| Onorevoli Colleghi! - A più di dodici anni dalla data
di entrata in vigore della legge 10 ottobre 1986, n. 663, di
riforma dell'ordinamento penitenziario, s'impone, alla luce
dell'esperienza maturata, una revisione di quelle norme che in
concreto non hanno dato buona prova, mantenendo peraltro fermo
il quadro dei princìpi informatori della stessa legge.
L'impianto e gli istituti di fondo sono infatti in linea con
la previsione costituzionale secondo la quale le pene "devono
tendere alla rieducazione del condannato" (articolo 27 della
Costituzione).
Com'è noto, la legge 10 ottobre 1986, n. 663, ha
determinato una decisiva svolta bloccando, attraverso
l'introduzione di norme dirette ad agevolare al massimo la
rieducazione del condannato, il processo involutivo
verificatosi dopo la prima organica riforma penitenziaria,
introdotta con la legge 26 luglio 1975, n. 354.
I princìpi informatori della legge n. 663 del 1986 vanno
individuati nella definitiva dissoluzione dell'idea del
carcere come luogo di segregazione, istituzionalmente creato
per allontanare il delinquente dalla società civile, e
nell'impegno da parte dello Stato, abbandonata definitivamente
l'idea della pena come sospensione dell'indennità civile, al
reinserimento del condannato nella società, mediante un
"trattamento" commisurato alle esigenze ed alla disponibilità
del singolo.
Alla disciplina introdotta con tale legge va riservato un
giudizio positivo e va ribadito l'impegno a mantenere ferma
l'impostazione di carattere generale della riforma, che ha
rappresentato e tuttora rappresenta una indiscutibile
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conquista di civiltà. Ma questa non esclude la necessità di
apportare correttivi per evitare alcune storture o disinvolte
applicazioni nei confronti di detenuti che solo in apparenza
si sono mostrati meritevoli dei benefìci, ottenendo "libera
uscita" dal carcere senza farvi più rientro ed anzi
continuando a gestire attività criminose.
Episodi non certo isolati verificatisi negli ultimi tempi,
che hanno visto "detenuti modello" uccidere e rapinare una
volta fuori dal carcere in permesso premio o in regime di
semilibertà, impongono una seria e profonda riflessione.
Basti ricordare i nomi di Giuliano Angelini e Giuliana
Petrocini, condannati per il rapimento ed omicidio di Cristina
Mazzotti, fuggiti appena hanno usufruito dei benefìci previsti
dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663.
Va segnalato il gravissimo episodio verificatosi nel 1990,
che ha visto come autori di una rapina ai danni di un
gioielliere, tenuto in ostaggio per oltre quattro giorni, due
detenuti in permesso premio dal carcere di San Gimignano, tali
Francesco Facciolo e Egidio Santi.
Va da ultimo richiamato il gravissimo episodio del
sequestro Soffiantini che ha visto tra i capi della
organizzazione Giovanni Farina, in permesso premio nonostante
fosse stato condannato per altri sequestri ad oltre 27 anni di
carcere.
Dalla serie storica dei dati relativi ai detenuti evasi
durante la fruizione dei benefìci carcerari emerge che sono
cresciute tutte le categorie di soggetti sia quelli ammessi al
lavoro esterno, sia quelli in affidamento in prova al servizio
sociale e in semilibertà, mentre si riducono quelli in
permesso premio.
Il totale dei detenuti evasi tra il 1991 e il 1997 passa
da 176 a 224, ma l'indice relativo si riduce allo 0,54 per
cento della popolazione carceraria solo perché il totale dei
fruitori cresce di due volte e mezzo, passando da 16.387 a
41.246.
E' più che raddoppiato in sette anni il numero dei
detenuti evasi in regime di semilibertà passando da 29 a
64.
Il numero dei detenuti evasi potrebbe essere
percentualmente irrilevante ma resta pur sempre un valore
indicativo e motivo di riflessione trattandosi di soggetti
pericolosi.
