| Onorevoli Colleghi! - Numerose vicende giudiziarie di
questi ultimi anni, tra loro differenti e varie nei contenuti
e nei significati, evidenziano la necessità di una profonda
riflessione e di un ridisegno complessivo della materia della
prescrizione del reato e della pena.
Da episodio eccezionale, come era stata concepita alle
origini, la prescrizione del reato nel processo penale si è
via via trasformata in conclusione normale, o almeno diffusa;
questo soprattutto per alcuni tipi di reato. Per reati quali
contravvenzioni e delitti di limitata gravità, l'imputato che
percorre tutti i gradi di giurisdizione, sa che la probabilità
di estinzione per decorso del tempo è elevatissima.
Non vi è dubbio circa la negatività di ciò principalmente
per alcune ragioni prevedibili e collegate tra loro in un
sorta di circolo vizioso:
a) il processo non viene ovviamente alleggerito da
un ampio ricorso ai riti alternativi; sicuramente la
prospettiva della prescrizione del reato e della pena è più
allettante dello "sconto" di pena connesso ai citati riti
alternativi;
b) la diretta conseguenza di questo è un
intasamento del dibattimento e l'allungamento a dismisura dei
tempi sortisce l'infelice effetto di rendere ancora più
fondata la "speranza" di prescrizione.
Come se non bastassero questi effetti già gravi vi sono
altri risvolti e scenari a dir poco preoccupanti; basti
pensare all'azzeramento dei risultati ed al grave danno nel
campo di materie di competenza pretorile di notevole rilevanza
sociale (edilizia, urbanistica, inquinamento, sicurezza ed
igiene del lavoro, tutela del consumatore, eccetera).
E che dire poi del principio di uguaglianza! Il
"beneficio" della quasi certa prescrizione favorisce
essenzialmente alcuni imputati rispetto ad altri. Difatti è
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evidente l'alterazione di fatto del principio di uguaglianza,
visto che solo imputati facoltosi possono permettersi di
esperire tutti i gradi del processo con le risorse di una
difesa agguerrita, fruendo così di un vantaggio precluso ad
altri.
Per quanto riguarda la prescrizione della pena, va
sottolineato il fatto che la disciplina vigente consente
l'esecuzione della stessa ad una distanza di tempo anche
elevatissima dal fatto per cui è stata emessa la condanna.
Questo produce l'effetto di assoggettare all'espiazione
persone che possono essere anche mutate, maturate e divenute
diverse dal lontano momento in cui commisero il reato. Lo
smisurato intervallo tra il reato e l'espiazione è dovuto al
fatto che al termine necessario a prescrivere il reato (un
massimo teorico di trent'anni) si somma un tempo ulteriore
(anch'esso esteso sino a trent'anni). Laddove tra l'epoca del
reato e la sanzione si inserisce un periodo di tempo
lunghissimo - quasi una vita - appare comprensibile che la
funzione rieducativa della pena, sancita dall'articolo 27
della Costituzione, risulta quantomeno problematica e
difficoltosa, se non compromessa.
Per le considerazioni sopra esposte, seppure illustrate
brevemente, si rende pertanto necessaria una profonda
rimeditazione sugli istituti della prescrizione del reato e
della pena.
Sulla prescrizione del reato vanno fatte doverosamente
alcune considerazioni in merito alla disciplina vigente:
1) il tempo necessario a far maturare la prescrizione è
scaglionato in misura proporzionale alla gravità del reato e
le varie misure temporali stanno ad indicare che il
procedimento deve iniziare prima che esse siano interamente
decorse;
2) è prevista una serie di atti che hanno la funzione di
interrompere la prescrizione facendola decorrere ex
novo;
3) lo scorrimento del termine finale dovuto agli atti
interruttivi incontra comunque un limite rigoroso, nel senso
che tale termine, per quanti siano gli atti interruttivi, non
può mai eccedere la metà del termine base.
Questi tre fattori generano non pochi problemi e si
prestano a svariate obiezioni.
