| Onorevoli Colleghi! - Sono note le gravi difficoltà per
la ripresa del dialogo costituente a seguito dell'interruzione
del processo riformatore avviato, in questa legislatura, dalla
Commissione bicamerale per le riforme costituzionali.
Non è questa la sede per l'analisi, che pure andrà
compiutamente fatta, sui costi per il Paese della rottura di
quel processo, sia per la mancata costruzione organica delle
regole della casa comune sia per i ritardi accumulati a fronte
dell'urgenza di alcune specifiche riforme, già delineate e
sulle quali si era formato in Parlamento e nell'opinione
pubblica un largo consenso.
E' tempo comunque di agire positivamente affinché proprio
sugli aspetti più condivisi del disegno riformatore, emerso
dai lavori della Commissione bicamerale, non si attenda
ulteriormente, ma si proceda invece in modo rapido ed incisivo
per rispondere alle esigenze del Paese. Tra di essi assume
rilevanza la scelta dell'elezione diretta del Presidente della
Repubblica. Si tratta della innovazione istituzionale di più
immediata rispondenza alle aspettative popolari e maggiormente
compresa, nella sua finalità, dall'opinione pubblica durante
il percorso riformatore.
A questa scelta, qualche critico ha riproposto una prima
obiezione pregiudiziale, una censura basata su motivi
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contingenti, legati alla maggioranza con la quale si pervenne
alla votazione in Commissione bicamerale dell'elezione diretta
del Presidente della Repubblica, a causa dell'improvviso
cambiamento di posizione e della incursione della Lega nord,
fino a quel momento rimasta estranea ai lavori della
Commissione.
A ben vedere, però, senza bisogno di tornare all'Assemblea
costituente, alle proposte di Calamandrei e di Tosato, fino
agli anni '80, per respingere questa obiezione è sufficiente
segnalare che, sia durante il tentativo di realizzare un
governo da parte di Antonio Maccanico sia negli stessi
programmi elettorali per le elezioni politiche del 1996, a
cominciare da quello dell'Ulivo, l'elezione diretta del
Presidente della Repubblica è sempre stata proposta come uno
dei punti di snodo più significativi di un nuovo rapporto tra
cittadini ed istituzioni e dentro le istituzioni stesse.
L'obiezione si rivela perciò, ad un attento esame, alquanto
superficiale e scarsamente fondata. Anche una soluzione che
emerge in modo apparentemente inaspettato e confuso può ciò
nonostante essere sorretta da solide motivazioni e affondare
le sue radici in una profonda e meditata valutazione, che
tiene conto del nostro sistema politico e della sua possibile
evoluzione. I dispositivi costituzionali, sanciti nella Carta,
le prassi e le convenzioni che di fatto si creano nelle
relazioni fra i poteri, il sistema elettorale prescelto per la
rappresentanza e il governo concorrono, infatti, a delineare
quella Costituzione materiale che modella, al di là
dell'astrattezza delle norme e delle volontà e aspirazioni dei
costituenti e dei revisori costituzionali, l'ordinamento
statuale e le forme che assume la sua democrazia. Perciò
occorre rivisitare anche il procedimento di elezione indiretta
del Presidente della Repubblica alla luce del sistema politico
nel quale esso si colloca. Orbene la permanente debolezza del
bipolarismo italiano, tuttora frantumato in una complessa
molteplicità di partiti e di movimenti e rappresentanze
parlamentari, sollecita ancora a ritenere la ragionevole
previsione di conservazione e, per certi versi, di
accentuazione, nel sistema, delle denunciate prassi di
mercanteggiamento e di machiavellismo che contraddistinguono
il procedimento dell'elezione indiretta del Capo dello Stato.
Inoltre, la possibile e auspicabile futura ristrutturazione
del sistema politico italiano nel senso della bipolarizzazione
in coalizioni più compatte e coese prospetta, d'altra parte,
il pericolo di una totalizzante occupazione di tutte le
cariche, anche quelle a potere prevalente di controllo e di
garanzia, ad opera della maggioranza di governo.
