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Testi integrali degli Atti Parlamentari della XIII Legislatura

Documento


344420
STA0298-0055
Stenografico d'Aula n. 298 del 19 gennaio 1998 (STA13-298)
(suddiviso in 68 Unità Documento)
Unità Documento n.55 (che inizia a pag.35 dello stampato)
(il TITOLO si trova nell'Unità Documento n.6)
DISCUSSIONE: DOC. IV, n. 11A. ...(Discussione - Doc. IV, n. 11-A). LAVASS
...DISCUSSIONE: DOC. IV, n. 11A. ...(Discussione - Doc. IV, n. 11-A).
PIETRO CAROTTI.
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE LUCIANO VIOLANTE
ZZSTA ZZRES ZZSTA190198 ZZSTA980119 ZZSTA000198 ZZSTA000098 ZZSTA298 ZZ13 ZZDI ZZLL
    PIETRO CAROTTI.  Signor Presidente, onorevoli colleghi,
  esercito il mio diritto di libertà di coscienza, al quale il
  gruppo parlamentare a cui appartengo ha deciso di affidare la
  decisione su un passaggio così nodale e così carico di
  significati concreti e simbolici, per cercare di restituire -
  secondo la mia visione - criteri e parametri di scientificità
  a quella che ho interpretato come una deriva massmediatica per
  la quale l'attenzione si è incentrata su problemi
  assolutamente irrilevanti e secondari rispetto al nodo che
  dobbiamo sciogliere.
     Qualche minuto fa nel suo intervento un deputato ha
  parlato di una specie di teorema che non consentirebbe
  alternative a due ipotesi: ricorrere al complottismo oppure
  condividere la tesi antagonista.  Credo invece che esistano
  soluzioni intermedie.  Infatti, opinando in questa maniera,
  anche nelle prossime decisioni ci troveremmo a non poter
  uscire dallo stesso corno del dilemma.  In realtà tutta
  l'analistica (fortunatamente non molto nutrita) di questo
  Parlamento della Repubblica ci ha insegnato (e lo condivido)
  che può ricorrere  fumus persecutionis  anche nel caso di
  una deviazione che sfiora la colpa cosciente; non è detto che
  quel  "fumus"  diventi "arrostus" (come è stato
  banalizzato anche in qualche intervento nella Giunta per le
  autorizzazioni a procedere), tuttavia dà un indizio di mancata
  serenità nei riguardi di una decisione che invece deve
  rapportarsi soltanto a criteri di assoluta legalità.
     Il quesito corretto che viene posto e che siamo chiamati a
  risolvere ovviamente non transita per la verifica della platea
  e dello spessore degli elementi probatori o indizianti.
  Segnalo in proposito un dato paradossale ed allarmante.
  L'intera richiesta di esecuzione della misura custodiale
  contiene 115 pagine che parlano dello spessore indiziante
  degli elementi, con una martellante prolissità, fino al punto
  da non rendersi conto che si cade in un paradosso
  logico-aristotelico.  Infatti, se il quadro indiziario è così
  costruito e riempito di tessuto connettivo, mi domando - e
  domando al giudice per le indagini preliminari di Milano - che
  pericolo vi sia di inquinamento di prove ormai già
  completamente raggiunte (secondo l'assunto accusatorio).
  D'altra parte, aver destinato soltanto dieci pagine (delle
  quali sei di semplici citazioni) all'analisi delle esigenze
  cautelari è uno degli elementi che ovviamente ha un po'
  allarmato chi vi sta parlando, che annuncia in maniera
  assolutamente
 