Il meccanismo progressivo secondo cui è determinato il
termine di base comporta un tempo persino eccessivo per i
reati più gravi mentre per i reati meno gravi questo tempo è
sicuramente insufficiente. Inoltre il fatto che lo slittamento
dei termini, per effetto degli atti interruttivi, sia limitato
al 50 per cento del termine di base penalizza ingiustamente
l'esercizio dell'azione penale, anche quando questa si
manifesta attraverso una serrata attività processuale. Può
accadere, infatti, che la polizia o l'autorità giudiziaria
vengano a conoscenza del reato dopo un certo lasso di tempo.
Considerato quindi che già incolpevolmente è stato consumato
gran parte del termine di base e poiché il "tetto" della metà
(coniugato ad un sistema nel quale le impugnazioni sono
universali) impedisce di arrivare al giudicato in tempo utile
l'impegno dello Stato risulta essere purtroppo inefficace.
Questo fenomeno è esasperato nei reati contravvenzionali
laddove la dilatazione è così contenuta (dodici o diciotto
mesi) da rendere praticamente impossibile la conclusione del
processo dentro il termine massimo.
Il termine di base ampio, ma ristretto quanto
all'estensione per effetto di atti interruttivi, è un fattore
che può addirittura incentivare i vari soggetti processuali ad
interpretare malamente i rispettivi ruoli. In altri termini:
da un lato la disciplina vigente potrebbe anche tendere a
deresponsabilizzare l'autorità giudiziaria, nel senso che chi
gestisce il primo segmento processuale potrebbe sentirsi per
così dire "abilitato" a scaricare in quello successivo il
rischio di prescrizione; dall'altro si incoraggiano le
impugnazioni, anche pretestuose, che non tendono a correggere
l'errore della prima sentenza, ancorché corretta, bensì
divengono strumento per vanificarne gli effetti.
Le proposte per una nuova disciplina riguardante la
materia della prescrizione del reato e della pena non sono
certo una novità; sulle possibili soluzioni propugnate vanno
fatte alcune considerazioni.
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Un puro e semplice allungamento o dilatazione dei termini,
quanto meno a proposito delle contravvenzioni e dei delitti
meno gravi, finirebbe con l'essere assorbito dalla cronica
lunghezza dei processi, senza benefìci strutturali.
All'idea di sterilizzare la prescrizione dopo la sentenza
di primo grado, impedendone la declaratoria, si può replicare
osservando che non si possono lasciare i giudizi di
impugnazione sciolti da qualsiasi vincolo temporale mentre un
allungamento considerevole dei termini nei gradi successivi al
primo presenterebbe profili punitivi per l'esercizio del
diritto di impugnazione.
Risulta quindi preferibile optare per un tipo di riforma
che si limiti a disciplinare la prescrizione penale sulla
falsariga di quella operante da decenni in campo civile, con i
dovuti correttivi che ovviamente esige il processo penale. Ad
esempio la ripresa del termine di prescrizione, alla sola
condizione che l'atto interruttivo intervenga nell'arco del
termine di base, porterebbe ad una dilatazione eccessiva.
Sinteticamente, la materia in campo civile prevede che, in
base agli articoli 2934, 2943 e 2945 del codice civile, i
diritti si prescrivono in un certo tempo, determinato dalla
legge. Vengono elencati atti aventi efficacia interruttiva.
Per effetto dell'atto interruttivo inizia un nuovo termine di
prescrizione, senza tetto complessivo. Ovviamente il legame
temporale tra un atto interruttivo ed il seguente è dato
appunto dal termine necessario a prescrivere.
Per quanto riguarda il processo penale si può configurare
una quantità tempo-base ragguagliata alla gravità del reato e
si possono altresì configurare una serie di atti idonei ad
interrompere la prescrizione. Si può infine stabilire che lo
"sforamento" del termine di base non sia delimitato da una
misura fissa (cioè la metà del medesimo) ma dalla pretesa che
gli atti interruttivi si leghino gli uni agli altri in
sequenza ravvicinata, che rilevi l'effettivo dispiegarsi della
pretesa punitiva senza ritardi e negligenze.
