| La Commissione inizia l'esame delle proposte di legge
all'ordine del giorno.
Carlo CARLI, presidente, cogliendo l'occasione
dell'avvio dell' iter delle proposte di legge, informa la
Commissione che la documentazione predisposta dal Servizio
studi ha ora una nuova impostazione redazionale e di
contenuto, alla luce delle norme regolamentari
sull'istruttoria legislativa entrate in vigore il 1^ gennaio
scorso. Le schede dei dossier, infatti, come di consueto
illustreranno il contenuto dei testi, ma facendo specifico
riferimento a ciascuno degli aspetti che la Commissione è
tenuta ad approfondire ai sensi del nuovo articolo 79 del
Regolamento (necessità dell'intervento legislativo; conformità
alla Costituzione, alla normativa dell'Unione europea e
rispetto delle competenze regionali e degli enti locali;
individuazione degli obiettivi dell'intervento e relativi
oneri per i soggetti pubblici e privati; chiarezza del dettato
legislativo).
Paolo PALMA (gruppo popolari e democratici-l'Ulivo),
relatore, osserva che le proposte di legge in esame
attengono alla regolamentazione di un settore, quello delle
imprese di tinto-lavanderia, che ha una notevole diffusione
nel Paese, ed una discreta rilevanza in termini
occupazionali.
Vi operano, stando ai dati disponibili (ufficiali o
forniti dalle rappresentanze degli operatori) tra le 20 e le
25 mila imprese, quasi esclusivamente di piccola e
piccolissima dimensione e di natura
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prevalentemente artigiana. Le poche imprese industriali
sarebbero anch'esse, per la maggior parte, di dimensioni molto
ridotte (oltre la metà avrebbe non più di tre addetti).
Il settore risulta distribuito, trattandosi di servizi al
pubblico molto diffusi, in modo capillare su tutto il
territorio nazionale. Il numero delle imprese è più elevato
rispetto agli altri paesi comunitari (si stima che le imprese
italiane siano più numerose della somma di quelle operanti in
Francia, Germania ed Inghilterra).
Questa attività ha infatti avuto una fase di forte
espansione, tra la fine degli anni cinquanta ed i primi anni
settanta, durante la quale si è verificato un incremento, per
taluni eccessivo, del numero degli operatori; incremento che
ha portato l'Italia a diventare leader mondiale nella
produzione degli impianti di lavaggio (si calcola che l'Italia
produca 10 mila lavatrici a secco ogni anno, di cui la massima
parte viene esportata). E' poi intervenuta una lunga e
profonda crisi, con andamenti della domanda altalenanti ed
insoddisfacenti. Tale andamento congiunturale si è
accompagnato ad un progressivo e consistente incremento degli
obblighi e degli oneri amministrativi in capo a questa
categoria (si pensi alla problematica della tutela ambientale
e della salute sui luoghi di lavoro), che ha imposto il
rispetto di misure necessarie ma notevolmente gravose, specie
in ragione delle ridottissime dimensioni delle imprese.
Vengono anche segnalate, dagli operatori, ulteriori
difficoltà derivanti dalla totale assenza di regolamentazioni
comunali e di uniformi indirizzi dell'azione amministrativa,
che, mentre agli operatori regolari crea difficoltà
burocratiche, le più svariate, non appare in grado di
contrastare efficacemente i fenomeni di abusivismo e
concorrenza sleale (forse favoriti dalla presenza di imprese
che svolgono attività itinerante).
D'altro canto la categoria ha dovuto affrontare, in
assenza di qualsiasi ausilio pubblico, un processo di
qualificazione ed aggiornamento professionale, anche della
manodopera dipendente, e di rinnovo degli impianti, imposto
dalla evoluzione delle esigenze della clientela, dalla
crescente complessità delle attrezzature e delle tecniche di
lavorazione, e dalla forte innovazione verificatasi nel campo
delle fibre tessili, che ha coinvolto le stesse modalità di
trattamento dei tessuti.
