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Testi integrali degli Atti Parlamentari della XIII Legislatura

Documento


66436
DDL5625-0002
Progetto di legge Camera n. 5625 - testo presentato - (DDL13-5625)
(suddiviso in 10 Unità Documento)
Unità Documento n.2 (che inizia a pag.1 dello stampato)
...C5625. TESTIPDL
...C5625.
RELAZIONE
ZZDDL ZZDDLC ZZNONAV ZZDDLC5625 ZZ13 ZZRL ZZPR
     Onorevoli Colleghi! - A più di dodici anni dalla data
  di entrata in vigore della legge 10 ottobre 1986, n. 663, di
  riforma dell'ordinamento penitenziario, s'impone, alla luce
  dell'esperienza maturata, una revisione di quelle norme che in
  concreto non hanno dato buona prova, mantenendo peraltro fermo
  il quadro dei princìpi informatori della stessa legge.
  L'impianto e gli istituti di fondo sono infatti in linea con
  la previsione costituzionale secondo la quale le pene "devono
  tendere alla rieducazione del condannato" (articolo 27 della
  Costituzione).
     Com'è noto, la legge 10 ottobre 1986, n. 663, ha
  determinato una decisiva svolta bloccando, attraverso
  l'introduzione di norme dirette ad agevolare al massimo la
  rieducazione del condannato, il processo involutivo
  verificatosi dopo la prima organica riforma penitenziaria,
  introdotta con la legge 26 luglio 1975, n. 354.
     I princìpi informatori della legge n. 663 del 1986 vanno
  individuati nella definitiva dissoluzione dell'idea del
  carcere come luogo di segregazione, istituzionalmente creato
  per allontanare il delinquente dalla società civile, e
  nell'impegno da parte dello Stato, abbandonata definitivamente
  l'idea della pena come sospensione dell'indennità civile, al
  reinserimento del condannato nella società, mediante un
  "trattamento" commisurato alle esigenze ed alla disponibilità
  del singolo.
     Alla disciplina introdotta con tale legge va riservato un
  giudizio positivo e va ribadito l'impegno a mantenere ferma
  l'impostazione di carattere generale della riforma, che ha
  rappresentato e tuttora rappresenta una indiscutibile
 
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  conquista di civiltà.  Ma questa non esclude la necessità di
  apportare correttivi per evitare alcune storture o disinvolte
  applicazioni nei confronti di detenuti che solo in apparenza
  si sono mostrati meritevoli dei benefìci, ottenendo "libera
  uscita" dal carcere senza farvi più rientro ed anzi
  continuando a gestire attività criminose.
     Episodi non certo isolati verificatisi negli ultimi tempi,
  che hanno visto "detenuti modello" uccidere e rapinare una
  volta fuori dal carcere in permesso premio o in regime di
  semilibertà, impongono una seria e profonda riflessione.
     Basti ricordare i nomi di Giuliano Angelini e Giuliana
  Petrocini, condannati per il rapimento ed omicidio di Cristina
  Mazzotti, fuggiti appena hanno usufruito dei benefìci previsti
  dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663.
     Va segnalato il gravissimo episodio verificatosi nel 1990,
  che ha visto come autori di una rapina ai danni di un
  gioielliere, tenuto in ostaggio per oltre quattro giorni, due
  detenuti in permesso premio dal carcere di San Gimignano, tali
  Francesco Facciolo e Egidio Santi.
     Va da ultimo richiamato il gravissimo episodio del
  sequestro Soffiantini che ha visto tra i capi della
  organizzazione Giovanni Farina, in permesso premio nonostante
  fosse stato condannato per altri sequestri ad oltre 27 anni di
  carcere.
     Dalla serie storica dei dati relativi ai detenuti evasi
  durante la fruizione dei benefìci carcerari emerge che sono
  cresciute tutte le categorie di soggetti sia quelli ammessi al
  lavoro esterno, sia quelli in affidamento in prova al servizio
  sociale e in semilibertà, mentre si riducono quelli in
  permesso premio.
     Il totale dei detenuti evasi tra il 1991 e il 1997 passa
  da 176 a 224, ma l'indice relativo si riduce allo 0,54 per
  cento della popolazione carceraria solo perché il totale dei
  fruitori cresce di due volte e mezzo, passando da 16.387 a
  41.246.
     E' più che raddoppiato in sette anni il numero dei
  detenuti evasi in regime di semilibertà passando da 29 a
  64.