Rimane comunque invalicabile la necessità di continuare a
definire un termine massimo in tutti i casi poiché il processo
penale non può avere mai una durata astrattamente indefinita.
Questo termine massimo può essere individuato in quello più
ampio di tutti, in base al meccanismo principale (cioè il
termine di quindici anni maggiorato del 50 per cento).
All'interno di questo, invece, la garanzia del "tempo
ragionevole" entro il quale il processo si deve concludere è
collocata nei termini intermedi, combinati con la successione
ravvicinata degli atti interruttivi che ne giustificano la
dilatazione.
Quanto al legame temporale che deve connettere i vari atti
interruttivi, nodo oltremodo difficoltoso, la formula più
semplice, cioè quella di stabilire una misura di tempo (ad
esempio un anno) entro la quale deve essere compiuto ciascuno
di essi dopo il primo (che ovviamente deve collocarsi
all'interno del termine base) sarebbe una soluzione troppo
rigida e inadeguata per difetto e per eccesso.
Appare opportuno, quindi, ridisegnare il sistema di
connessione dei vari atti interruttivi come segue: all'interno
del termine di base (semplificato in quattro fasce di
quindici, dieci, cinque e tre anni) la disciplina non muta
rispetto a quella vigente, e gli atti interruttivi continuano
a produrre l'effetto di fare ridecorrere il termine (articolo
160 del codice penale). Una volta varcato questo termine esso
continua a spostarsi in avanti solamente se gli atti
interruttivi intervengono entro una determinata cornice,
modellata su quanto già il codice prescrive; gli atti di
indagine preliminare devono susseguirsi entro due anni
(ex articoli 405, 406 e 407 del codice di procedura
penale). La sentenza dibattimentale deve essere pronunciata
entro due anni dal provvedimento che dispone il giudizio
(articoli 303 e 304 del codice di procedura penale); gli altri
atti interruttivi, diversi dai precedenti, devono succedersi
ad intervalli non maggiori di un anno. In tale modo si
conciliano e si perseguono i due obiettivi fondamentali: è
rispettata l'aspettativa dell'imputato, a non patire una
indefinita soggezione processuale; è tutelata l'esigenza che
l'attività giudiziaria inizi entro un tempo definito (che per
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i delitti più gravi è più breve di quello attuale), e comunque
si snodi senza ritardi tra un atto saliente ed il successivo.
Unitamente a questo, lo scorrimento del termine, in
conseguenza di una reale e tempestiva concatenazione degli
atti espressivi della volontà di attivarsi, salva
l'aspettativa dello Stato a non vedere vanificata la propria
pretesa punitiva allorché esso è operoso.
Unitamente a queste modifiche innovative, il provvedimento
di riforma intende considerare anche un fenomeno distorsivo
che si verifica oggi di frequente. Il secondo comma
dell'articolo 157 del codice penale prevede che "per
determinare il tempo necessario a prescrivere sia ha riguardo
al massimo della pena stabilito dalla legge per il reato (...)
tenuto conto (...) della diminuzione minima stabilita per le
circostanze attenuanti". Questo sta a significare che la
misura dell'aspettativa di prescrizione può ridursi
sensibilmente quando, nella sentenza di condanna, vengano
concesse delle attenuanti non oggettivamente legate alla
qualificazione iniziale. A questo proposito sono tipiche, ma
non solo queste, le attenuanti generiche, la cui introduzione
nel codice penale non a caso è successiva al varo del medesimo
ed alla sua sistematica. Inoltre questo si verifica a maggior
ragione con il meccanismo del bilanciamento tra circostanze
nella forma amplissima sancita dal decreto-legge 11 aprile
1974, n. 99, convertito, con modificazioni, dalla legge 7
giugno 1974, n. 220, cioè quando, in quanto successivo, le
attenuanti, già dichiarate equivalenti alle aggravanti, siano
ritenute prevalenti sulle stesse. Ovviamente questo fenomeno
dimezza, in modo per così dire imprevedibile, i tempi della
prescrizione per effetto di valutazioni estranee alla
struttura del reato e lega la prescrizione a valutazioni
discrezionali del giudice, che finiscono con l'operare
retroattivamente.