La previsione di maggioranze qualificate per l'elezione
parlamentare del Presidente nei primi tre scrutini, voluta
allo scopo di conferire al Capo dello Stato maggiore
rappresentatività e prestigio per le sue funzioni super
partes, adottata dai costituenti come soluzione idonea a
risolvere e sanare il dissidio insorto fra i propugnatori
dell'elezione popolare a suffragio universale e diretto e i
sostenitori dell'elezione parlamentare, non ha prodotto, come
è noto, i risultati sperati. I numerosi scrutini, in cui nelle
elezioni presidenziali, in epoche di accentuati conflitti
politici, si logora il Parlamento nel suo rapporto di fiducia
con il popolo, hanno reso del tutto inutile lo strumento della
maggioranza rafforzata programmato dai costituenti. Di modo
che il procedimento di elezione parlamentare non appare
adeguatamente consono a sorreggere il ruolo e la funzione del
Presidente della Repubblica come Capo dello Stato,
rappresentante dell'unità nazionale, arbitro super
partes della dialettica politica, custode e garante della
Costituzione.
Più argomentata si presenta una seconda critica
pregiudiziale, quella che nega legittimità a questa soluzione
sulla base delle asserite caratteristiche speciali,
emergenziali della nostra democrazia, che non tollererebbe,
per questa natura, forme dirette di scelta popolare della
suprema carica della Repubblica. E tuttavia, una lettura più
aperta della storia politica del nostro Paese rivela la
fragilità di questa osservazione. Il 18 aprile 1993 il corpo
elettorale a larga maggioranza ha decretato con il
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referendum sul Senato della Repubblica il passaggio da
un modello proporzionale di formazione della rappresentanza
politica ad un sistema a dominante maggioritaria. La volontà
popolare ha quindi chiuso il periodo storico in cui, a causa
delle gravi fratture ideologiche legate alla divisione
internazionale dei blocchi ideologici, il nostro sistema si
svolgeva secondo una logica vetero-parlamentare con una delega
piena dei cittadini ai rispettivi partiti per la formazione
dei governi e delle principali divisioni politiche. Da allora
il ricorso alle scelte dirette e immediate dei cittadini,
prima considerato impossibile o comunque ritenuto non
opportuno, è divenuto un pilastro fondamentale nel nostro
ordinamento, così come accade prevalentemente nelle altre
democrazie delle società complesse. Si pensi all'elezione
diretta del sindaco e del presidente della provincia,
all'indicazione popolare dei presidenti delle regioni, alle
spinte popolari profonde alla bipolarizzazione del sistema
politico, per definire una democrazia partecipata e governante
insieme.
Vi è certo un versante dottrinario e politico, ricco di
tradizione, fondato su una visione assemblearistica della
democrazia, che continua ad opporsi a queste caratteristiche
evolutive di fondo della dimensione democratica moderna.
Questa concezione però rifiuta di vedere che la nuova
impostazione non annulla il carattere rappresentativo della
democrazia, ma lo integra con un più puntuale raccordo delle
istituzioni con il corpo elettorale. E del resto, lo strumento
referendario, a partire da quello istituzionale del 1946,
unico correttivo della rappresentanza prima di questo periodo
di espansione del concorso popolare diretto alla scelta dei
propri governanti, con i suoi concreti verdetti ha chiaramente
smentito la tesi di una presunta immaturità del corpo
elettorale nell'assumere direttamente alcune grandi decisioni.
La storia dunque si è incaricata di contrastare la premessa
teorica delle posizioni assemblearistiche.