Da tempo, quindi, le organizzazioni di rappresentanza del
settore (soprattutto degli artigiani, che costituiscono la
categoria di gran lunga più numerosa), hanno reiteratamente
richiesto una disciplina che regolamentasse questa attività in
grado di consentire uno sviluppo delle imprese compatibile con
le effettive esigenze del mercato; e di tutelare allo stesso
tempo i consumatori e gli operatori più qualificati,
introducendo, in analogia a quanto avviene in altri paesi
comunitari, requisiti di qualificazione minimi, obbligatori
per l'esercizio dell'attività rivolta al pubblico.
Una regolamentazione specifica è infatti ritenuta
necessaria perché siano fornite all'utente dei servizi di
tinto-lavanderia idonee garanzie del rispetto dei necessari
canoni di igiene e di sicurezza.
Tutte e tre le proposte di legge in esame hanno inteso,
evidentemente, raccogliere queste istanze, prevedendo che
vengano affidati all'Ente Regione compiti programmatori e di
indirizzo; mentre ai comuni verrebbero affidati i compiti
definitori ed attuativi dell'azione amministrativa.
Paiono conseguentemente superate, quindi, le carenze di
impianto che avevano portato la Camera, e segnatamente la
Commissione Affari Costituzionali, nel novembre del 1992, ad
esprimere parere sfavorevole su di una proposta analoga che si
prefiggeva di regolamentare la materia (1^ firmatario
l'onorevole Righi) di cui la stessa Commissione aveva iniziato
l'esame nel 1989. Il rigetto venne allora motivato con il
mancato rispetto delle competenze costituzionalmente
attribuite alle Regioni.
Nei contenuti le proposte di legge in esame sono, in
realtà, salvo alcune differenze, abbastanza simili e muovono
da una impostazione tendenzialmente omogenea,
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analogamente ad altre due proposte presentate durante la
precedente legislatura (AC937, Sanese ed altri, discussa dalla
X Commissione il 19/11/ ed il 15/12/1992, e AC1831, Mattioli
ed altri, assegnata alla X Commissione e mai discussa).
Se ne richiamano di seguito i tratti salienti e taluni
aspetti problematici. Due i punti fondamentali che vengono
affrontati: 1. la attribuzione alle Regioni di specifici
compiti programmatori in materia di tinto-lavanderie e di
conseguenti compiti attuativi ai comuni; 2. l'introduzione di
requisiti tecnico-professionali obbligatori per gli operatori
del settore.
L'articolo 1, comma 1, delimita, in tutte e tre le
proposte, l'ambito di applicazione delle nuove disposizioni
alle attività delle imprese di lavanderia, pulitura a secco,
tintoria di abiti ed indumenti, smacchiatura, stireria ed
affini in genere, esclusivamente per il servizio rivolto al
pubblico.
Vengono conseguentemente escluse le lavanderie
industriali, quelle cioè che operano prevalentemente per altre
imprese ed enti, pubblici e privati, e ciò, probabilmente, in
quanto si tratta di imprese di per sé più strutturate, oltre
che numericamente e di poco significato.
Lo stesso comma attribuisce alla legge il fine di
assicurare uno sviluppo del settore compatibile con le
effettive esigenze del contesto sociale, le potenzialità del
mercato.
Un ruolo significativo viene attribuito alle regioni, che,
sulla base dell'analisi della concreta realtà imprenditoriale,
dovranno stabilire le linee programmatiche alle quali saranno
chiamate a conformarsi specifiche regolamentazioni comunali
dell'attività, nel rispetto degli equilibri istituzionali
costituzionalmente sanciti.
Le regioni saranno quindi chiamate (articolo 1, comma 2,
lettera a) a predisporre progetti di razionale
evoluzione e sviluppo qualitativo del settore che,
compatibilmente con le effettive esigenze del contesto
sociale, del territorio e le potenzialità del mercato dovranno
individuare criteri differenziati di dislocazione delle
imprese a livello locale tenendo conto del numero e delle
esigenze degli abitanti e degli utenti, in relazione alla
natura delle aree urbane esistenti.
Sul punto la proposta Volonté (AC2644) adotta una
impostazione dinamica (mutuata da altre precedenti normative
analoghe) facendo riferimento, ai fini della valutazione delle
potenzialità del mercato, non solo alla popolazione residente
ma anche a quella "fluttuante", e con ciò consentendo un
migliore adattamento delle regolamentazioni comunali a
situazioni particolari, quali quelle che si riscontrano, ad
esempio nelle località turistiche.