Si ritiene, inoltre, che il "tempo ragionevole", di cui
parla l'articolo 6, primo comma, della Convenzione europea per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali del 1950, resa esecutiva in Italia con legge 4
agosto 1955, n. 848, deve essere salvaguardato e considerato
anche come tempo sul quale si possa fare ragionevolmente
affidamento; in questo modo l'attività giudiziaria, compiuta
sulla base di un'aspettativa di legge, non viene vanificata a
posteriori dalla dichiarazione di circostanze non valutabili
né prevedibili nel momento in cui gli atti processuali sono
compiuti.
Va ricordato a proposito di queste considerazioni che
l'articolo 157, secondo comma, del codice penale, è stato
recentemente denunciato alla Corte costituzionale per
violazione dell'articolo 112 della Costituzione.
Concludendo, appare pertanto indispensabile intervenire su
tale norma, aggiungendo al termine del secondo comma del
citato articolo 157 una disposizione che neutralizzi gli
effetti sulla prescrizione conseguenti all'applicazione di
circostanze soggettive, che non siano obiettivamente
valutabili all'atto del rinvio a giudizio.
Coerentemente con quanto enunciato la prescrizione della
pena può modellarsi nel seguente modo partendo dal sistema
delineato dall'articolo 172 del codice penale:
a) la pena della reclusione si prescrive in un
tempo proporzionale alla sua entità (il doppio della pena
inflitta);
b) sono comunque previsti un minimo (dieci anni) e
un massimo (trenta anni), oltreché una misura fissa per
l'arresto e per le pene pecuniarie (cinque o dieci anni);
c) questo termine decorre dal giorno in cui la
condanna è divenuta irrevocabile;
d) è prevista una causa di interruzione del
termine, per il caso che il condannato si sottragga
all'esecuzione della pena, ma solo nel caso in cui la stessa
sia già iniziata.
Vanno inoltre considerate alcune questioni.
Occorre sancire l'interruzione e la ripresa del termine
ogni qual volta il condannato si sottragga, sia prima sia dopo
l'inizio dell'esecuzione; ed altresì quando intervenga un
rinvio dell'esecuzione per cause processuali o per le ragioni
di cui agli articoli 146 e 147 del codice penale. Mentre una
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volta che la sentenza sia passata in giudicato, non v'è motivo
per prevedere un lungo termine di prescrizione della pena in
generale. Fatto questo, è illogico prevedere un termine
massimo di trenta anni, che possono cumularsi ad altrettanti
come termine di prescrizione del reato. Più corretto appare
ancorare il termine al passaggio in giudicato della sentenza
(come già ora accade), ma anche al fatto-reato, per non dare
luogo ad un'espiazione di pena che intervenga su una persona
grandemente diversa da quella che ha commesso il reato.
A questo proposito si ritiene di:
a) mantenere, in linea generale, il ragguaglio tra
il tempo necessario per prescrivere e l'entità della pena
inflitta (il doppio come attualmente). In questo modo la
"presunzione di interesse all'esecuzione" cresce con il
crescere della sanzione inflitta;
b) mantenere la presenza di un termine minimo e
massimo, ma diversamente modellati. Il termine minimo può
essere ridotto da dieci a cinque anni, ampiamente sufficienti
per la messa in esecuzione, quando non vi siano fatti ostativi
<per i quali si provvede come indicato nella lettera
d)>. Il termine massimo, anch'esso necessario affinché
si ponga un limite alla soggezione, deve essere individuato
con riferimento non solo al giudicato, bensì anche al reato
commesso. Ciò significa che, quale che sia l'entità della pena
inflitta, e quale che sia il tempo richiesto per celebrare il
processo, l'esecuzione non può avere inizio dopo un certo
intervallo dal fatto;
c) continuare, in linea generale, a far decorrere
il termine dal momento in cui la sentenza di condanna diviene
irrevocabile, salvo un aggancio invalicabile con il fatto;
d) bilanciare la riduzione del termine con un
sistema di cause di sospensione o di interruzione, ogni qual
volta l'esecuzione non possa di fatto avere luogo. Questo
accade tipicamente quando il condannato si sottrae
volontariamente all'esecuzione, durante la stessa (come già
oggi è previsto), o anche prima del suo inizio. Questo
correttivo è evidentemente necessario per non favorire il
callido ostruzionismo.