I dati forniti dal Ministero di grazia e giustizia, pur se
non allarmanti destano notevoli perplessità, in quanto
mostrano che circa un terzo della popolazione carceraria
usufruisce di permessi premio. Questo potrebbe rappresentare
un dato positivo solo se nella stessa misura vi fosse una
riduzione dei comportamenti devianti. Ciò è, invece,
decisamente smentito dagli allarmanti, questa volta, dati
forniti dal Ministero dell'interno sull'andamento della
criminalità. Si pensi che il dato assoluto relativo alle
persone arrestate e denunciate per associazione di stampo
mafioso registra un aumento del fenomeno.
Secondo i dati riportati nel rapporto annuale sulla
criminalità organizzata nel 1997 sono state 32.999 le persone
deferite alla autorità giudiziaria, di cui 9.271 stranieri e
1.232 minori, con un incremento rispettivamente del 25,62 per
cento e del 22,10 per cento.
In ogni caso, il problema non è di tipo statistico e
quantitativo, perché una media annua di oltre trecento
pericolosi delinquenti in libera circolazione rappresenta un
prezzo inaccettabile nell'attuale gravissima situazione.
Non è inutile ricordare che quando, in passato, si sono
levate voci volte a cogliere e sottolineare l'esigenza di
apportare correttivi alla cosiddetta "legge Gozzini", da varie
parti si sono levate voci scandalizzate, quasi che si
volessero scardinare princìpi costituzionali di umanizzazione
della pena e della sua funzione rieducativa. Quella
preoccupazione per norme e provvedimenti che consentivano e
consentono di rimettere in circolazione condannati per reati
gravi quasi con automatismi non contrastabili è ora più
diffusamente avvertita, tanto da provocare il grido di allarme
del Presidente della Corte costituzionale.
La stessa dimensione dei fenomeni dimostra che non si
tratta di mere distorsioni, rimediabili con una più
"sorvegliata" applicazione della legge, ma che sono da
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rettificare alcune scelte normative, non essenziali per gli
obiettivi di fondo della legge, e tuttavia tali da
pregiudicarne la corretta attuazione e quindi gli stessi
elementi altamente positivi. In particolare i limiti della
legge sono rappresentati da una eccessiva discrezionalità,
sganciata da garanzie sostanziali e processuali nell'adozione
e nella gestione dei provvedimenti, dalla visione
esclusivamente "endocarceraria" dei presupposti dei benefìci,
dalla sostanziale equiparazione dei condannati per la
valutazione relativa ai benefìci, indipendentemente dalla
gravità del reato commesso.
La legge 19 marzo 1990, n. 55, ha introdotto una
opportuna, di per sé non sufficiente, limitazione alla
concessione dei permessi premio in favore di condannati per
reati di terrorismo, di criminalità organizzata e per il reato
di sequestro di persona a scopo di estorsione. Costoro possono
usufruire dei permessi premio a condizione che siano acquisiti
elementi tali da escludere l'attualità dei collegamenti con la
criminalità organizzata. Pur esprimendosi un giudizio
nettamente positivo su tale innovazione, non sembra che la
stessa abbia con chiarezza delineato quella che deve essere la
reale essenza dei permessi premio. S'impone, infatti, una
previsione di carattere generale che, eliminando dubbi
interpretativi ed applicazioni non condivisibili dell'istituto
del permesso premio, stabilisca che il permesso debba
riguardare esclusivamente coloro che si distinguono
nell'avanzamento del processo educativo e non coloro che
abbiano dato solo prova di "correttezza" e di "rispetto"
formale dei regolamenti carcerari senza però manifestare il
benché minimo segno concreto di ravvedimento e di fattiva
collaborazione. Basti pensare che i delinquenti appartenenti
ad organizzazioni criminali e condannati per gravi delitti
sono coloro che, durante la detenzione, rispettano
rigorosamente i regolamenti carcerari, sapendo che solo in
tale modo potranno ottenere benefìci che consentano loro di
continuare a gestire affari criminali. Si propone, quindi, una
diversa formulazione dell'articolo 30- ter della legge 26
luglio 1975, n. 354, introdotto dall'articolo 9 della legge 10
ottobre 1986, n. 663, in modo che sia eliminato il riferimento
alla "condotta regolare" come unico presupposto legittimante
la concessione del permesso e sia, invece, espressamente
previsto che il permesso può essere concesso solo qualora il
condannato dimostri ravvedimento, del quale la condotta
carceraria regolare, intesa come correttezza nel comportamento
personale, è certamente uno degli indici sintomatici.