     Il numero dei detenuti evasi potrebbe essere
  percentualmente irrilevante ma resta pur sempre un valore
  indicativo e motivo di riflessione trattandosi di soggetti
  pericolosi.
     I dati forniti dal Ministero di grazia e giustizia, pur se
  non allarmanti destano notevoli perplessità, in quanto
  mostrano che circa un terzo della popolazione carceraria
  usufruisce di permessi premio.  Questo potrebbe rappresentare
  un dato positivo solo se nella stessa misura vi fosse una
  riduzione dei comportamenti devianti.  Ciò è, invece,
  decisamente smentito dagli allarmanti, questa volta, dati
  forniti dal Ministero dell'interno sull'andamento della
  criminalità.  Si pensi che il dato assoluto relativo alle
  persone arrestate e denunciate per associazione di stampo
  mafioso registra un aumento del fenomeno.
     Secondo i dati riportati nel rapporto annuale sulla
  criminalità organizzata nel 1997 sono state 32.999 le persone
  deferite alla autorità giudiziaria, di cui 9.271 stranieri e
  1.232 minori, con un incremento rispettivamente del 25,62 per
  cento e del 22,10 per cento.
     In ogni caso, il problema non è di tipo statistico e
  quantitativo, perché una media annua di oltre trecento
  pericolosi delinquenti in libera circolazione rappresenta un
  prezzo inaccettabile nell'attuale gravissima situazione.
     Non è inutile ricordare che quando, in passato, si sono
  levate voci volte a cogliere e sottolineare l'esigenza di
  apportare correttivi alla cosiddetta "legge Gozzini", da varie
  parti si sono levate voci scandalizzate, quasi che si
  volessero scardinare princìpi costituzionali di umanizzazione
  della pena e della sua funzione rieducativa.  Quella
  preoccupazione per norme e provvedimenti che consentivano e
  consentono di rimettere in circolazione condannati per reati
  gravi quasi con automatismi non contrastabili è ora più
  diffusamente avvertita, tanto da provocare il grido di allarme
  del Presidente della Corte costituzionale.
     La stessa dimensione dei fenomeni dimostra che non si
  tratta di mere distorsioni, rimediabili con una più
  "sorvegliata" applicazione della legge, ma che sono da
 
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  rettificare alcune scelte normative, non essenziali per gli
  obiettivi di fondo della legge, e tuttavia tali da
  pregiudicarne la corretta attuazione e quindi gli stessi
  elementi altamente positivi.  In particolare i limiti della
  legge sono rappresentati da una eccessiva discrezionalità,
  sganciata da garanzie sostanziali e processuali nell'adozione
  e nella gestione dei provvedimenti, dalla visione
  esclusivamente "endocarceraria" dei presupposti dei benefìci,
  dalla sostanziale equiparazione dei condannati per la
  valutazione relativa ai benefìci, indipendentemente dalla
  gravità del reato commesso.
     La legge 19 marzo 1990, n. 55, ha introdotto una
  opportuna, di per sé non sufficiente, limitazione alla
  concessione dei permessi premio in favore di condannati per
  reati di terrorismo, di criminalità organizzata e per il reato
  di sequestro di persona a scopo di estorsione.  Costoro possono
  usufruire dei permessi premio a condizione che siano acquisiti
  elementi tali da escludere l'attualità dei collegamenti con la
  criminalità organizzata.  Pur esprimendosi un giudizio
  nettamente positivo su tale innovazione, non sembra che la
  stessa abbia con chiarezza delineato quella che deve essere la
  reale essenza dei permessi premio.  S'impone, infatti, una
  previsione di carattere generale che, eliminando dubbi
  interpretativi ed applicazioni non condivisibili dell'istituto
  del permesso premio, stabilisca che il permesso debba
  riguardare esclusivamente coloro che si distinguono
  nell'avanzamento del processo educativo e non coloro che
  abbiano dato solo prova di "correttezza" e di "rispetto"
  formale dei regolamenti carcerari senza però manifestare il
  benché minimo segno concreto di ravvedimento e di fattiva
  collaborazione.  Basti pensare che i delinquenti appartenenti
  ad organizzazioni criminali e condannati per gravi delitti
  sono coloro che, durante la detenzione, rispettano
  rigorosamente i regolamenti carcerari, sapendo che solo in
  tale modo potranno ottenere benefìci che consentano loro di
  continuare a gestire affari criminali.  Si propone, quindi, una
  diversa formulazione dell'articolo 30- ter  della legge 26
  luglio 1975, n. 354, introdotto dall'articolo 9 della legge 10
  ottobre 1986, n. 663, in modo che sia eliminato il riferimento
  alla "condotta regolare" come unico presupposto legittimante
  la concessione del permesso e sia, invece, espressamente
  previsto che il permesso può essere concesso solo qualora il
  condannato dimostri ravvedimento, del quale la condotta
  carceraria regolare, intesa come correttezza nel comportamento
  personale, è certamente uno degli indici sintomatici.