Vi è poi una terza obiezione che invece non si presenta
come pregiudiziale ma che si riferisce specificamente alla
concreta soluzione qui prospettata, cioè l'elezione diretta a
poteri invariati del Capo dello Stato. Si obietta che tale
scelta potrebbe avere senso solo all'interno di una
complessiva riformulazione della forma di governo e del ruolo
del Presidente. Al riguardo va preliminarmente osservato che,
dopo la premessa comune, i propugnatori di questa obiezione
tendono a suddividersi in due distinti filoni: quello che
prospetta esiti catastrofici dell'innovazione così introdotta,
con rischi di concentrazione personalistica del potere e di
scontro con il Parlamento, e quello di chi prospetta una sua
sostanziale irrilevanza negli esiti concreti rispetto
all'elezione parlamentare. In altri termini l'elezione diretta
a poteri invariati, ovvero con i poteri definiti nella
Costituzione vigente, andrebbe respinta o perché fonte di
insidia e di pericoli per la democrazia o perché inutile e
superflua ai fini della "razionalizzazione" in chiave moderna
del sistema.
Sfugge però a questi critici una serie di osservazioni.
In primo luogo essi non considerano i problemi che pone la
stessa elezione parlamentare per molti aspetti niente affatto
minori di quelli che comporta l'elezione diretta. La celebre
voce sulle "Forme di governo", pur curata da un autore che
sostiene la preferibilità dell'elezione parlamentare come è
Leopoldo Elia per l' Enciclopedia del Diritto, ci dice
con grande rigore teorico e senza infingimenti che "l'elezione
del Capo dello Stato rappresenta nella nostra Repubblica il
momento della massima dislocazione e dissociazione delle forze
politiche" e che "l'accanimento e la durata di talune elezioni
presidenziali (e, soprattutto, il fatto che esse abbiano
coinvolto uomini politici in piena attività) costituiscono di
per sé un segno negativo", una "tendenza in qualche misura
contrastante con le esigenze di "imparzialità" nella carica
suprema fatte valere da molti giuristi". Rispetto a questa
fibrillazione da noi ben conosciuta anche in questo periodo,
l'elezione diretta comporta certo una mobilitazione diretta di
tutto il corpo elettorale, che di per sé si presta ad una
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maggiore politicizzazione, ma d'altra parte consente una
rapidità e certezza dei tempi che riduce considerevolmente i
costi politici della procedura.
Il problema non sarebbe comunque minore nel caso in cui le
maggioranze parlamentari pro tempore fossero
maggiormente coese giacché in tale caso, come si è già
rilevato, sarebbe giocoforza assistere ad una rigida
predeterminazione da parte della maggioranza della scelta di
un proprio esponente, come accade regolarmente nella
Repubblica federale tedesca. Sia che l'eletto fosse così
espresso sia che derivasse nel caso opposto da maggioranze
trasversali al riparo del voto segreto, il problema della
conciliazione di questa procedura con il dovere di
imparzialità si pone in modo del tutto analogo rispetto al
Presidente espressione di una maggioranza del corpo
elettorale. La scelta non è infatti tra una modalità in cui
viene scelto un capo dello Stato strutturalmente neutro (come
può accadere con il criterio di successione dinastica nelle
monarchie, se si vuole astrarre dal fatto che anche i monarchi
hanno e talora esprimono le loro preferenze politiche) ed una
in cui è eletto a maggioranza, ma tra due modalità in cui in
entrambe va combinata una scelta maggioritaria (parlamentare o
diretta) con un ruolo imparziale. Si tratta quindi di una via
potenzialmente più rapida di quella parlamentare (e questo
dovrebbe essere considerato soprattutto da quelli che
ritengono l'elezione diretta inutile) e che evita anche i
rischi di una maggioranza parlamentare "pigliatutto" ove essa
sia sufficientemente coesa (e questo dovrebbe essere compreso
soprattutto da coloro che temono un'eccessiva concentrazione
dei poteri).
