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Testi integrali degli Atti Parlamentari della XIII Legislatura

Documento


66552
DDL5634-0002
Progetto di legge Camera n. 5634 - testo presentato - (DDL13-5634)
(suddiviso in 3 Unità Documento)
Unità Documento n.2 (che inizia a pag.1 dello stampato)
...C5634. TESTIPDL
...C5634.
RELAZIONE
ZZDDL ZZDDLC ZZNONAV ZZDDLC5634 ZZ13 ZZRL ZZPR
     Onorevoli Colleghi! - Durante i circa sessanta anni di
  presenza coloniale italiana in Eritrea sono nati
  approssimativamente 15 mila figli da unioni tra cittadini
  italiani e donne eritree; non esistono statistiche precise al
  riguardo, ma su tale cifra concordano diversi autori, fra cui,
  ad esempio, il vice console italiano in Eritrea, Gino
  Corbella, che nel 1959 stimava in 15.500 gli italo-eritrei.
     In un primo tempo nulla vietava ai padri italiani di
  riconoscere i figli naturali avuti da donne eritree, salvo la
  disposizione del codice civile che vietava il riconoscimento
  dei figli adulterini (disposizione rimasta in vigore in Italia
  fino alla riforma del diritto di famiglia del 1975).  Era però
  assai frequente che durante il soggiorno in colonia, uomini
  italiani già sposati in Italia convivessero  more uxorio
  con donne locali; tali casi erano frequenti specialmente
  tra i militari, a cui non era consentito portare in colonia la
  moglie.  Furono dunque numerosi i casi di padri italiani che si
  trovarono nell'impossibilità di riconoscere i propri figli
  avuti da donne eritree.  Agli impedimenti giuridici che
  ostacolavano il riconoscimento, si affiancava sovente una
  mancanza di senso di responsabilità, alimentata sia da
  pregiudizi razzisti (un figlio dalla pelle scura veniva
  percepito come intimamente diverso da un figlio nato da una
  donna bianca), sia da un malinteso senso di libertà associato
  alla vita in colonia; era diffusa, in altri termini, la
  convinzione che l'Africa fosse una terra selvaggia di
  conquista, in cui non valevano le norme del vivere civile che
  si seguivano in patria.  Così, sembra che nel 1922 ci fossero
  in Eritrea 165 figli di unioni miste riconosciuti e 141 non
  riconosciuti dal padre.  Proprio negli anni venti il governo
  della colonia adottò la prassi di iscrivere nei registri di
  stato civile i figli nati da unioni miste, anche se non
 
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  riconosciuti dal padre.  Purtroppo, gli archivi del governo
  italiano della colonia, conservati presso l'Archivio storico
  diplomatico del Ministero degli affari esteri, sono
  estremamente lacunosi e non permettono di ricostruire con
  precisione la prassi seguita; però, da una lettera del
  commissario speciale Teodorani, datata Asmara 19 gennaio 1920,
  proprio sul caso di un militare italiano che aveva avuto in
  colonia due figli adulterini, che come tali non potevano
  essere iscritti nello stato civile, apprendiamo che:
     "Per le ultime disposizioni, i meticci, nati dall'unione
  naturale di un uomo bianco con una donna indigena, possono
  essere iscritti su richiesta del Procuratore del Re come figli
  naturali di padre ignoto e dando loro un cognome differente da
  quello che viene loro comunemente attribuito".
     Per sanare la situazione dei figli di ignoti di origine
  italiana, intervenne, poi, la legge 6 luglio 1933, n. 999,
  recante "Ordinamento organico per l'Eritrea e la Somalia", che
  disponeva, all'articolo l8, che il nato in Eritrea e Somalia
  da genitori ignoti, quando i caratteri somatici ed altri
  indizi facevano ritenere che uno dei genitori fosse di razza
  bianca, poteva, giunto al diciottesimo anno di età, assumere
  la cittadinanza italiana a condizione che:
       non fosse poligamo;
       non fosse mai stato condannato per reati che
  comportassero la perdita dei diritti pubblici;
       avesse superato l'esame di promozione alla terza classe
  elementare;
       avesse posseduto una educazione perfettamente
  italiana.
     Conviene, infine, osservare che in questa prima fase del
  colonialismo italiano, come una ricca documentazione
  d'archivio prova inequivocabilmente, il governo della colonia
  avvertiva una speciale responsabilità nei confronti dei figli
  naturali degli italiani in colonia, anche - anzi, soprattutto
  - se non riconosciuti dal padre.  Infatti, su segnalazione dei
  residenti o dei commissari di governo, sovente il governatore
  disponeva il loro ricovero in istituti di assistenza ed
  istruzione gestiti dai missionari, e la spesa relativa veniva
  addossata al bilancio coloniale.  Per evitare di gravare il
  bilancio della colonia di quest'onere, il regio corpo truppe
  coloniali cercava inoltre di rintracciare in Italia il
  militare a cui la voce pubblica attribuiva la paternità e lo
  sollecitava a pagare per il mantenimento del proprio figlio
  naturale.  In altri termini, nonostante la legislazione
  italiana non permettesse la ricerca di paternità, di fatto
  tale ricerca era effettuata, se non ai fini dell'iscrizione
  allo stato civile, almeno per alleviare la disagiata
  situazione economica di tali figli naturali.  Si può dunque
  concludere che nella prima fase del colonialismo italiano in
  Eritrea (1882-1935) il governo della colonia considerava
  senz'altro come italiani i bambini che la voce pubblica
  identificava come figli di italiani, indipendentemente dal
  riconoscimento formale da parte del padre.
     Dopo la guerra italo-etiopica, l'Italia cambiò
  repentinamente e drasticamente le proprie politiche razziali
  in colonia.  Innanzitutto, venne lanciata una violenta campagna
  propagandistica contro quella che veniva definita "la piaga
  del meticciato".  Pseudo-scienziati dissertavano sulla stampa
  su presunte tare fisiche e morali dei meticci, mentre i
  politici ammonivano che il meticciato era la rovina degli
  imperi e della civiltà.  Tale campagna persecutoria nei
  confronti delle unioni miste e dei meticci si tradusse anche
  in provvedimenti legislativi.  Con il regio decreto-legge 19
  aprile 1937, n. 880, convertito, con modificazioni, dalla
  legge 30 dicembre 1937, n. 2590, vennero proibite le
  "relazioni di indole coniugale" tra un cittadino italiano ed
  un suddito dell'Africa orientale italiana; successivamente, la
  legge 29 giugno 1939, n. 1004, recante "Sanzioni penali per la
  difesa del prestigio di razza di fronte ai nativi dell'Africa
  italiana", individuò esplicitamente la nascita di un bimbo
  italo-eritreo come indizio del reato di relazione di indole
  coniugale con una donna locale.  Tali norme, evidentemente,
 
