| Onorevoli Colleghi! - Il tema che viene sottoposto alla
Vostra attenzione riguarda la partecipazione alle società in
accomandita semplice anche delle società di capitali oltre che
di quelle di persone poiché, nella interpretazione dottrinaria
e giurisprudenziale di legittimità, fino ad oggi si è espressa
opinione prevalentemente negativa. A siffatto orientamento la
giurisprudenza di merito si è ribellata per ragionevoli
necessità logiche e pratiche. La questione solleva problemi
non di poco momento e sembra opportuno porre rimedio alle
incongruenze che si sono determinate, anche sotto il profilo
della disparità nella quale si trovano ad operare le imprese
nazionali rispetto a quelle estere.
Gli argomenti contro siffatta ammissibilità sono noti e
dibattuti, e così riassumibili:
1) l' intuitus personae e l' affectio
societatis sono elementi peculiari ed essenziali delle
società di persone che rendono incompatibile la partecipazione
delle società di capitali;
2) l'inconciliabile diversità della disciplina delle
obbligazioni sociali nei due diversi tipi di società: vedasi
particolarmente la responsabilità solidale e illimitata del
socio di società di persone e anche dell'accomandante, che si
ingerisca nella amministrazione o nella trattazione o nella
conclusione di affari in nome della società, così violando il
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divieto di cui all'articolo 2320, primo comma, del codice
civile; responsabilità che contraddice radicalmente il
principio della limitazione di responsabilità dei soci di
società di capitali;
3) le norme delle società di persone assolutamente
impertinenti e inestensibili alle società di capitali, come ad
esempio gli articoli 2257 e 2258 del codice civile;
4) le conseguenze inammissibili, se non aberranti, in
tesi di principio e per effetti pratici, derivanti
dall'ipotesi partecipativa che stravolgerebbe le fondamentali
e inderogabili norme di controllo, legalmente imposte alle
società di capitali e inerenti alla loro stessa struttura e
funzionalità, perché il patrimonio della partecipante società
di capitale verrebbe ad essere, inesorabilmente, gestito da
soggetti diversi dai propri amministratori, vuoi nel tutto
vuoi in parte.
Così delineata la tematica si osserva nell'ordine sopra
indicato:
1) senza voler peccare di immodestia ed anzi con tutta
la sommessità che si addice nella esposizione di una tesi in
materia così controversa, non sarà vano ricordare che fin dal
1903 con il Vivante si è riconosciuto che "l'elemento
personale e quello patrimoniale concorrono in ogni forma di
società; ed è erronea la formula volgare che qualifica la
società per azioni come società di capitali, quasiché in
queste non esistessero vincoli personali. Il vero è che
l'elemento personale e quello patrimoniale vi concorrono in
diversa misura e l'ordinamento della società si appoggia ora
sull'uno ora sull'altro per accrescere la propria stabilità".
Questo principio indubbiamente ha trovato inveramento nel
diritto positivo a partire dalle società semplici. E' la
società semplice la forma più elementare di società la cui
disciplina si estende anche agli altri tipi di società di
persone se non derogata dalla specifica normativa di queste.
Ed è nella società semplice che si propone l' intuitus
personae come criterio fondante e informatore dell'intera
disciplina. Ed è pure nella società semplice che il socio
risulta titolare di una quota di partecipazione, o quota
sociale che dir si voglia, non diversamente da quanto accade,
per comunanza concettuale, nelle società a responsabilità
limitata e nelle società cooperative: in tutte, la quota
rappresenta la posizione giuridica del socio in rapporto
quantitativo verso gli altri soci e non già la porzione
materiale dei beni societari, in ciò distinguendosi le
società, per elementarmente strutturate che siano, dalla
comunione che pur ne costituisce l'origine storica;
2) se è vero, come si ritiene, quanto delineato al
numero 1), l'argomento intuitus personae - assunto come
peculiarità assoluta ed esclusiva delle società di persone
incompatibile radicalmente con le società di capitale - si
snerva fino a perdere il carattere rigidamente preclusivo che
gli si vuol attribuire e che, per vero, è stato abbandonato
dalla giurisprudenza più avveduta. Uguale sorte ha la
cosiddetta " affectio societatis " che, per quanto possa
essere mediata dalla necessaria materializzazione delle idee
per essere umanamente percettibile, non potrà mai sconfinare
se non per paradosso ironico, in una sorta di affectio
coniugalis. Di modo che siffatta affectio sarà sempre
rinvenibile nelle strutture societarie sia pure modulata in
vario modo e con variabile intensità. Peraltro, la tematica
appare vieppiù irrilevante ove si ponga mente che, nel caso di
accomandante di un'accomandita semplice, la "quota"
dell'accomodante è trasferibile per causa di morte o per atto
tra vivi senza il consenso di tutti i soci (articolo 2322 del
codice civile). Tutto ciò riduce a mera esercitazione teorica
la discussione sulla incompatibilità, così profilata, per una
società di capitale, di partecipare quale socio accomandante
ad una società in accomandita semplice;
