| MARIO LANDOLFI. Signor Presidente, onorevole
rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, l'intervento
del relatore, onorevole Giulietti, ha rafforzato la nostra
convinzione: il Governo ha sbagliato a voler intervenire con
un decreto-legge in questioni che sarebbe stato più opportuno
affrontare con un disegno di legge.
Il relatore ha ricordato questioni importanti: il rapporto
tra l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e
l'Autorità garante della concorrenza e del mercato; il
decoder aperto; il limite del 60 per cento. Questi sono
tutti argomenti importanti, ma non possono essere oggetto di
discussione parlamentare in quanto inseriti in un
decreto-legge. L'urgenza ha fatto sì che, di fatto, argomenti
così importanti e delicati, nonché determinanti per lo
sviluppo dell'industria nazionale nel settore delle
telecomunicazioni, siano stati inseriti in un decreto-legge
concernente la proroga delle concessioni televisive e
radiofoniche, locali e nazionali.
Pochi Governi di paesi normali - tanto per usare una
terminologia cara al Presidente del Consiglio dei ministri -
avrebbero emanato un decreto-legge, pur rischiando di essere
censurati da chi è preposto alla tutela della Costituzione o
alla tutela dell'autonomia della volontà del Parlamento. In
Italia, invece, si spacciano per urgenti norme che tali non
sono: ciò è stato affermato anche dal Comitato per la
legislazione. Noi ci permettiamo, in modo sommesso e modesto,
di ricordare all'Assemblea che contestiamo la necessità e
l'urgenza in particolare dell'articolo 2 del decreto-legge al
nostro esame.
Nulla osta, invece, da parte nostra, per quanto riguarda
la questione relativa alle proroghe, di cui parleremo nel
corso dell'esame degli articoli del provvedimento. Ci sembra,
però, eccessivo considerare necessario ed urgente quanto
previsto dall'articolo 2 del provvedimento per quanto dirò in
seguito.
Onorevole Lauria, con l'articolo 2 viene inaugurata in
Italia, dal punto di vista legislativo, l'era del digitale
senza, però, poterne parlare perché dobbiamo fare in fretta
altrimenti scadono i termini per la conversione del
decreto-legge e non vi sarebbe la possibilità di prorogare le
concessioni.
Quando si parla di era del digitale, non si parla di un
qualcosa di astratto o che è noto solo a pochi iniziati, ma di
una questione molto seria che riguarda la convergenza
tecnologica. Si tratta di un qualcosa, cioè, che, per le
conseguenze che avrà, può essere paragonato alla
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rivoluzione industriale, visto che inciderà nel rapporto tra
cittadini e pubblica amministrazione, tra cittadini ed
istituzioni, nonché tra cittadini e politica: sarà un modo,
cioè, di rapportarsi alla politica attraverso un' agorà
telematica.
Si tratta, evidentemente, di una questione molto
importante di cui non possiamo parlare, però, perché inserita
in un decreto-legge. Una questione, cioè, che porta anche ad
un ampliamento delle frontiere del servizio pubblico
radiotelevisivo perché la RAI, con questa norma, entra nella
piattaforma digitale, in qualità di socio di minoranza, di un
gruppo che si avvia a diventare monopolista, per effetto di
questo decreto-legge, relativamente all'acquisto dei diritti
televisivi per le partite di calcio.
Vogliamo ricordare che il canone che pagano i cittadini in
virtù di un contratto di servizio servirà anche a finanziare
le nuove tecnologie? I cittadini andranno quindi a finanziare
anche il gruppo francese; diventeranno cioè soci di fatto
senza averne alcun diritto. Questi sono dunque argomenti dei
quali e sui quali il Parlamento si deve interrogare ed avere
la possibilità di esprimersi.
Cosa ha fatto invece il Governo? Mi viene in mente
un'immagine, quella dello "scafista" albanese; ebbene con tale
proroga il Governo ha preso, per così dire, in ostaggio le
emittenti nazionali e locali ed ha "imbarcato" nel decreto
anche la pay- TV per farla "sbarcare" clandestinamente.
E' stata questa l'azione del Governo! Noi ci chiediamo e
chiediamo: perché tanta fretta? L'onorevole Giulietti ha
cercato di dare una risposta a questo interrogativo, una
risposta che però non ci sembra convincente. Noi non diciamo
di rinviare una normativa sulla pay- TV, contestiamo però
che essa sia contenuta in un decreto. Avremmo potuto impiegare
il tempo necessario per l'esame del disegno di legge di
conversione di questo decreto per la trattazione di un
provvedimento di legge su questa materia. Lo si sarebbe potuto
fare anche senza lo strumento della "concertazione", apprezzo
tuttavia l'apertura fatta dall'onorevole Giulietti e lo
spirito con cui l'ha fatta.
