| PIETRO CAROTTI. Signor Presidente, onorevoli colleghi,
esercito il mio diritto di libertà di coscienza, al quale il
gruppo parlamentare a cui appartengo ha deciso di affidare la
decisione su un passaggio così nodale e così carico di
significati concreti e simbolici, per cercare di restituire -
secondo la mia visione - criteri e parametri di scientificità
a quella che ho interpretato come una deriva massmediatica per
la quale l'attenzione si è incentrata su problemi
assolutamente irrilevanti e secondari rispetto al nodo che
dobbiamo sciogliere.
Qualche minuto fa nel suo intervento un deputato ha
parlato di una specie di teorema che non consentirebbe
alternative a due ipotesi: ricorrere al complottismo oppure
condividere la tesi antagonista. Credo invece che esistano
soluzioni intermedie. Infatti, opinando in questa maniera,
anche nelle prossime decisioni ci troveremmo a non poter
uscire dallo stesso corno del dilemma. In realtà tutta
l'analistica (fortunatamente non molto nutrita) di questo
Parlamento della Repubblica ci ha insegnato (e lo condivido)
che può ricorrere fumus persecutionis anche nel caso di
una deviazione che sfiora la colpa cosciente; non è detto che
quel "fumus" diventi "arrostus" (come è stato
banalizzato anche in qualche intervento nella Giunta per le
autorizzazioni a procedere), tuttavia dà un indizio di mancata
serenità nei riguardi di una decisione che invece deve
rapportarsi soltanto a criteri di assoluta legalità.
Il quesito corretto che viene posto e che siamo chiamati a
risolvere ovviamente non transita per la verifica della platea
e dello spessore degli elementi probatori o indizianti.
Segnalo in proposito un dato paradossale ed allarmante.
L'intera richiesta di esecuzione della misura custodiale
contiene 115 pagine che parlano dello spessore indiziante
degli elementi, con una martellante prolissità, fino al punto
da non rendersi conto che si cade in un paradosso
logico-aristotelico. Infatti, se il quadro indiziario è così
costruito e riempito di tessuto connettivo, mi domando - e
domando al giudice per le indagini preliminari di Milano - che
pericolo vi sia di inquinamento di prove ormai già
completamente raggiunte (secondo l'assunto accusatorio).
D'altra parte, aver destinato soltanto dieci pagine (delle
quali sei di semplici citazioni) all'analisi delle esigenze
cautelari è uno degli elementi che ovviamente ha un po'
allarmato chi vi sta parlando, che annuncia in maniera
assolutamente
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convinta il suo voto contrario all'arresto dell'onorevole
Cesare Previti.
Non sarei intervenuto se non fossi un po' confuso. Fin
dall'entrata in vigore del codice di procedura penale del 1989
(ma anche in epoche precedenti) ho preso parte ad una nutrita
serie di tavole rotonde, quadrate e triangolari nel corso
delle quali sono state dette cose di cui evidentemente i
partecipanti non erano convinti.
Mi rivolgo segnatamente ai colleghi deputati che
rappresentano la sinistra in questa Camera. Ricordo che fu
definita, oltretutto mutuando un termine dalla casistica
classica, un'immoralità da relegare nel medioevo giuridico il
ricorso alla misura custodiale. Si parlò di residualità della
possibilità di ricorso alla custodia perché questa era
comunque un'anticipazione della pena che addirittura aveva
richiesto un segnale politico di cancellazione dal punto di
vista terminologico. Coloro che come me hanno una grossa
esperienza, dal punto di vista cronologico, di diritto e
procedura penale, sanno che l'espressione "libertà
provvisoria" fu oggetto di ampio dibattito e venne eliminata
perché si stabilì il principio che la provvisorietà deve
riguardare la detenzione e non anche la libertà. La libertà è
lo stato stabile nel quale un cittadino deve affrontare un
processo. Nel 1995, nonché in alcuni casi nella presente
legislatura, in Commissione ci siamo tutti agitati nel
tentativo di restringere l'ulteriore strettoia, che vedeva in
ogni caso prevalere una tesi da parte di tutti i componenti
della Commissione senza vincolo di schieramento politico, fino
al punto di parlare di diritto penale minimo e, nell'ambito di
quest'ultimo, di diritto custodiale ancor più minimo. Mi
domando cosa resti di quei principi che abbiamo inserito nella
legge del 1995, quando abbiamo ulteriormente specificato la
casistica e le condizioni di legalità che consentono di
ricorrere alla privazione di libertà di un cittadino.
La situazione, in questo caso, è addirittura quasi
rovesciata. Diventa infatti una specie di handicap giuridico
l'essere membro della Camera dei deputati. A me dispiace, lo
dico perché ne resti traccia, che in alcune manifestazioni
pubbliche taluni insigni giuristi si siano abbandonati
all'argomento secondo cui, se ingiustizia era stata commessa a
danno di privati cittadini, bisognava perseverare nell'errore
e commettere ulteriore ingiustizia in danno di un deputato. Il
deputato non è soltanto portatore di un mandato; privare della
libertà il deputato significa, tra i due beni in conflitto che
debbono essere giudicati da questa Assemblea, far prevalere
quello che noi abbiamo deciso di relegare ad episodi
assolutamente minimali e che non consentano alternativa se non
quella del ricorso alla misura della custodia cautelare.