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  scoraggiarono fortemente i padri italiani dal riconoscere i
  propri figli avuti da donne eritree.
     Infine, le sciagurate "Norme relative ai meticci" (legge
  13 maggio 1940, n. 822) proibirono esplicitamente al padre
  italiano di riconoscere il proprio figlio meticcio (articolo
  3), oltre a disporre altri odiosi provvedimenti discriminatori
  (si disponeva, ad esempio, che il mantenimento del figlio
  meticcio fosse ad esclusivo carico del genitore africano), il
  cui senso complessivo era quello di assimilare in tutto e per
  tutto i nati da unioni miste alla popolazione locale,
  attribuendogli lo stesso  status  subordinato.  E'
  difficile esagerare le conseguenze negative di tale legge;
  tale norma, in fatti, restò in vigore proprio in tutto il
  periodo in cui la maggior parte dei bambini italo-eritrei fu
  messa al mondo.  Con la guerra di Etiopia la popolazione
  italiana in Eritrea crebbe improvvisamente da meno di 5 mila
  unità a circa 75 mila (per il 78 per cento uomini), senza
  contare le numerosissime truppe di passaggio; tale massiccia
  presenza di uomini soli portò, com'è facile intuire, ad
  un'impennata nel numero delle nascite di italo-eritrei.  Furono
  probabilmente circa 10 mila i figli di unioni miste nati del
  periodo di vigenza della legge.  Tale norma fu abrogata solo
  nel 1947, con decreto legislativo del Capo provvisorio dello
  Stato n. 1096, che, oltre ad abrogare la legge n. 822 del
  1940, tentò di riparare ai guasti della legislazione razziale,
  prevedendo un canale privilegiato per l'acquisizione della
  cittadinanza, per i nati da unioni miste.  L'articolo 3,
  infatti, disponeva che:
     "Il nato nei territori dell'Africa Italiana o nel
  territorio metropolitano dello Stato da genitore o genitori
  ignoti, quando per qualsiasi motivo si possa fondatamente
  ritenere che uno dei genitori sia cittadino italiano e l'altro
  nativo dell'Africa Orientale Italiana od assimilato è
  dichiarato cittadino italiano purché non sia poligamo.
  (...)".
     All'epoca dell'emanazione di tale norma, pero, l'Eritrea
  era sotto l'amministrazione militare britannica e quindi la
  normativa italiana era applicata nel Paese solo se fatta
  propria da un proclama dell'amministratore.  Purtroppo, fu solo
  nel 1952 che l'amministratore britannico, con proclama n. 125
  del 1952, abrogò la legge italiana n. 822 del 1940.  A
  quell'epoca, però, la maggior parte degli italiani aveva ormai
  abbandonato la colonia, senza avere avuto la possibilità di
  riconoscere il proprio figlio.
  La situazione attuale.
     Sono ormai poche centinaia (al momento risultano essere
  335) gli italo-eritrei privi di cittadinanza italiana, che
  stanno ancora tentando di ottenerla.  In molti casi si tratta
  di individui le cui condizioni economiche particolarmente
  disagiate non avevano permesso di affrontare le spese legali,
  in Eritrea e in Italia, necessarie per la complessa pratica
  per l'ottenimento della cittadinanza.
     Un'attenzione particolare merita il problema del cognome.
  In Eritrea, come presso altre popolazioni, non si usa un
  cognome transgenerazionale come si usa in Italia; al nome
  della persona è invece affiancato il nome di battesimo del
  padre.  Così il figlio di Mario si chiamerà, mettiamo, Giuseppe
  Mario, mentre il figlio di Giuseppe, Michele Giuseppe, e la
  figlia di quest'ultimo si chiamerà Maria Michele, e così via.
  I figli non riconosciuti di padre italiano si sono trovati
  nella situazione, del tutto inedita in Eritrea, di non avere
  un nome paterno da affiancare al proprio.
     Bisogna tenere presente, a questo proposito, che secondo
  le consuetudini eritree, la madre può, con dichiarazione
  giurata, individuare il padre del proprio figlio.  Da questa
  dichiarazione inappellabile, della madre, derivano all'uomo
  tutti gli onori e gli oneri della paternità.  Quindi in Eritrea
  prima dell'arrivo degli italiani, non esistevano figli di
  padre ignoto.
     L'ordinamento italiano non ammetteva, né ammette, tale
  sistema per l'attribuzione della paternità; sicché è avvenuto
  che i figli non riconosciuti di padre italiano hanno dovuto
  affiancare al proprio nome non già il nome del padre, ma
  quello della madre; si sono dunque chiamati, ad esempio,
  Michele Maria, Giovanni Rachele e così via.  Il figlio non
 