Senatore Lauria, perché sulla legge istitutiva
dell'autorità di garanzia per le comunicazioni (la n. 249) ci
siamo confrontati, come maggioranza ed opposizione? Perché nel
varare la normativa n. 650, concernente la proroga delle
concessioni, ci siamo confrontati seppur aspramente? Perché
abbiamo fatto la stessa cosa con la legge con la n. 122? In
Italia, siamo arrivati all'inaugurazione del sistema digitale
e il Governo non solo non si confronta né parla con le
opposizioni, ma addirittura inserisce tutto in un decreto
legge; sembra quasi che voglia far passare queste cose,
diciamo pure, in cavalleria.
A mio avviso la risposta è contenuta proprio nella norma
che fissa il tetto del 60 per cento nell'acquisizione dei
diritti delle trasmissioni delle partite di calcio.
Abbiamo già avuto modo di ascoltare, in sede di
Commissione, dal sottosegretario Vita e dall'onorevole
Giulietti, la giustificazione, il fondamento di questo limite
del 60 per cento. Il Governo e la maggioranza dicono di aver
fissato tale tetto massimo per impedire che qualcuno diventi
monopolista in un settore così delicato, importante e che
promette una rapidissima evoluzione e quindi scenari futuri
forse anche completamente diversi da quelli a cui oggi noi
assistiamo.
Vorrei fare alcune obiezioni. La prima è che in nessuna
legislazione europea esiste questo limite. Vi sono tendenze in
atto, discussioni aperte, riflessioni, si faranno tavole
rotonde, verranno pubblicati dotti articoli sui giornali, ma
se dobbiamo guardare oggi alla legislazione europea, ebbene
l'Italia rappresenta un caso unico. Molte volte noi diciamo di
voler guardare all'Europa, per metterci al suo passo. Ebbene,
questa volta stiamo tentando di fare un passo che in Europa
nessuno ancora si è sognato di fare.
Vi sarà un motivo per il quale paesi come la Francia, la
Germania, l'Inghilterra,
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la Spagna e l'Olanda non hanno fissato un tetto
massimo che invece tra qualche giorno ci sarà in Italia?
La seconda obiezione è sul merito. La tesi del Governo
sarebbe in qualche modo condivisibile, potrebbe cioè anche
essere giusta se il mercato italiano fosse sgombro, vergine,
ma così non è. Abbiamo infatti già un operatore presente in
Italia, che è titolare in esclusiva, per l'anno in corso, dei
diritti riguardanti il campionato di calcio. Aggiungo che
questi ha già acquistato fino al 2006 (in virtù di una legge
vi sarà comunque una riduzione di tre anni) i diritti relativi
alle partite delle squadre più importanti quali Inter,
Juventus e Milan; nonché alle partite di importanti squadre a
livello regionale quali Bari, Venezia e Cagliari. Siamo forse
già oltre il 60 per cento previsto da questo decreto-legge.
Chi possiede conoscenze anche minime al riguardo, sa
perfettamente che la realizzazione di una piattaforma digitale
(strumento che serve a trasmettere un segnale in forma
codificata che deve essere poi ricevuto in forma decodificata)
non è uno scherzo. Dal punto di vista finanziario è un bagno
di sangue, prova ne sia quanto accaduto in Germania con un
magnate del calibro di Kirch.
Sappiamo che per realizzare una piattaforma digitale
occorrono centinaia e centinaia di miliardi che tornano, in
termini di investimento, dopo anni.
Ripercorriamo brevemente quanto accaduto negli ultimi
tempi. Siamo partiti da un emendamento presentato dal Governo
alla legge n. 249 che prevedeva la realizzazione di una
piattaforma digitale comune. E' intervenuta poi la Commissione
europea con Van Miert che ha evidenziato la necessità di due
piattaforme digitali perché, secondo le sue indicazioni, una
sola non tutela la concorrenza. Siamo, quindi, caduti
nell'ipocrisia poiché stiamo facendo finta di gettare le
premesse per realizzare una seconda piattaforma digitale. Ma,
con il pasticcio che stiamo combinando oggi con l'articolo 2
di questo decreto-legge, possiamo pure stare tranquilli perché
non ci sarà mai una seconda piattaforma digitale. Nessuno
sarà, infatti, così pazzo da investire centinaia di miliardi
per vedere giocare club di serie B o che non esercitano presso
i tifosi l' appeal che hanno le squadre che prima ho
citato.