Inoltre le tre proposte prevedono (articolo 1, comma 2,
lettera b) che le stesse regioni debbano definire
appositi indirizzi per la "regolamentazione" (ma forse sarebbe
più opportuno far riferimento alle modalità di attuazione, e
relativo controllo) dei requisiti di sicurezza dei locali e
delle apparecchiature, delle cautele d'esercizio di sicurezza
dei locali e delle apparecchiature, delle cautele d'esercizio
e delle condizioni sanitarie in cui operano gli addetti delle
imprese, in conformità delle disposizioni vigenti definite
dalle normative statali e comunitarie in materia di igiene,
sanità e sicurezza.
Si deve poi notare che la lettera c), del comma 2,
dell'articolo 1, della proposta 2644 prevede un regime di
autorizzazioni comunali fondato su un sistema preventivo di
verifica dei requisiti attinenti l'esercizio dell'attività,
con specifico riferimento a quelle previste in materia di
tutela dell'ambiente.
Si avrebbe così una unica sede amministrativa (una sede
polifunzionale comunale) competente per tutti gli adempimenti
procedurali in materia ambientale (acqua, aria, rifiuti).
Si ritiene che tale meccanismo, se correttamente
applicato, possa effettivamente costituire un elemento di
semplificazione per la fase di avvio delle imprese; ma sarebbe
opportuno estenderlo anche a tutte le autorizzazioni attinenti
locali ed attrezzature, ed ai requisiti di qualificazione
professionale, avendo verificato,
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prima dell'adozione di una tale impostazione, se essa non
possa, eventualmente, considerarsi superata, o comunque da
integrare dalle misure previste dalla legge Bassanini 59/97,
che prevede una apposita delega per la semplificazione,
appunto, degli adempimenti necessari per l'avvio di attività
imprenditoriali.
Andrebbe comunque probabilmente inserita una norma di
salvaguardia, analoga alla lettera c) del comma 3
dell'articolo 1 della legge n. 127 del 1997, laddove si
prevede che i regolamenti di semplificazione delle norme sulla
documentazione amministrativa debbano "evitare che le misure
di semplificazione comportino oneri o ritardi dell'atto
amministrativo".
Per le imprese del settore che svolgono attività in forma
itinerante tutte le proposte prevedono un regime
autorizzatorio particolare, con la conseguente necessità che
le regioni fissino specifici criteri per l'individuazione dei
necessari requisiti di sicurezza ed igienico-sanitari che i
locali, gli impianti, e gli stessi mezzi di trasporto
utilizzati da questa specifica tipologia di imprese dovranno
avere, e ciò in conseguenza della particolarità di tale
modalità organizzativa.
Le proposte affrontano poi, sia pure in maniera diversa,
la problematica del contenzioso con l'utenza privata
riconfermando il valore degli usi e consuetudini depositati
presso le camere di commercio. Sul punto appare da valutare
con attenzione la proposta Volontè ove - in applicazione della
recente legge di riforma dei suddetti enti (legge n. 580 del
1993) - si prevede anche l'istituzione, in sede camerale, di
apposite commissioni arbitrali per la conciliazione di tali
controversie, generalmente di valore molto modesto. La
proposta Volontè prevede anche la partecipazione delle
associazioni di rappresentanza delle imprese e dei
consumatori, probabilmente con funzione di assistenza alle
parti.
Vengono poi definiti (articolo 2) alcuni requisiti di
qualificazione necessari per l'esercizio dell'attività.
Si individuano innanzitutto (comma 1) quali soggetti
debbano possederli, a registro della diversa natura giuridica
assunta dall'impresa (si distingue, cioè a seconda che si
tratti di imprese artigiane oppure industriali o di diversa
natura).
Relativamente alle imprese industriali si fa riferimento
all'ormai superato registro delle ditte, oggi sostituito dal
registro delle imprese, già previsto dal codice civile, ma
istituito, di fatto, solo a seguito del decreto del Presidente
della Repubblica 7 dicembre 1995, n. 581, attuativo
dell'articolo 8 della citata legge di riforma delle Camere di
commercio.
E si prevede che la qualificazione professionale debba
essere conseguita "dal titolare o dagli addetti, ..., preposti
a centri autonomi di esercizio dell'attività".