3) per quel che riguarda l'inconciliabile diversità
della disciplina delle obbligazioni sociali, nei due diversi
tipi di società ed in ispecie la solidale e illimitata
responsabilità dell'accomandante prevista nell'articolo 2320
del codice civile si osserva quanto segue. A parte la
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controversa identificazione dell'interesse che la norma vuole
tutelare, non è possibile identificare le ragioni che, in
radice, pongano siffatta normativa nella inconciliabile
antitesi prospettata. Ed infatti, se è vero che i singoli soci
della società di capitali rispondono nei limiti delle quote o
delle azioni possedute, è anche vero che la società in quanto
tale risponde con tutto il suo patrimonio e senza limiti così
come accade per le persone fisiche. Non senza dire che per
l'accomandante addirittura non è materializzabile la
differenziazione poiché lo stesso risponde per norma espressa
(articolo 2313 del codice civile) nei limiti della quota
conferita. Né ha pregio, al riguardo, invocare l'ipotesi di
solidarietà illimitata nel caso di violazione del divieto ex
articolo 2320 del codice civile. Tale ipotesi, in verità,
costituisce una sanzione posta a carico di chi vìoli la norma
che deve garantire i diritti dei terzi e che attiene alla
peculiarità societaria per nulla modificante il limite di
responsabilità del socio, di cui costituisce l'usbergo
patrimoniale nel caso che egli si attenga, appunto, alle
norme. Siffatto limite non è dissimile dalla tutela, pure
patrimoniale, concessa al socio di capitali che non assuma
obbligazioni extravaganti (ad esempio la fideiussione per i
debiti sociali alle quali, in certo grado, è assimilabile
l'atto imputabile all'accomodante che amministri, tratti o
concluda affari della società). Vi è in comune nelle due
ipotesi la riconducibilità ad atti volontari che comportano la
rinuncia - per quanto di ragione - ai limiti di responsabilità
legislativamente precostituiti a favore delle due tipologie di
soci;
4) le norme che si assumono incompatibili - segnatamente
quelle previste negli articoli 2257 e 2558 del codice civile
(cui devono essere accumunati gli articoli 2285, primo comma,
seconda ipotesi, l'articolo 2284 e l'articolo 2286 del codice
civile in alcune ipotesi) - non pare possano costituire
ostacolo insormontabile. Il problema specifico si risolve in
quello più generale riassumibile nel concetto che la varietà
di normativa per le due specie societarie si traduce
eventualmente in inapplicabilità reciproca. Ma è appunto tale
inapplicabilità il solo ed unico effetto che deriva e non già
una pretesa nullità delle norme stesse. E' noto, infatti, che
la nullità può derivare solo quando sussista una correlazione
negativa tra norme rispetto a disposizioni inderogabili o
imperative ovvero si determini una vulnerazione radicale
rispetto ai requisiti di validità dei due tipi di
normativa;
5) lo stravolgimento di fondamentali e inderogabili
norme di controllo legalmente imposte alle società di capitali
inerenti alla loro stessa struttura e funzionalità,
deriverebbe essenzialmente dal fatto che, con la
partecipazione alla società di persona in accomandita
semplice, il patrimonio di tale società partecipante sarebbe,
necessariamente, gestito - in tutto o in parte - da soggetti
diversi dai propri amministratori e per di più sottratti alle
regole imperative di gestione e controllo specifiche delle
società di capitali (articoli 2403, 2409, 2392 e 2395 del
codice civile). Il tallone di Achille di tale assunto è
costituito dal ritenere la partecipazione ad una società in
accomandita semplice come se si trattasse di una quota di
comunione. Si concepisce e si partorisce cioè la società di
persone quale vano simulacro emerso o residuato dall'Ade al
punto che se ne cancella perfino la sua astrazione e, dunque,
la pur normativamente riconosciuta soggettivazione
patrimoniale, almeno per alcuni indiscutibili e indiscussi
elementi. L'impossibilità di aderire a siffatta configurazione
e "visione" della società in accomandita semplice (e della
società di persone in generale) deriva: sia dalla anchilosi
storica di tale concezione che comporta il dissolvimento in
aere non lucente la spigolosa ruvidità dei fatti e delle
norme esistenti; sia dall'incapacità di recepire il dato
preciso consistente nel fatto che al socio di una società di
persone, anche se illimitatamente responsabile, non è
imputabile neppure pro quota l'impresa sociale, cui
fanno capo gli atti societari i quali diventano a lui
riferibili soltanto mediante la disciplina della società
stessa e attraverso il duplice passaggio società-socio. Non
senza dire che il fenomeno non è nuovo né ritenuto aberrante
perché già conosciuto nel nostro ordinamento ad esempio nella
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ipotesi di partecipazione ad associazioni temporanee di
impresa, di joint venture e, in altri ordinamenti,
proprio a società di persone. Ciò si è detto per completezza
di indicazione pur consapevoli che, sotto questo profilo,
sorgono più complesse problematiche anche se non
insormontabili. Al riguardo si veda, ad esempio: l'ipotesi di
cui agli articoli 2532 e 2535 del codice civile; la