Ecco perché ci troviamo di fronte ad un decreto-legge che
reca una norma ipocrita, così come è ipocrita il fatto che si
sia ridotta, per le ragioni che esponevo prima, la durata dei
contratti a tre anni, in situazioni come quella italiana in
cui è presente un solo operatore. Vi è, quindi, l'ammissione
della presenza di un solo operatore nel mercato della
pay- TV in Italia attraverso la riduzione a tre anni dei
contratti già stipulati.
Tralascio di citare alcuni fatti che pure sono accaduti, a
sostegno di questa mia tesi. Comunque, il travaglio che ha
accompagnato questo decreto-legge, le voci che si sono
inseguite circa le pressioni, per carità, legittime (in
America le lobby sono addirittura iscritte in un
apposito albo), dimostrano che vi è stata una concertazione
extraparlamentare, sicuramente non con le opposizioni.
Il quotidiano Roma il 3 febbraio scorso ha
pubblicato, senza essere mai smentito, i tre testi
dell'articolo 2 sfornati in pochissime ore da palazzo Chigi.
Evidentemente non si è giocato con le opposizioni, ma con le
lobby si è fatta una partita notturna in differita senza
spettatori.
In un'intervista a Pierre Lescure - che il Governo ha
dovuto fronteggiare chiedendo ed ottenendo, in qualche modo,
una rettifica - il presidente del colosso francese rivendicava
al proprio gruppo il merito di aver scoraggiato l'ingresso di
Murdoch in Italia. Non ci interessa nulla dei soggetti, siano
essi Canal Plus o Murdoch. Il problema è quello di realizzare
le condizioni per fare in modo che in Italia vi sia, al passo
con gli altri paesi europei, la possibilità di una concorrenza
libera, seria e severa che, alla fine, deve tutelare il
consumatore. O entriamo realmente in una logica di mercato che
serve soprattutto al cittadino utente e consumatore, o creiamo
nicchie di privilegio così come stiamo facendo. Quando,
infatti, si
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determinano per legge parametri e tetti prima o, meglio,
falsamente prima, quando si è già in presenza di un operatore,
si approva una norma che ingessa, immobilizza e crea nicchie
di privilegio. Tutto questo va a discapito di una competizione
seria, dura, anche spietata, come è giusto vi sia in un paese
che si regge su certi principi.
Non è però solo questo il problema che ci induce a
ritenere quella proposta (parlo limitatamente all'articolo 2)
una soluzione pasticciata. Un altro punto già affrontato nella
VII Commissione, a cui peraltro ha fatto riferimento nel suo
intervento l'onorevole Giulietti, riguarda il rapporto tra
l'autorità per le garanzie nelle comunicazioni, la cosiddetta
authority, e l'antitrust. Questo, a nostro avviso, è un
fatto importantissimo.
Il Governo nella stesura originaria aveva previsto che
fosse l'autorità per le garanzie nelle comunicazioni, sentita
l'antitrust, a valutare la possibilità di deroga rispetto al
tetto del 60 per cento o, addirittura, a stabilirne di nuovi.
Al Senato, però, vi è stato un ribaltone normativo, per cui
adesso è l'antitrust a svolgere questa funzione, sentita
l'autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Ebbene, il
fatto che l'autorità sia stata ridotta ad un mero organo
consultivo, che sia stata sostanzialmente commissariata, ci
induce a ritenere che questo ribaltone normativo del Senato
abbia prodotto un'autentica rottura del sistema delineato
dalla legge n. 249 del 1997.
Noi tutti siamo stati in qualche modo protagonisti di
quella legge. L'autorità - si diceva - deve accompagnare il
processo di liberalizzazione delle telecomunicazioni. Si
tratta di un atto fondamentale, necessario. Non si può
procedere alla liberalizzazione delle telecomunicazioni se non
ci dotiamo, al pari degli altri paesi europei, di un'autorità
che deve effettuare una promozione e, soprattutto,
vigilare.
A sostegno della mia tesi in ordine alla rottura del
sistema delineato dalla legge n. 249 voglio citare alcuni
commi dell'articolo 2 di quella legge. Ciò per evidenziare
come la modifica introdotta dal Senato sia stata dannosa. "I
poteri di deroga sono attribuiti all'autorità per le
telecomunicazioni nel settore radiofonico in materia di
maggiore quota di raccolta delle risorse economiche da parte
di un singolo soggetto, mentre con riguardo al settore
dell'emittenza televisiva via cavo o via satellite la stessa
autorità" - cito testualmente - "determina un periodo
transitorio nel quale non vengono applicati limiti di
concentrazione delle relative risorse". Siamo cioè in presenza
di un potere di deroga del tutto omogeneo a quello che prevede
l'articolo 2 del decreto in esame. Non si capisce quindi
perché la legge n. 249 attribuisca queste competenze
all'autorità di garanzia, mentre il decreto le trasferisce
all'autorità antitrust.