Per le imprese artigiane, invece, si opera una
differenziazione tra imprese individuali ed imprese
societarie.
Mentre nel primo caso l'obbligo di qualificazione farebbe
capo "al titolare" (in coerenza con la disposizione di cui al
quarto comma dell'articolo 2 della legge quadro del settore
legge n. 443 del 1985, secondo la quale "l'imprenditore
artigiano, nell'esercizio di particolari attività che
richiedono una peculiare preparazione ed implicano
responsabilità a tutela e garanzia degli utenti, deve essere
in possesso dei requisiti tecnico-professionali previsti dalle
leggi statali"), nel caso di società le proposte si
diversificano.
La proposta Mattioli prevede che la qualificazione debba
essere conseguita "da almeno uno dei soci", le altre due la
richiedono per la "maggioranza dei soci" (Molinari) o "per la
maggioranza dei soci partecipanti al processo di lavorazione
nelle imprese" (Volontari).
La questione non è di secondaria importanza, in quanto
mentre risulta corretta la impostazione in relazione alle
imprese individuali (alle quali andranno probabilmente
aggiunte anche le nuove S.r.l. unipersonali artigiane
introdotte dalla recente legge n. 133 del 1997, che ha
modificato la citata legge quadro per l'artigianato) la stessa
cosa non pare valere per la disposizione sulle società
artigiane. In quanto essa introdurrebbe
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una discriminazione, a sfavore dell'artigianato, rispetto
alle altre tipologie di impresa.
Discriminazione non giustificata dal tenore della norma
generale (per il settore) sopra citata, in quanto essa fa
riferimento all'imprenditore artigiano individuale, e non ci
pare possa automaticamente avere ricadute su tutti i soci di
tali imprese; e neanche su tutti quelli tra costoro che
partecipano lavoro.
Considerando poi che vi sono già altri esempi di normative
su settori specifici (il riferimento va alla legge n. 46 del
1990 relativa all'installazione di impianti, ed alla legge n.
122 del 1992, sull'attività di autoriparazione) le cui norme
hanno previsto requisiti professionali generali che si
applicano, anche nel caso di imprese artigiane societarie, ad
uno solo dei soci, parrebbe più opportuno ripercorrere una
simile impostazione. Prevedendo cioè che, quale che sia la
forma prescelta per esercitare l'impresa di tinto-lavanderia,
la necessaria qualificazione professionale debba essere
garantita da un soggetto per ogni sede ove vi sia lo
svolgimento dell'attività intesa sia come produzione del
servizio, sia come rapporto con il pubblico. Sarebbe, questa,
una soluzione più equa in grado di garantire un corretto
svolgimento di un'attività che comincia con la presa in
consegna dei capi da pulire e termina con la loro
riconsegna.
Le proposte proseguono individuando una serie di percorsi,
formativi o professionali, che si ritengono, alternativamente
in grado di fornire una qualificazione adeguata allo
svolgimento imprenditoriale dell'attività.
Come prima ipotesi viene indicata quella del conseguimento
di un attestato di qualifica ottenuto al termine della
partecipazione a corsi regionali di qualificazione
professionale. Tra le proposte vi sono alcune differenze in
relazione alla identificazione delle caratteristiche di tali
corsi (durata temporale ed in ore).
Considerando sia le esperienze già presenti in alcune
regioni, sia i periodo formativi a cui si fa riferimento nella
direttiva comunitaria in materia di diritto di stabilimento
(75/368/CE) la soluzione più consona appare quella presente
nella proposta Molinari che fa riferimento a corsi di durata
biennale di almeno 1.200 ore (ma viste le tematiche sulle
quali questi corsi dovrebbero fornire, anche a soggetti privi
di una qualsiasi competenza, forse si potrebbe prevedere una
maggior numero di ore.
Appare da verificare l'attualità del riferimento alla
legge 21 dicembre 1978, n. 845 (legge quadro sulla formazione
professionale) probabilmente superato con l'approvazione del
disegno di legge Treu.
Come pure va verificato il riferimento, presente nella
proposta Volontè, a "tirocini pratici" presso le imprese del
settore, e la possibilità di utilizzare a questi fini i
cosiddetti "tirocini formativi" di cui all'articolo 18 della
legge Treu (legge n. 24 giugno 1997, n. 196), di cui
dovrebbero essere in via di emanazione le disposizioni
applicative.