     Consequenziale è la modifica dei parametri cui fare
  riferimento per stabilire la "utilità", e non solo la
  "meritevolezza", del permesso.
     L'attuale comma 8 dell'articolo 30- ter  della legge
  n. 354 del 1975, nel quale sono enunciati i parametri per
  individuare la "condotta regolare", va, dunque, modificato con
  l'espressa enunciazione normativa del "ravvedimento" e non più
  della "condotta regolare".  Per rafforzare il carattere
  "premiale" del permesso si impone che sia espressamente
  richiesta, a dimostrazione del ravvedimento, "la fattiva
  collaborazione del detenuto all'avanzamento del processo
  rieducativo".
     Altre modifiche che si impongono, allo scopo di garantire
  un efficace sistema per l'accertamento delle condizioni
  legittimanti la concessione dei permessi, sono innanzitutto
  quelle concernenti sia la competenza funzionale che
  territoriale dell'organo giudiziario cui deve essere
  attribuito il potere di concedere i permessi premio e, in
  secondo luogo, quelle riguardanti i referenti della autorità
  giudiziaria.
     L'indiscutibile ampia discrezionalità prevista per
  stabilire l'utilità e la meritevolezza del premio, dovuta alla
  inevitabile elasticità della indicazione normativa, e la
  esigenza di evitare, atteso il rischio che "libere uscite" di
  pericolosi detenuti determinano per la collettività, una
  "gestione" non accorta dell'istituto dei permessi premiali,
  richiedono che la decisione non sia affidata ad un organo
  monocratico, bensì ad un organo collegiale.  E' intuibile la
  preferenza per l'organo collegiale, la cui differenza da
  quello monocratico è la stessa che intercorre tra il
 
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  soliloquio ed il dialogo.  La decisione di un organo
  monocratico, per quanto ispirata da spirito critico e cautela,
  nasce, infatti, da una intuizione solitaria che non ha termini
  di paragone.  Mentre la deliberazione collegiale è la somma di
  atti intuitivi, il cui contrasto procura discussione, che
  rappresenta il migliore dei rimedi preventivi dell'errore.
     Fondamentale è, altresì, la individuazione del giudice
  territorialmente competente che non può, come oggi prevede la
  legge con una sorta di competenza "ambulatoria", essere quello
  del luogo ove è ubicato l'istituto di pena in cui si trova
  "l'interessato all'atto della richiesta", bensì il tribunale
  di sorveglianza del distretto nel cui ambito territoriale è
  stata pronunciata la condanna e, nell'ipotesi di più condanne,
  la condanna più grave.  Va segnalato che il collegamento della
  competenza territoriale non al  locus custodiae,  ma a
  quello della pronuncia della condanna, realizza due esigenze.
  La prima è quella di semplificare l'individuazione del giudice
  territorialmente competente.  L'altra è quella del rispetto del
  principio del giudice naturale, sancito dall'articolo 25 della
  Costituzione.  La modifica che si propone evita che un semplice
  ed artificioso trasferimento dell'interessato possa
  determinare fluttuazioni della competenza territoriale
  dell'organo giurisdizionale.  L'interessato potrebbe, mediante
  l'istanza di trasferimento, pilotare la scelta del giudice
  competente.  I criteri previsti dall'articolo 42 della citata
  legge n. 354 del 1975, sono, infatti, molto ampi e
  discrezionali, potendo essere disposto il trasferimento del
  detenuto "per gravi e comprovati motivi di sicurezza, per
  esigenze dell'istituto, per motivi di giustizia, di salute, di
  studio e familiari".