Vengo ora, nei pochi minuti che purtroppo ho a
disposizione, ai termini concreti del problema. Respingo la
tesi di coloro i quali argomentano affermando che non siamo un
tribunale del riesame né un giudice di impugnazione di secondo
grado né ovviamente un organo che "giustice" rispetto a quanto
affermano giudici terzi; anche qui, comunque, l'imprecisione è
piuttosto diffusa nel Parlamento: è vero che viene emessa da
un giudice terzo, ma non è men vero che la richiesta parte
dalla procura della Repubblica, mai un giudice terzo potrebbe
applicare d'ufficio una misura cautelare se non fosse a ciò
investito dalla procura della Repubblica.
Nel momento in cui dobbiamo decidere se vi è traccia di
deviazione rispetto alle esigenze della giustizia, abbiamo
oppure no il dovere di rintracciare nei documenti processuali
elementi di questa natura? Oppure dobbiamo leggere le lettere
di san Paolo o ancora la Storia della filosofia di
Bertrand Russell? A cosa dovremmo agganciare un giudizio di
concretezza che non diventi una palestra di esercitazioni
ginniche mentali meramente calate sull'astratto?
Ho letto con molto dolore gli atti della procura di
Milano, quelli che sono stati messi a mia disposizione (a tale
proposito vi è una norma regolamentare che mi ha lasciato
piuttosto perplesso). In particolare ho letto le motivazioni a
sostegno
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dell'applicazione accolta da parte del giudice per le
indagini preliminari. Intanto si omettono circostanze che
sarebbero state significative anche per l'ultimo dei cittadini
italiani. Noi parliamo di episodi che, nella più rosea delle
ipotesi, sono distanti otto o nove anni dal momento in cui
decidiamo. Abbiamo detto oppure no, colleghi della sinistra,
nel corso della modifica della legge sulle misure alternative,
che l'elemento di distanza tra il commesso reato e
l'esecuzione della pena non faceva altro che spostare su un
soggetto diverso l'applicazione di una misura restrittiva?
Crediamo ancora in tale valore oppure oggi dobbiamo decidere
diversamente soltanto perché l'imputato è soggetto diverso, ha
una sua caratura politica e magari comporta retropensieri che
nessuno ha il coraggio di dire in maniera esplicita, tranne
alcuni, che ovviamente rispetto?
La distanza dal fatto, inoltre, che fa sfiorare perfino il
dubbio sulla condizione di reato ormai estinto per
prescrizione, è ulteriormente aggravata dal fatto che ci
troviamo a distanza di circa cinque mesi dal momento della
richiesta della misura cautelare. Ebbene, se è vero che
l'onorevole Previti, che siede oggi come Catilina in Senato, è
un individuo così diabolico da essere in grado di alterare
tutto (nella richiesta che viene avanzata dallo stesso giudice
si avanzano anche dei sospetti che se fossi il tribunale di
Milano sentirei come offesa), di prevedere tutto e di incidere
sui meccanismi più reconditi dell'amministrazione della
giustizia, dobbiamo attribuirgli veramente la patente di
sprovveduto se in dieci anni non è stato in grado di alterare
e, soprattutto, se in sette mesi, da quando è stata avanzata
la prima richiesta, non ha fatto altro che aspettare il nostro
giudizio per vedere se avrebbe potuto in futuro inquinare o
meno le prove.
Mi avvio rapidamente a concludere, Presidente. I punti
fondamentali dai quali desumo che non ci sia alcuna referenza
giuridica su quanto viene richiesto vanno identificati in
primo luogo nella pervicace ed ostinata richiesta e nella
decisione seguita, in qualche modo avallata anche dalla Corte
di cassazione, che noi però non siamo obbligati a rispettare,
forse perché in un periodo vi è stata una specie di tendenza a
temere la lesa maestà se si prendevano decisioni di carattere
diverso.
Veramente vogliamo credere che la competenza per
territorio sia quella di Milano? Se, come ho fatto per molti
anni, facessi ancora parte delle commissioni d'esame per i
giovani avvocati che vogliono diventare procuratori, i quali
mi sostenessero questo, dissociandomi dalla commissione, ne
proporrei la bocciatura. Infatti, nel primo caso si fa ricorso
ad un criterio incerto che è fonte soltanto di una decisione
della Cassazione, che afferma che, nell'incertezza della
commissione e del luogo del commesso delitto, si può pensare
che, avendo presumibilmente sede in Milano le imprese, il
processo si deve radicare in Milano.
Contrastando con altri argomentatori ben più autorevoli di
me (perché è la stessa Cassazione ad affermare che il
radicamento territoriale deve essere certo), ritengo che il
secondo capo di imputazione, che fa riferimento al criterio
suppletivo dell'articolo 9, non tiene conto del fatto che il
terzo comma dell'articolo 9 presuppone che non si possa
utilizzare il secondo comma, che prescrive l'incardinamento
nel luogo dove almeno è stata compiuta parte dell'azione.
Parte dell'azione è stata compiuta a Roma? Sappiamo che almeno
che una parte dell'iter criminoso è avvenuto in questa città?
Perché allora dobbiamo ricorrere alla corsa all'iscrizione nel
registro degli indagati?
La fumosità...
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