Si prevede inoltre che venga garantita una certa
omogeneità dei programmi e delle modalità di svolgimento dei
corsi attraverso la consultazione, da parte delle singole
Regioni, delle rappresentanze regionali delle imprese
appartenenti alle associazioni di categoria maggiormente
rappresentative a livello nazionale.
Vengono poi indicati quali titoli di qualificazione
(probabilmente per l'assenza di percorsi formativi specifici
per il settore nella scuola superiore) "titoli di studio a
carattere tecnico attinenti l'attività". Tali riferimenti
vanno intesi come rivolti a diplomi di maturità, tecnica o
professionale, o a diplomi di laurea, conseguiti in discipline
scientifiche o tecniche certamente non coincidenti con le
problematiche del settore, ma comunque in grado di fornire una
preparazione generale tecnica utile ai fini dell'espletamento
dell'attività.
Opportunamente si prevede infine che possa costituire
titolo di qualificazione anche la prestazione di attività
lavorativa qualificata in posizione subordinata, in forma di
collaborazione familiare (in una
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impresa artigiana) o in qualità di socio partecipante al
lavoro se svolta per un congruo periodo.
Anche in questo caso, rispetto alla durata minima, che
risulta differenziale nelle diverse proposte sembra
preferibile una soluzione che si attesti su di un minimo di
due anni di esperienza professionale qualificata, salvo
prevedere una riduzione qualora essa sia stata preceduta dallo
svolgimento del periodo, completo, di apprendistato previsto
dalla contrattazione collettiva; che effettivamente è da
riconoscere come esperienza formativa specifica qualificante,
anche se di per sé non sufficiente.
Le proposte fanno quindi riferimento ai cosiddetti
esercizi di raccolta e di recapito degli indumenti, presenti
in talune realtà, prevedendo che se appartenenti ad imprese
del settore essi debbano essere gestiti dallo stesso titolare
dell'impresa, da un socio o da un dipendente (che anch'essi
dovranno essere qualificati). Mentre si prevede che qualora si
tratti di recapiti che non siano sedi di imprese del settore,
occorre, comunque, che siano in grado di dimostrare di avere
un rapporto contrattuale, che viene qualificato
necessariamente come appalto (ma potrebbe benissimo avere
un'altra qualificazione giuridica - di somministrazione ad
esempio -), con imprese di tinto-lavanderia.
Il punto merita un approfondimento, sia per quanto sopra
rilevato relativamente alla qualificazione data al rapporto
contrattuale con l'impresa di tinto-lavanderia, sia in
considerazione del fatto che referente dell'esercizio di
recapito potrebbe essere anche una lavanderia cosiddetta
industriale, non rientrante nell'ambito di applicazione della
legge.
Se si adottasse, comunque, la soluzione indicata sopra ai
fini della individuazione dei soggetti che debbano garantire
la qualificazione professionale, secondo la quale occorrerebbe
la presenza di un soggetto qualificato per ogni sede ove
sussista rapporto con il pubblico, l'obiettivo della norma
potrebbe, forse, considerarsi già raggiunto, e la stessa
potrebbe essere espunta.
Le proposte prevedono, quindi, un regime sanzionatorio
(sanzioni amministrative) per l'esercizio dell'attività sia
nel caso di assenza dei requisiti di qualificazione, sia di
mancanza della prevista autorizzazione comunale (in tale
ipotesi vi è, tra le proposte, una differenziazione nella
determinazione dell'entità minima della sanzione).
Infine nelle proposte vengono inserite diverse norme
transitorie, tutte finalizzate a consentire alle imprese
preesistenti un passaggio non traumatico al nuovo regime.
La proposta Volontè prevede la sospensione
dell'applicazione delle norme in materia di qualificazione
professionale per un anno.
Tale previsione appare diretta a tutelare la posizione di
chi avesse intrapreso, legittimamente, l'attività in un
periodo anteriore, di almeno un anno, alla entrata in vigore
della nuova legge (chi l'avesse intrapresa prima, infatti, si
troverebbe, secondo tale proposta, per propria esperienza
professionale, già qualificato).