"Inoltre, all'autorità per le telecomunicazioni sono
attribuite specifiche competenze di vigilanza e di promozione
dei mercati del settore", come dimostra - è proprio il nostro
caso - la previsione del potere di intervento, anche
repressivo, volto a garantire l'osservanza dei principi di
trasparenza, di concorrenza e di non discriminazione nella
costituzione e gestione della piattaforma per trasmissioni
digitali via satellite e via cavo. Questo prevede
l'emendamento presentato dal Governo alla legge n. 249, che
oggi lo stesso Governo disattende in maniera plateale, perché
ha rinnegato quello che aveva sostenuto nel varare la legge n.
249.
Peraltro, non serve obiettare che la deroga al limite di
concentrazione dei diritti di trasmissione in questione
dovrebbe essere di competenza dell'antitrust, perché riferita
ai parametri della concorrenza, poiché in situazioni
determinate - prima abbiamo ricordato quelle previste dai
commi dell'articolo 2 e quella oggi alla nostra attenzione -
la tutela della concorrenza è specificatamente funzionale alla
tutela del pluralismo. Il legislatore, cioè, non si è
preoccupato dei diritti televisivi in se stessi, ma della
idoneità dello sfruttamento di tali diritti a generare
audience e a "fidelizzare" il pubblico. Ciò è
strettamente correlato alla raccolta delle risorse
pubblicitarie; quindi, la questione
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è più complessa rispetto a come la si è voluta presentare
dopo l'approvazione dell'emendamento al Senato.
Sul piano dei principi, la tutela del pluralismo è
attività tipica ed esclusiva dell'autorità per le garanzie
nelle comunicazioni, che è stata istituita, oltre che per
accompagnare il processo di liberalizzazione delle
telecomunicazioni, anche per dare seguito e corpo alla
giurisprudenza costituzionale in materia di tutela dei valori
fondamentali dei cittadini in rapporto all'informazione.
In definitiva, il combinato disposto dei due pasticci (il
60 per cento e il rapporto tra l'autorità per le garanzie
nelle comunicazioni e l'autorità antitrust) ci induce a
ritenere che anche in quest'occasione il Governo stia
percorrendo strade vecchie: quelle della contraddizione
legislativa, delle proroghe e della fotografia dello stato di
fatto. Il tutto, però, in un contesto continentale e
planetario completamente diverso. Infatti, la legge Mammì,
fotografando la situazione di fatto esistente, poteva avere un
senso: si rimaneva nella nicchia circoscritta del mercato
nazionale e, negli anni ottanta, la crescita era legata alla
pubblicità, perché le imprese investivano e, quindi,
l'espansione delle televisioni, soprattutto commerciali, era
dovuta a un fatto congiunturale. Oggi, invece, ci troviamo di
fronte ad una rivoluzione, perché il dato esistente deriva
dalla convergenza tecnologica; si tratta, pertanto, di un
problema di politica industriale, di scelte e strategie
industriali.
Per tali ragioni, sottosegretario Lauria, non ci piace
questo modo di approvare le leggi, che mortifica il
Parlamento, il confronto, la possibilità di offrire
contributi.
Troppe volte e per troppo tempo, lo dico con molta
pacatezza - a mio avviso si tratta di una colpa storica della
sinistra -, in questo settore la politica ha dato prova di
ostilità verso le imprese nazionali private. Cito per tutte
l'intervista al sottosegretario Vita pubblicata oggi su
l'Unità, nel corso della quale riecheggiano certi temi:
un'impresa nazionale si affaccia in maniera forte in Europa e
il Governo fa raccomandazioni, pone condizioni, prescrizioni e
paletti.
A mio avviso, tutto ciò non serve a potenziare e a rendere
più libera e forte sul mercato europeo l'impresa nazionale.
Penso che con il provvedimento in esame stiamo ripercorrendo
la stessa strada al contrario: prima si era adottata una
logica punitiva, oggi ci troviamo di fronte ad una logica
criminale.
Sottosegretario Lauria, le leggi non si approvano né a
favore né contro qualcuno, ma per accompagnare i processi, in
qualche modo per guidarli, mai per subirli.
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