     Per quanto attiene ai referenti del tribunale di
  sorveglianza, si ritiene del tutto inadeguata la previsione
  attuale di sentire il direttore dell'istituto di custodia
  nella fase iniziale della valutazione sulla opportunità della
  concessione.  Si propone, invece, che il tribunale di
  sorveglianza, prima di pronunciarsi sulla istanza di permesso,
  richieda anzitutto una dettagliata relazione al magistrato di
  sorveglianza che ha giurisdizione sull'istituto di pena in cui
  si trova l'interessato al momento della presentazione
  dell'istanza ed in secondo luogo assuma informazioni
  dall'autorità di pubblica sicurezza del luogo ove
  l'interessato aveva la residenza o la dimora, prima di fare
  ingresso nel carcere, nonché del luogo, se diverso dal primo,
  ove è stato commesso il reato per il quale vi è stata
  condanna.  Ciò consentirà di soddisfare la duplice esigenza di
  conoscere quale sia la condotta carceraria dell'interessato
  attraverso una relazione globale e prospettica del magistrato
  di sorveglianza che è a diretto contatto con colui che deve
  fruire del beneficio, e quali siano i contatti e i
  collegamenti che il condannato abbia conservato all'esterno
  del carcere.
     Quanto alla sfera di applicazione del permesso premio deve
  rilevarsi che l'attuale disciplina presenta aspetti che
  destano serie perplessità, poiché vi è quasi una perfetta
  parificazione tra condannati per fatti di non grave entità e
  condannati per delitti di particolare gravità.  Le modifiche
  proposte rendono, invece, il sistema dei permessi premio molto
  più aderente a quelle che sono le esigenze di sicurezza
  sociale.  Si propone che ne possano fruire:
         a)  senza alcuna limitazione i condannati
  all'arresto ed alla reclusione non superiore ad un anno (non
  più a tre come attualmente previsto);
         b)  dopo l'espiazione di almeno un quarto della
  pena, i condannati alla reclusione superiore ad un anno;
         c)  dopo dieci anni gli ergastolani;
         d)  dopo l'espiazione di almeno la metà della pena,
  i condannati per uno dei delitti indicati dall'articolo 407
  del codice di procedura penale o per il delitto di omicidio
  volontario o per quello di rapina aggravata a norma del terzo
  comma dell'articolo 628 del codice penale;
         e)  dopo quindici anni, i condannati alla pena
  dell'ergastolo per uno dei delitti indicati nella lettera
  d);
         f)  decorsi due anni dalla commissione del fatto,
  coloro i quali hanno riportato condanna o sono imputati per
 
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  delitto doloso commesso durante l'espiazione della pena o
  l'esecuzione di una misura restrittiva della libertà
  personale.
     Nell'ipotesi di cui alla lettera  f)  si propone che
  il condannato possa essere ammesso a fruire del permesso
  premio solo qualora abbia dimostrato, nel periodo anzidetto di
  due anni, serio e concreto ravvedimento.
     Appare, altresì, corretto prevedere che i condannati per
  uno dei delitti di cui all'articolo 407 del codice di
  procedura penale o per il delitto di rapina aggravata o per
  quello di omicidio volontario, ove abbiano riportato condanna
  o siano imputati per delitto doloso commesso durante
  l'espiazione della pena, non possano più essere ammessi a
  fruire dei permessi premio.
     L'articolo 407 del codice di procedura penale indica, come
  è noto, i delitti più gravi contro la personalità dello Stato,
  i delitti di strage, di sequestro di persona a scopo di
  estorsione ed i più inquietanti delitti associativi.  In
  particolare, si tratta di quelli che più direttamente mettono
  in pericolo la convivenza civile qualificandosi per il loro
  carattere eversivo o mafioso ovvero per il fatto di attentare
  alla salute pubblica, rappresentando nel contempo lo strumento
  per accrescere la disponibilità finanziaria delle più
  agguerrite organizzazioni criminali.
     Si propone, inoltre, l'integrazione delle ipotesi
  criminose indicate dal comma 1- bis  dell'articolo
  30- ter  della legge n. 354 del 1975, introdotto
  dall'articolo 13 della legge 19 marzo 1990, n. 55, poi
  abrogato dall'articolo 1 del decreto-legge 13 maggio 1991, n.
  152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio
  1991, n. 23, per le quali è necessario l'accertamento in
  positivo della mancanza di collegamenti con la criminalità
  organizzata, richiamando anche il delitto di omicidio
  volontario o rapina aggravata.  Questi delitti sono, infatti,
  espressione di notevole capacità criminale e meritano un
  trattamento differenziato rispetto ad altri delitti.  Va, in
  proposito, segnalato che secondo i dati emergenti dal
  monitoraggio effettuato dal Dipartimento della pubblica
  sicurezza del Ministero dell'interno, una elevata percentuale
  di omicidi volontari sono consumati nell'ambito della
  criminalità organizzata.