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  convinta il suo voto contrario all'arresto dell'onorevole
  Cesare Previti.
     Non sarei intervenuto se non fossi un po' confuso.  Fin
  dall'entrata in vigore del codice di procedura penale del 1989
  (ma anche in epoche precedenti) ho preso parte ad una nutrita
  serie di tavole rotonde, quadrate e triangolari nel corso
  delle quali sono state dette cose di cui evidentemente i
  partecipanti non erano convinti.
     Mi rivolgo segnatamente ai colleghi deputati che
  rappresentano la sinistra in questa Camera.  Ricordo che fu
  definita, oltretutto mutuando un termine dalla casistica
  classica, un'immoralità da relegare nel medioevo giuridico il
  ricorso alla misura custodiale.  Si parlò di residualità della
  possibilità di ricorso alla custodia perché questa era
  comunque un'anticipazione della pena che addirittura aveva
  richiesto un segnale politico di cancellazione dal punto di
  vista terminologico.  Coloro che come me hanno una grossa
  esperienza, dal punto di vista cronologico, di diritto e
  procedura penale, sanno che l'espressione "libertà
  provvisoria" fu oggetto di ampio dibattito e venne eliminata
  perché si stabilì il principio che la provvisorietà deve
  riguardare la detenzione e non anche la libertà.  La libertà è
  lo stato stabile nel quale un cittadino deve affrontare un
  processo.  Nel 1995, nonché in alcuni casi nella presente
  legislatura, in Commissione ci siamo tutti agitati nel
  tentativo di restringere l'ulteriore strettoia, che vedeva in
  ogni caso prevalere una tesi da parte di tutti i componenti
  della Commissione senza vincolo di schieramento politico, fino
  al punto di parlare di diritto penale minimo e, nell'ambito di
  quest'ultimo, di diritto custodiale ancor più minimo.  Mi
  domando cosa resti di quei principi che abbiamo inserito nella
  legge del 1995, quando abbiamo ulteriormente specificato la
  casistica e le condizioni di legalità che consentono di
  ricorrere alla privazione di libertà di un cittadino.
     La situazione, in questo caso, è addirittura quasi
  rovesciata.  Diventa infatti una specie di handicap giuridico
  l'essere membro della Camera dei deputati.  A me dispiace, lo
  dico perché ne resti traccia, che in alcune manifestazioni
  pubbliche taluni insigni giuristi si siano abbandonati
  all'argomento secondo cui, se ingiustizia era stata commessa a
  danno di privati cittadini, bisognava perseverare nell'errore
  e commettere ulteriore ingiustizia in danno di un deputato.  Il
  deputato non è soltanto portatore di un mandato; privare della
  libertà il deputato significa, tra i due beni in conflitto che
  debbono essere giudicati da questa Assemblea, far prevalere
  quello che noi abbiamo deciso di relegare ad episodi
  assolutamente minimali e che non consentano alternativa se non
  quella del ricorso alla misura della custodia cautelare.
     Vengo ora, nei pochi minuti che purtroppo ho a
  disposizione, ai termini concreti del problema.  Respingo la
  tesi di coloro i quali argomentano affermando che non siamo un
  tribunale del riesame né un giudice di impugnazione di secondo
  grado né ovviamente un organo che "giustice" rispetto a quanto
  affermano giudici terzi; anche qui, comunque, l'imprecisione è
  piuttosto diffusa nel Parlamento: è vero che viene emessa da
  un giudice terzo, ma non è men vero che la richiesta parte
  dalla procura della Repubblica, mai un giudice terzo potrebbe
  applicare d'ufficio una misura cautelare se non fosse a ciò
  investito dalla procura della Repubblica.
     Nel momento in cui dobbiamo decidere se vi è traccia di
  deviazione rispetto alle esigenze della giustizia, abbiamo
  oppure no il dovere di rintracciare nei documenti processuali
  elementi di questa natura?  Oppure dobbiamo leggere le lettere
  di san Paolo o ancora la  Storia della filosofia  di
  Bertrand Russell?  A cosa dovremmo agganciare un giudizio di
  concretezza che non diventi una palestra di esercitazioni
  ginniche mentali meramente calate sull'astratto?
     Ho letto con molto dolore gli atti della procura di
  Milano, quelli che sono stati messi a mia disposizione (a tale
  proposito vi è una norma regolamentare che mi ha lasciato
  piuttosto perplesso).  In particolare ho letto le motivazioni a
  sostegno
 
