sta nei numeri.  Sono le
  relazioni annuali del procuratore generale presso la Corte di
  cassazione, all'apertura dell'anno giudiziario, a regalarci la
  fotografia agghiacciante di un paese nel quale il 95 per cento
  dei reati commessi ogni anno rimane impunito, nel quale il 50
  per cento degli omicidi e il 90 per cento dei furti non
  trovano un colpevole.
     Questo scenario coinvolge responsabilità del Governo e
  responsabilità delle procure della repubblica, alcune delle
  quali, forse, sono troppo indaffarate in indagini
  retrospettive su uomini politici della prima o della seconda
  Repubblica o sulle aziende da qualcuno di loro create per
  occuparsi di banalità meno spettacolari e meno politicamente
  utilizzabili, come gli omicidi e i furti.  Peccato che queste
  situazioni, invece, siano quelle che contano per i cittadini e
  quelle che giustificano la richiesta di una severità che è
  giustissima se non diventa inutile arbitrio.
     La tolleranza zero che noi auspichiamo non significa
  riduzione dei diritti dei cittadini, ma significa certezza
  dell'effettività della pena a partire proprio dalla
  criminalità minore e occasionale.  La pena, però, per essere
  efficace, deve essere certa e non inutilmente avvilente.
     Le gride dei governatori spagnoli del seicento, quelle di
  cui ci parla Manzoni, che minacciavano punizioni sempre più
  gravi e che rimanevano sostanzialmente
 
                              Pag. 22
 
  inapplicate, oltre a non essere un modello per la nostra
  civiltà giuridica, non erano nemmeno, e non sono, uno
  strumento efficace per la repressione del crimine.  Dunque, il
  recupero dei detenuti all'attività lavorativa è un aspetto
  dell'itinerario verso il loro recupero alla vita onesta.  E'
  una misura di salvaguardia sociale.  Perseguire tale obiettivo
  attraverso lo strumento di incentivi fiscali e contributivi è
  sicuramente una strada corretta, forse l'unica oggettivamente
  possibile per ottenere dei risultati concreti in una logica,
  per una volta, non strettamente dirigista.
     Certamente, questa legge afferma dei principi giusti dei
  quali bisognerà verificare l'applicazione.  Non è soltanto
  teorico il pericolo, per esempio, che la formazione dei
  detenuti si traduca piuttosto in uno strumento per alimentare
  burocrazia carceraria e non in un effettivo beneficio per
  coloro che ne dovrebbero essere i destinatari.  Va detto però
  che la previsione dell'articolo 3 di affidare questo compito
  direttamente alle imprese a fronte degli sgravi fiscali
  dovrebbe essere garanzia di qualche maggiore efficienza.
     Sempre in materia di applicazione, va detto che gran parte
  dell'efficacia di questo provvedimento dipenderà dalla misura
  effettiva degli sgravi previsti che, a norma dell'articolo 4,
  verranno determinati annualmente con un decreto
  interministeriale.  Questa è oggettivamente una delle più
  grandi incognite di questa legge: evidentemente, soltanto un
  livello di sgravi significativamente adeguato può produrre
  risultati di reale efficacia.  Su questo vorrei mettere fin
  d'ora, come si suol dire, le mani avanti.  C'è il rischio di
  affermare un principio alto e nobile e poi di non applicarlo.
  Sarebbe la cosa peggiore che potremmo fare.
 
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