partecipazione a consorzi o a società consortili (confronta
articolo 2615- ter del codice civile). Da ultimo, contro
la supposta necessità di omogeneità degli ordinamenti, vi sono
i casi normativamente legittimi e che riguardano le
partecipazioni industriali dei comuni, delle regioni e delle
province, dell'Ente nazionale per le strade (ANAS), il sistema
delle partecipazioni statali. E cosa avverrebbe nel caso,
concretamente sussistente, di partecipazione di una società
per azioni in società di capitali o di persone e viceversa,
che sono legittime e ammissibili in ordinamenti dell'Unione
europea e non?;
6) ultimo, ma non meno importante, argomento sostenuto
dai fautori della tesi dell'inammissibilità, è la pretesa
inconciliabilità della partecipazione di una società per
azioni ad una società in accomandita semplice, con le norme
che disciplinano formazione e pubblicità del bilancio della
prima. Si dice, in sintesi, che non essendo le società in
accomandita semplice, tenute alla redazione dei bilanci
secondo le norme di redazione e di pubblicità previste per le
società di capitali, impedirebbero alla partecipante di
assolvere gli obblighi di trasparenza impostile dagli articoli
2423 e seguenti del codice civile. Anche in questo caso, non
si riesce ad individuare quale sia la norma o il principio
inderogabile, non solo violato ma finanche minacciato dalla
"peccaminosa" congiunzione tra società di persone e di
capitali. Con riferimento alla partecipazione di una società
per azioni in una società in accomandita semplice in veste di
accomandante (che è quanto interessa in questa sede), dal
punto di vista normativo, infatti, non può che constatarsi
quanto segue:
a) l'articolo 2320, ultimo comma, del codice
civile, dà diritto agli accomandanti di ricevere comunicazione
annuale del bilancio e del conto dei profitti e delle
perdite;
b) non sembra seriamente dubitabile che bilancio e
conto profitti e perdite (che in realtà del bilancio fanno
parte) debbano essere redatti secondo le forme e con le regole
fissate dagli articoli 2423 e seguenti del codice civile, che
segnano il parametro generale delle regole di trasparenza e di
correttezza di questa fondamentale comunicazione sociale;
c) di conseguenza, a chiusura di ciascun
esercizio, gli amministratori della società per azioni
partecipante potranno avere a disposizione un documento
rappresentativo della situazione economico-patrimoniale della
società, redatto secondo princìpi e norme coerenti, in modo da
poter assolvere al proprio dovere di valutazione della
partecipazione, secondo il disposto dall'articolo 2426, primo
comma, numeri 1) e 4), del codice civile;
d) peraltro, il numero 4) del primo comma
dell'articolo 2426 del codice civile si esprime in termini di
"partecipazione in imprese (...)", utilizzando addirittura una
nozione più ampia di quella di società, il che sembra
decisamente incompatibile con la pretesa di confinare la
possibilità di partecipazione ad un solo genere di compagine
sociale;
e) nessuna norma impone che le società partecipate
debbano avere lo stesso regime di pubblicità dei bilanci
previsto per la partecipata, anzi, l'articolo 2429 del codice
civile, fa menzione dei bilanci delle società collegate e
controllate, ma non pretende mai che questi siano stati a loro
volta oggetto di pubblicazione.
Si tratta, in conclusione, di un argomento del tutto privo
di supporto normativo, né di alcuna giustificazione
logico-sistematica; per tacere della sua assoluta incoerenza
con la pacifica ammissibilità dell'acquisto di partecipazioni
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in società estere, con regimi di redazione e di pubblicità dei
bilanci affatto differenti;
7) non ci si può esimere, conclusivamente, dal rilevare
che l'impianto del nostro ordinamento non distingue tra
persone fisiche e persone giuridiche quanto a partecipazione
in una società in accomandita semplice; di modo che la
preclusione per le persone giuridiche societarie di capitale è
frutto di un preconcetto fisicistico della possibilità
partecipativa. Del resto, quando il legislatore ha voluto
porre questo limite della individuazione fisica lo ha fatto
espressamente come si è statuito nella previsione
dell'articolo 1, secondo comma, della legge 5 agosto 1981, n.
416, disponendo che "Agli effetti della presente legge le
società in accomandita semplice debbono in ogni caso essere
costituite soltanto da persone fisiche". E siffatta
disposizione sarebbe del tutto priva di senso se non avesse il
presupposto che, normativamente, di regola nelle società in
accomandita semplice possono essere soci anche non persone
fisiche al limite e almeno per l'accomandante.
Quanto fin qui detto suffraga intuitivamente ed anche con
il sostegno della dottrina la possibilità da parte delle
società di persone di partecipare alle società in accomandita
semplice.
Vi è, infine, da dire che appare indispensabile estendere
l'applicazione della normativa che si propone sia alle
situazioni di fatto già in essere incontestatamente sia a
quelle per le quali vi siano contestazioni con giudizi in
corso e non ancora definiti.
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