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  riconosciuto è stato dunque sempre immediatamente
  identificabile, ed il portare il nome della madre anziché
  quello del padre ha equivalso ad un marchio d'infamia.  In una
  società patriarcale come quella eritrea, l'identità della
  persona è fondata sull'appartenenza al lignaggio paterno: i
  bambini sin da piccoli imparano la genealogia paterna sino
  alla settima generazione; sono educati secondo la religione e
  le tradizioni paterne e parlano immancabilmente la lingua del
  padre (infatti, gli italo-eritrei parlano sempre l'italiano, a
  volte meglio della stessa lingua locale).  In Eritrea, dunque,
  l'individuo privo di padre si trova in una situazione di
  particolare debolezza, oggetto di scherno e di
  marginalizzazione.
     Da ciò deriva l'urgenza, avvertita anche da individui che
  non prevedono di trasferirsi in Italia, di recuperare il
  cognome paterno.
     La presente proposta di legge, stanti i vincoli e le
  condizioni posti dall'articolo 4 della legge 5 febbraio 1992,
  n. 91, è volta dunque a facilitare l'acquisizione della
  cittadinanza di tanti italo-eritrei, attualmente sono circa
  325, che da vari decenni non riescono, per una serie di
  ostacoli pressoché insuperabili, ad ottenere tale
  riconoscimento.
     A parte, infatti, i seri dubbi circa la vigenza del
  decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 3 agosto
  1947, n. 1096, e comunque i vari ed onerosi adempimenti che
  esso prevede, attualmente i principali ostacoli che si
  presentano sono i seguenti:
       molti italo-eritrei non conoscono luogo e data di
  nascita del padre, nonché il nome del nonno paterno, ma tali
  dati sono richiesti dall'ambasciata italiana per l'istruzione
  della pratica;
       alcuni italo-eritrei non conoscono affatto il cognome
  del padre o sono del tutto privi di documenti che attestino
  l'identità paterna;
       i padri italiani sono ormai morti o comunque se ne sono
  perse le tracce e spesso, a questo punto, anche le madri sono
  morte;
       nei certificati di nascita e/o di battesimo di alcuni
  interessati tanto la data di nascita dell'interessato quanto
  il nome del padre sono indicati in modo impreciso o
  incompleto;
       alcuni interessati hanno figli ormai maggiorenni, che
  pure se i genitori riuscissero ad acquisire il cognome e la
  cittadinanza, ne rimarrebbero privi; si verificherebbe così la
  circostanza particolarmente dolorosa di figli che non possono
  portare il cognome paterno;
       diversi italo-eritrei sono morti ancor prima di aver
  ottenuto il diritto di cittadinanza ed hanno lasciato al mondo
  dei figli i quali non possono chiedere il riconoscimento per
  via diretta.
     La maggior parte degli interessati è però in grado di
  produrre un certificato di battesimo, da cui risulta la
  paternità italiana; per alcuni sono anche disponibili le
  schede di accettazione negli orfanotrofi gestiti dai
  missionari, in cui veniva annotata, nei casi di bambini non
  legalmente riconosciuti, la paternità presunta.  Tale
  documentazione potrebbe essere considerata probante ai fini
  dell'attribuzione della cittadinanza secondo le disposizioni
  della presente proposta di legge, di cui si auspica la rapida
  approvazione.
 
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