Consequenziale è la modifica dei parametri cui fare
riferimento per stabilire la "utilità", e non solo la
"meritevolezza", del permesso.
L'attuale comma 8 dell'articolo 30- ter della legge
n. 354 del 1975, nel quale sono enunciati i parametri per
individuare la "condotta regolare", va, dunque, modificato con
l'espressa enunciazione normativa del "ravvedimento" e non più
della "condotta regolare". Per rafforzare il carattere
"premiale" del permesso si impone che sia espressamente
richiesta, a dimostrazione del ravvedimento, "la fattiva
collaborazione del detenuto all'avanzamento del processo
rieducativo".
Altre modifiche che si impongono, allo scopo di garantire
un efficace sistema per l'accertamento delle condizioni
legittimanti la concessione dei permessi, sono innanzitutto
quelle concernenti sia la competenza funzionale che
territoriale dell'organo giudiziario cui deve essere
attribuito il potere di concedere i permessi premio e, in
secondo luogo, quelle riguardanti i referenti della autorità
giudiziaria.
L'indiscutibile ampia discrezionalità prevista per
stabilire l'utilità e la meritevolezza del premio, dovuta alla
inevitabile elasticità della indicazione normativa, e la
esigenza di evitare, atteso il rischio che "libere uscite" di
pericolosi detenuti determinano per la collettività, una
"gestione" non accorta dell'istituto dei permessi premiali,
richiedono che la decisione non sia affidata ad un organo
monocratico, bensì ad un organo collegiale. E' intuibile la
preferenza per l'organo collegiale, la cui differenza da
quello monocratico è la stessa che intercorre tra il
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soliloquio ed il dialogo. La decisione di un organo
monocratico, per quanto ispirata da spirito critico e cautela,
nasce, infatti, da una intuizione solitaria che non ha termini
di paragone. Mentre la deliberazione collegiale è la somma di
atti intuitivi, il cui contrasto procura discussione, che
rappresenta il migliore dei rimedi preventivi dell'errore.
Fondamentale è, altresì, la individuazione del giudice
territorialmente competente che non può, come oggi prevede la
legge con una sorta di competenza "ambulatoria", essere quello
del luogo ove è ubicato l'istituto di pena in cui si trova
"l'interessato all'atto della richiesta", bensì il tribunale
di sorveglianza del distretto nel cui ambito territoriale è
stata pronunciata la condanna e, nell'ipotesi di più condanne,
la condanna più grave. Va segnalato che il collegamento della
competenza territoriale non al locus custodiae, ma a
quello della pronuncia della condanna, realizza due esigenze.
La prima è quella di semplificare l'individuazione del giudice
territorialmente competente. L'altra è quella del rispetto del
principio del giudice naturale, sancito dall'articolo 25 della
Costituzione. La modifica che si propone evita che un semplice
ed artificioso trasferimento dell'interessato possa
determinare fluttuazioni della competenza territoriale
dell'organo giurisdizionale. L'interessato potrebbe, mediante
l'istanza di trasferimento, pilotare la scelta del giudice
competente. I criteri previsti dall'articolo 42 della citata
legge n. 354 del 1975, sono, infatti, molto ampi e
discrezionali, potendo essere disposto il trasferimento del
detenuto "per gravi e comprovati motivi di sicurezza, per
esigenze dell'istituto, per motivi di giustizia, di salute, di
studio e familiari".
Per quanto attiene ai referenti del tribunale di
sorveglianza, si ritiene del tutto inadeguata la previsione
attuale di sentire il direttore dell'istituto di custodia
nella fase iniziale della valutazione sulla opportunità della
concessione. Si propone, invece, che il tribunale di
sorveglianza, prima di pronunciarsi sulla istanza di permesso,
richieda anzitutto una dettagliata relazione al magistrato di
sorveglianza che ha giurisdizione sull'istituto di pena in cui
si trova l'interessato al momento della presentazione
dell'istanza ed in secondo luogo assuma informazioni
dall'autorità di pubblica sicurezza del luogo ove
l'interessato aveva la residenza o la dimora, prima di fare
ingresso nel carcere, nonché del luogo, se diverso dal primo,
ove è stato commesso il reato per il quale vi è stata
condanna. Ciò consentirà di soddisfare la duplice esigenza di
conoscere quale sia la condotta carceraria dell'interessato
attraverso una relazione globale e prospettica del magistrato
di sorveglianza che è a diretto contatto con colui che deve
fruire del beneficio, e quali siano i contatti e i
collegamenti che il condannato abbia conservato all'esterno
del carcere.