La proposta coglie, probabilmente, un'esigenza
condivisibile, ma difficilmente praticabile, in quanto non
appare sufficiente a tutelare le posizioni acquisite da chi
abbia avviato, anche attraverso investimenti di una certa
consistenza, l'attività, immediatamente prima del varo della
nuova legge. Né si può ritenere praticabile un ulteriore
allungamento del periodo, già lungo, di inapplicazione della
legge, che diverrebbe eccessivo.
Ritiene, però, possa e debba comunque prevedersi, con una
apposita disposizione, una salvaguardia per le suddette
ipotesi, al limite modificando opportunamente le disposizioni
(presenti nelle altre due proposte) dedicate alla fase di
prima applicazione della legge.
Un'ultima notazione riguarda la valutazione della
congruità dei requisiti d'accesso a questa attività definiti
con le proposte di legge in oggetto e gli analoghi requisiti
previsti dalla normativa comunitaria ai fini dell'attuazione
delle norme del Trattato che prevedono il diritto di
stabilimento. Il riferimento è alla direttiva
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del Consiglio del 16 giugno 1976 (75/368/CEE) citata nelle
relazioni alle proposte in esame, già recepita nel nostro
ordinamento con il decreto legislativo 23 novembre 1991, n.
391.
Sarebbe quantomeno da verificare la legittimità di una
così evidente differenziazione: infatti, mentre ai sensi
dell'articolo 6 del decreto legislativo 23 dicembre 1991, n.
391, essendo le attività in questione citate nella relativa
Tabella A, lettera m), si richiedono (anche per
l'esercizio di lavanderie, lavaggi a secco e tintorie)
precedenti esperienze nel settore - formativo o di lavoro -
aventi una durata minima di 6 anni, secondo le proposte in
esame sarebbero invece sufficienti, per i cittadini italiani,
analoghe esperienze di durata molto più breve (anche di soli
due anni).
Conclude rilevando che le proposte in esame pur nella loro
snellezza e con le differenze evidenziate paiono
complessivamente rispondere alle esigenze richiamate di
contribuire a determinare un quadro normativo nuovo e più
rispondente alle esigenze delle imprese del settore; ma anche
a più generali esigenze dell'apparato produttivo, di lotta
all'abusivismo, e, indirettamente, di tutela dell'ambiente e
della salute sui luoghi di lavoro.
Appare perciò, conseguentemente da valutare, anche in
considerazione dei consistenti mutamenti del quadro normativo
relativo agli obblighi ed agli oneri cui dette imprese sono
state sottoposte negli ultimi anni, e che si profilano
all'orizzonte, e visto che si tratta di imprese, per la
stragrande maggioranza, di piccole e piccolissime dimensioni,
se non sia possibile, prevedere oltre alle norme fin qui
esaminate, anche forme di supporto finanziario che ne possano
favorire processi di accorpamento aziendale e altresì
l'aggiornamento tecnologico e professionale; possibilmente
finalizzato all'adozione di strumenti e processi produttivi
sempre più sicuri, sia sul fronte dell'ambiente che della
sicurezza e della salute, oltre che dell'igiene.
Probabilmente, stante la rilevante ma non sterminata
dimensione del settore, specie laddove si intervenisse
attraverso strumenti, anche già esistenti, di garanzia o di
concorso al credito, si potrebbe, con un impiego di risorse
decisamente ridotto, ottenere risultati importanti, che
migliorerebbero anche l'ambiente in cui queste attività
operano, svolgendo un servizio utile per la collettività e
tutelerebbero i lavoratori del settore.
Ritiene opportuno proporre quindi la costituzione di un
Comitato ristretto, che possa rapidamente coordinare le tre
proposte di legge in un unico testo da sottoporre all'esame
della Commissione, e, se - come auspica - si dovessero
registrare ampie convergenze, eventualmente richiedere
l'assegnazione in sede legislativa.
Carlo CARLI, presidente, ritiene che non saranno
sollevate obiezioni alla istituzione di un Comitato ristretto.
Peraltro, per consentire il maggior numero di interventi in
sede di esame preliminare generale, ne rinvia il seguito ad
altra seduta.
La seduta termina alle 12,15.
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