In secondo luogo è ormai riconosciuto da tutti che nella
storia repubblicana, come ha plasticamente segnalato Giuliano
Amato, i poteri del Capo dello Stato sono stati legittimamente
interpretati "a fisarmonica", cioè che hanno rivelato una
notevole capacità espansiva in presenza di maggioranze deboli
e inefficienti, di una rilevante instabilità di sistema. Di
conseguenza esistono situazioni nelle quali il Capo dello
Stato finisce con l'esercitare un insieme così rilevante di
poteri che è in obiettiva contraddizione con la sua elezione
parlamentare, situazioni che aprono la porta all'opportunità
di una base maggiore di legittimazione. E' evidente che nel
contempo occorre agire perché tali eventualità, di cui c'è
bisogno come risorsa estrema per un sistema flessibile, siano
meno frequenti possibile: ma ciò impone un intervento sul
versante della legislazione elettorale, non uno sbarramento
ideologico all'elezione diretta che non crea il problema, ma
che caso mai cerca di risolverne alcuni inconvenienti. Non
vogliamo svalutare l'ulteriore obiezione secondo cui
l'elezione diretta di per sé spinge a interpretazioni
estensive dei vari poteri presidenziali in tutti i casi dubbi
interpretativi, ma sta di fatto che anche laddove i Capi dello
Stato direttamente eletti godono di un arsenale di poteri
espliciti ben più ampi, non solo come in Francia di fronte a
maggioranze parlamentari coese, scaturite anche da leggi
elettorali adeguate, non c'è estensione di poteri indebita che
possa durare più di tanto.
Una volta superate queste obiezioni, che certo meritano
anche ulteriori repliche ma che nondimeno appaiono superabili
se si voglia fare una proposta seria anche se limitata e
dotata di uno spessore riformatore comprensibile al Paese, è
opportuna qualche precisazione di merito della presente
proposta di legge costituzionale.
Le norme relative all'elezione diretta, dalla
presentazione delle candidature, alla maggioranza assoluta
richiesta anche con la previsione dell'eventuale ballottaggio,
il regime delle incompatibilità e del conflitto di interessi,
sono mutuate dal testo della Commissione bicamerale e sono
state ampiamente motivate nel corso dei lavori della stessa in
varie puntualizzazioni da parte del relatore sulla forma di
governo, senatore Cesare Salvi, a cui quindi si rinvia per
completezza. Accanto a questo nucleo si sono inseriti due
interventi minimi di sistema, ossia un maggior ruolo del
Governo e una maggiore difesa da emendamenti demagogici
approvati da maggioranze limitate ed improvvisate sulla legge
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di approvazione del bilancio e sulle leggi di spesa nonché il
potere del Presidente del Consiglio dei ministri di proporre
al Capo dello Stato la revoca dei singoli ministri. Non si
tratta di una scelta casuale di priorità tra i vari strumenti
di tal genere presenti nel testo della Commissione bicamerale.
Questa scelta deriva dalla concreta esperienza di questo
periodo di transizione. Non a caso queste due riforme erano
già contenute nella replica al Senato della Repubblica del
Governo Prodi in occasione del voto iniziale di fiducia il 24
maggio 1996, assieme ad altre due tra loro connesse che invece
hanno avuto altre sia pur parziali soluzioni, cioè
l'inemendabilità dei decreti-legge e il varo di una corsia
preferenziale del Governo, a cui si è risposto con
l'intervento della Corte costituzionale e con la recente
riforma del regolamento della Camera dei deputati.
Onorevoli colleghi, se pensiamo quindi che una moderna
forma di governo parlamentare, da non confondere con
l'assemblearismo, peraltro fondata all'articolo 1 della nostra
Costituzione su una valorizzazione molto forte della sovranità
popolare, possa rispondere alle attese del nostro tempo, è
opportuno il passaggio ad un'elezione diretta del Presidente
della Repubblica che, senza sconvolgere il quadro dei poteri,
è comunque in grado di segnare una tappa decisiva di una
transizione che altrimenti rischia di deperire tra riforme
annunciate senza reali conseguenze.
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