Quanto alla sfera di applicazione del permesso premio deve
rilevarsi che l'attuale disciplina presenta aspetti che
destano serie perplessità, poiché vi è quasi una perfetta
parificazione tra condannati per fatti di non grave entità e
condannati per delitti di particolare gravità. Le modifiche
proposte rendono, invece, il sistema dei permessi premio molto
più aderente a quelle che sono le esigenze di sicurezza
sociale. Si propone che ne possano fruire:
a) senza alcuna limitazione i condannati
all'arresto ed alla reclusione non superiore ad un anno (non
più a tre come attualmente previsto);
b) dopo l'espiazione di almeno un quarto della
pena, i condannati alla reclusione superiore ad un anno;
c) dopo dieci anni gli ergastolani;
d) dopo l'espiazione di almeno la metà della pena,
i condannati per uno dei delitti indicati dall'articolo 407
del codice di procedura penale o per il delitto di omicidio
volontario o per quello di rapina aggravata a norma del terzo
comma dell'articolo 628 del codice penale;
e) dopo quindici anni, i condannati alla pena
dell'ergastolo per uno dei delitti indicati nella lettera
d);
f) decorsi due anni dalla commissione del fatto,
coloro i quali hanno riportato condanna o sono imputati per
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delitto doloso commesso durante l'espiazione della pena o
l'esecuzione di una misura restrittiva della libertà
personale.
Nell'ipotesi di cui alla lettera f) si propone che
il condannato possa essere ammesso a fruire del permesso
premio solo qualora abbia dimostrato, nel periodo anzidetto di
due anni, serio e concreto ravvedimento.
Appare, altresì, corretto prevedere che i condannati per
uno dei delitti di cui all'articolo 407 del codice di
procedura penale o per il delitto di rapina aggravata o per
quello di omicidio volontario, ove abbiano riportato condanna
o siano imputati per delitto doloso commesso durante
l'espiazione della pena, non possano più essere ammessi a
fruire dei permessi premio.
L'articolo 407 del codice di procedura penale indica, come
è noto, i delitti più gravi contro la personalità dello Stato,
i delitti di strage, di sequestro di persona a scopo di
estorsione ed i più inquietanti delitti associativi. In
particolare, si tratta di quelli che più direttamente mettono
in pericolo la convivenza civile qualificandosi per il loro
carattere eversivo o mafioso ovvero per il fatto di attentare
alla salute pubblica, rappresentando nel contempo lo strumento
per accrescere la disponibilità finanziaria delle più
agguerrite organizzazioni criminali.
Si propone, inoltre, l'integrazione delle ipotesi
criminose indicate dal comma 1- bis dell'articolo
30- ter della legge n. 354 del 1975, introdotto
dall'articolo 13 della legge 19 marzo 1990, n. 55, poi
abrogato dall'articolo 1 del decreto-legge 13 maggio 1991, n.
152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio
1991, n. 23, per le quali è necessario l'accertamento in
positivo della mancanza di collegamenti con la criminalità
organizzata, richiamando anche il delitto di omicidio
volontario o rapina aggravata. Questi delitti sono, infatti,
espressione di notevole capacità criminale e meritano un
trattamento differenziato rispetto ad altri delitti. Va, in
proposito, segnalato che secondo i dati emergenti dal
monitoraggio effettuato dal Dipartimento della pubblica
sicurezza del Ministero dell'interno, una elevata percentuale
di omicidi volontari sono consumati nell'ambito della
criminalità organizzata.