Accanto a questa situazione, per altro, si deve
considerare anche il rinvio dell'esecuzione ai sensi degli
articoli 146 e 147 del codice penale; la sospensione per
infermità psichica sopravvenuta (articolo 148 del codice
penale), o per ragioni processuali (articolo 666, comma 7, del
codice di procedura penale), o per qualsiasi causa.
Quanto allo specifico istituto applicabile, mentre la
norma vigente non definisce il meccanismo limitandosi ad
ancorare il dies a quo alla condotta del condannato,
sembra doversi ravvisare una causa di sospensione, poiché si
tratta non di attività giudiziarie dimostrative di una volontà
(sì che il termine debba ricominciare a decorrere), ma di
situazioni di fatto impeditive o neutralizzative della
pretesa.
In coerenza con quanto stabilito in tema di prescrizione
del reato, occorre individuare un termine massimo di
prescrizione della pena che sia il meno possibile lontano dal
fatto-reato e consentire preliminarmente che il processo si
concluda nel tempo massimo che la legge gli ha assegnato. E'
del tutto illogico, infatti, che esso possa svolgersi in
funzione della (eventuale) irrogazione di una pena che non
potrebbe essere applicata poiché prescritta. Dunque, la
prescrizione della pena non potrà maturare prima dei ventidue
anni e sei mesi che costituiscono il termine più lungo
previsto per la prescrizione del reato, e dovrà collocarsi al
di là del citato termine di una misura sufficiente alla messa
ad esecuzione. Tuttavia, se si vuole essere rispettosi della
premessa di ordine costituzionale, il termine di prescrizione
della pena dovrà valicare il meno possibile il termine massimo
di prescrizione del reato.
Considerando quindi un "tempo tecnico" contenuto per la
messa in esecuzione della condanna (e considerando che gli
eventuali impedimenti sono neutralizzati dalle cause di
sospensione), si può stimare in sei mesi questo additivo
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procedurale (ovviamente solo nella situazione estrema in cui
il processo abbia consumato l'intero termine di prescrizione
del reato), e di riflesso configurare un tempo totale di
ventitré anni, al di là del quale la pena è comunque
prescritta.
Tre proposizioni scalari scandiscono quindi l'architettura
complessiva della presente proposta di legge:
1) il tempo di prescrizione della pena rimane
ordinariamente legato al suo multiplo tipico cioè il doppio
della quantità irrogata;
2) esso si comprime progressivamente, nei valori alti,
proporzionalmente al tempo impiegato per la celebrazione del
processo e salvaguardando sempre il minimo (cinque anni),
almeno sino a che la conclusione del processo avvenga entro il
ragguardevole termine di diciotto anni; ciò offre una
sufficiente tutela all'esigenza di mettere ad esecuzione
qualsiasi pena, tenuto conto che ogni termine viene tutelato
dai meccanismi di sospensione contro eventuali comportamenti
elusivi del condannato o altri impedimenti;
3) solo nel caso in cui il tempo richiesto per giungere
alla condanna definitiva superi anche la soglia dei diciotto
anni (ipotesi piuttosto eccezionale), anche il termine minimo
viene progressivamente sacrificato, e tuttavia non mai al di
sotto di sei mesi, che è misura comunque sufficiente per la
messa ad esecuzione, se non vi è dolosa sottrazione o altro
ostacolo.
Per quanto riguarda il regime transitorio si fa
riferimento ai princìpi generali non ritenendosi necessaria
una apposita normativa.
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