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  dell'applicazione accolta da parte del giudice per le
  indagini preliminari.  Intanto si omettono circostanze che
  sarebbero state significative anche per l'ultimo dei cittadini
  italiani.  Noi parliamo di episodi che, nella più rosea delle
  ipotesi, sono distanti otto o nove anni dal momento in cui
  decidiamo.  Abbiamo detto oppure no, colleghi della sinistra,
  nel corso della modifica della legge sulle misure alternative,
  che l'elemento di distanza tra il commesso reato e
  l'esecuzione della pena non faceva altro che spostare su un
  soggetto diverso l'applicazione di una misura restrittiva?
  Crediamo ancora in tale valore oppure oggi dobbiamo decidere
  diversamente soltanto perché l'imputato è soggetto diverso, ha
  una sua caratura politica e magari comporta retropensieri che
  nessuno ha il coraggio di dire in maniera esplicita, tranne
  alcuni, che ovviamente rispetto?
     La distanza dal fatto, inoltre, che fa sfiorare perfino il
  dubbio sulla condizione di reato ormai estinto per
  prescrizione, è ulteriormente aggravata dal fatto che ci
  troviamo a distanza di circa cinque mesi dal momento della
  richiesta della misura cautelare.  Ebbene, se è vero che
  l'onorevole Previti, che siede oggi come Catilina in Senato, è
  un individuo così diabolico da essere in grado di alterare
  tutto (nella richiesta che viene avanzata dallo stesso giudice
  si avanzano anche dei sospetti che se fossi il tribunale di
  Milano sentirei come offesa), di prevedere tutto e di incidere
  sui meccanismi più reconditi dell'amministrazione della
  giustizia, dobbiamo attribuirgli veramente la patente di
  sprovveduto se in dieci anni non è stato in grado di alterare
  e, soprattutto, se in sette mesi, da quando è stata avanzata
  la prima richiesta, non ha fatto altro che aspettare il nostro
  giudizio per vedere se avrebbe potuto in futuro inquinare o
  meno le prove.
     Mi avvio rapidamente a concludere, Presidente.  I punti
  fondamentali dai quali desumo che non ci sia alcuna referenza
  giuridica su quanto viene richiesto vanno identificati in
  primo luogo nella pervicace ed ostinata richiesta e nella
  decisione seguita, in qualche modo avallata anche dalla Corte
  di cassazione, che noi però non siamo obbligati a rispettare,
  forse perché in un periodo vi è stata una specie di tendenza a
  temere la lesa maestà se si prendevano decisioni di carattere
  diverso.
     Veramente vogliamo credere che la competenza per
  territorio sia quella di Milano?  Se, come ho fatto per molti
  anni, facessi ancora parte delle commissioni d'esame per i
  giovani avvocati che vogliono diventare procuratori, i quali
  mi sostenessero questo, dissociandomi dalla commissione, ne
  proporrei la bocciatura.  Infatti, nel primo caso si fa ricorso
  ad un criterio incerto che è fonte soltanto di una decisione
  della Cassazione, che afferma che, nell'incertezza della
  commissione e del luogo del commesso delitto, si può pensare
  che, avendo presumibilmente sede in Milano le imprese, il
  processo si deve radicare in Milano.
     Contrastando con altri argomentatori ben più autorevoli di
  me (perché è la stessa Cassazione ad affermare che il
  radicamento territoriale deve essere certo), ritengo che il
  secondo capo di imputazione, che fa riferimento al criterio
  suppletivo dell'articolo 9, non tiene conto del fatto che il
  terzo comma dell'articolo 9 presuppone che non si possa
  utilizzare il secondo comma, che prescrive l'incardinamento
  nel luogo dove almeno è stata compiuta parte dell'azione.
  Parte dell'azione è stata compiuta a Roma?  Sappiamo che almeno
  che una parte dell'iter criminoso è avvenuto in questa città?
  Perché allora dobbiamo ricorrere alla corsa all'iscrizione nel
  registro degli indagati?
     La fumosità...
 
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