Una cautela che è indispensabile stabilire è quella
dell'obbligo per il giudice di imporre, nella ipotesi di
permessi premio concessi ai condannati per i delitti innanzi
indicati, la prescrizione per il condannato di presentarsi,
per tutta la durata del permesso, almeno una volta al giorno
all'ufficio di polizia giudiziaria. Questa cautela consentirà
di soddisfare la duplice esigenza di un maggiore controllo ed
una più utile osservazione ai fini del trattamento di
reinserimento del condannato.
La previsione del ricorso per Cassazione avverso il
provvedimento relativo ai permessi è costituzionalmente
imposta dall'articolo 111 della Costituzione. La particolarità
della materia rende opportuno fissare un termine ristretto,
venti giorni, entro cui la Cassazione deve decidere sul
ricorso.
Allo scopo di non determinare disarmonie nel sistema che
si propone, è corretto prevedere che, in deroga alla regola
generale stabilita dall'articolo 588, comma 2, del codice di
procedura penale, la esecuzione del permesso, concesso in
favore del condannato per uno dei delitti indicati
dall'articolo 407 del medesimo codice, o per omicidio
volontario o per rapina aggravata a norma del terzo comma
dell'articolo 628 del codice penale, sia sospesa sino a quando
la decisione non sia divenuta definitiva o comunque non sia
decorso il termine di venti giorni per la decisione sul
ricorso. Non possono opporsi a tale revisione dubbi di
costituzionalità, poiché nei confronti di un condannato con
sentenza irrevocabile non può certo parlarsi di una
"presunzione di ravvedimento" assimilabile alla presunzione di
non colpevolezza dell'imputato "sino alla condanna definitiva"
sancita dall'articolo 27, secondo comma, della Costituzione, e
da cui sembra discendere un generale divieto a stabilire
l'effetto sospensivo di provvedimenti che rimettono in libertà
l'imputato.
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Manca nella attuale disciplina una norma che attribuisca
il potere di revocare il permesso durante la sua esecuzione.
Si propone, pertanto l'introduzione dell'articolo
30- quater della legge n. 354 del 1975, prevedendo che il
tribunale di sorveglianza ha il potere di disporre, su
richiesta del pubblico ministero, la revoca del provvedimento
quando sopravvengono elementi tali che non escludano
collegamenti con la criminalità organizzata ovvero risulti che
il soggetto abbia contatti con persone dedite alla commissione
di reati della stessa indole di quelli per i quali è stato
condannato. Allo scopo di consentire un tempestivo intervento,
ove ricorrano le condizioni per disporre la revoca, nel comma
2 dell'articolo 30- quater si prevede che il magistrato
di sorveglianza, nella cui giurisdizione il condannato è in
permesso, può cautelativamente sospenderne, su richiesta del
pubblico ministero, l'esecuzione, ordinando l'immediato
accompagnamento del condannato nell'istituto.
Analoga disciplina differenziata si propone per la misura
alternativa della "semilibertà". Anzitutto la presente
proposta di legge prevede che i condannati per uno dei reati
indicati dal citato articolo 407 del codice di procedura
penale o per omicidio volontario o per rapina aggravata a
norma del terzo comma dell'articolo 628 del codice penale
possono essere ammessi al regime della semilibertà dopo aver
espiato i due terzi della pena. In secondo luogo, deve, anche
in tale ipotesi, essere accertato in positivo che non vi sono
collegamenti con la criminalità organizzata.
Le modifiche di carattere procedimentale che si propongono
sono analoghe a quelle proposte per i permessi premio:
a) competenza territoriale del tribunale di
sorveglianza del distretto nel cui ambito territoriale è stata
pronunciata la condanna;
b) obbligo per il tribunale di sorveglianza di
richiedere, prima di pronunciarsi sulla richiesta di
semilibertà, relazione al magistrato di sorveglianza che ha
giurisdizione sull'istituto di pena ove si trova l'interessato
e di assumere informazioni dall'autorità di pubblica sicurezza
del luogo in cui il condannato aveva la residenza o la dimora,
nonché del luogo, se diverso, ove è stato commesso il
reato;
c) effetto sospensivo del ricorso per Cassazione
avverso il provvedimento concessivo della semilibertà a
condannati per uno dei reati indicati dall'articolo 407 del
codice di procedura penale o per omicidio volontario o per
rapina aggravata a norma del terzo comma dell'articolo 628 del
codice penale.
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