     Una cautela che è indispensabile stabilire è quella
  dell'obbligo per il giudice di imporre, nella ipotesi di
  permessi premio concessi ai condannati per i delitti innanzi
  indicati, la prescrizione per il condannato di presentarsi,
  per tutta la durata del permesso, almeno una volta al giorno
  all'ufficio di polizia giudiziaria.  Questa cautela consentirà
  di soddisfare la duplice esigenza di un maggiore controllo ed
  una più utile osservazione ai fini del trattamento di
  reinserimento del condannato.
     La previsione del ricorso per Cassazione avverso il
  provvedimento relativo ai permessi è costituzionalmente
  imposta dall'articolo 111 della Costituzione.  La particolarità
  della materia rende opportuno fissare un termine ristretto,
  venti giorni, entro cui la Cassazione deve decidere sul
  ricorso.
     Allo scopo di non determinare disarmonie nel sistema che
  si propone, è corretto prevedere che, in deroga alla regola
  generale stabilita dall'articolo 588, comma 2, del codice di
  procedura penale, la esecuzione del permesso, concesso in
  favore del condannato per uno dei delitti indicati
  dall'articolo 407 del medesimo codice, o per omicidio
  volontario o per rapina aggravata a norma del terzo comma
  dell'articolo 628 del codice penale, sia sospesa sino a quando
  la decisione non sia divenuta definitiva o comunque non sia
  decorso il termine di venti giorni per la decisione sul
  ricorso.  Non possono opporsi a tale revisione dubbi di
  costituzionalità, poiché nei confronti di un condannato con
  sentenza irrevocabile non può certo parlarsi di una
  "presunzione di ravvedimento" assimilabile alla presunzione di
  non colpevolezza dell'imputato "sino alla condanna definitiva"
  sancita dall'articolo 27, secondo comma, della Costituzione, e
  da cui sembra discendere un generale divieto a stabilire
  l'effetto sospensivo di provvedimenti che rimettono in libertà
  l'imputato.
 
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     Manca nella attuale disciplina una norma che attribuisca
  il potere di revocare il permesso durante la sua esecuzione.
  Si propone, pertanto l'introduzione dell'articolo
  30- quater  della legge n. 354 del 1975, prevedendo che il
  tribunale di sorveglianza ha il potere di disporre, su
  richiesta del pubblico ministero, la revoca del provvedimento
  quando sopravvengono elementi tali che non escludano
  collegamenti con la criminalità organizzata ovvero risulti che
  il soggetto abbia contatti con persone dedite alla commissione
  di reati della stessa indole di quelli per i quali è stato
  condannato.  Allo scopo di consentire un tempestivo intervento,
  ove ricorrano le condizioni per disporre la revoca, nel comma
  2 dell'articolo 30- quater  si prevede che il magistrato
  di sorveglianza, nella cui giurisdizione il condannato è in
  permesso, può cautelativamente sospenderne, su richiesta del
  pubblico ministero, l'esecuzione, ordinando l'immediato
  accompagnamento del condannato nell'istituto.
     Analoga disciplina differenziata si propone per la misura
  alternativa della "semilibertà".  Anzitutto la presente
  proposta di legge prevede che i condannati per uno dei reati
  indicati dal citato articolo 407 del codice di procedura
  penale o per omicidio volontario o per rapina aggravata a
  norma del terzo comma dell'articolo 628 del codice penale
  possono essere ammessi al regime della semilibertà dopo aver
  espiato i due terzi della pena.  In secondo luogo, deve, anche
  in tale ipotesi, essere accertato in positivo che non vi sono
  collegamenti con la criminalità organizzata.
     Le modifiche di carattere procedimentale che si propongono
  sono analoghe a quelle proposte per i permessi premio:
         a)  competenza territoriale del tribunale di
  sorveglianza del distretto nel cui ambito territoriale è stata
  pronunciata la condanna;
         b)  obbligo per il tribunale di sorveglianza di
  richiedere, prima di pronunciarsi sulla richiesta di
  semilibertà, relazione al magistrato di sorveglianza che ha
  giurisdizione sull'istituto di pena ove si trova l'interessato
  e di assumere informazioni dall'autorità di pubblica sicurezza
  del luogo in cui il condannato aveva la residenza o la dimora,
  nonché del luogo, se diverso, ove è stato commesso il
  reato;
         c)  effetto sospensivo del ricorso per Cassazione
  avverso il provvedimento concessivo della semilibertà a
  condannati per uno dei reati indicati dall'articolo 407 del
  codice di procedura penale o per omicidio volontario o per
  rapina aggravata a norma del terzo comma dell'articolo 628 del
  codice penale.
 
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