| Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge
mira a riformare l'insieme del "sistema difesa" del nostro
Paese, a renderlo più attinente al nuovo scenario
internazionale e a quel ripudio della guerra sancito
dall'articolo 11 della Costituzione che rimane - alle soglie
del terzo millennio - il faro che deve ispirare la politica
estera della Repubblica italiana.
Trattandosi di una riforma istituzionale tra le più
delicate (alle Forze armate la Costituzione delega l'uso delle
armi e della forza) che ha ripercussioni sia sull'ordinamento
interno sia sulla politica internazionale del nostro Paese,
appare necessario precisare qual è il quadro internazionale
complessivo nel quale il nuovo strumento di difesa deve
agire.
Questa visione globale è particolarmente necessaria in un
pianeta sempre di più attraversato da ingiustizie colossali e
da disparità crescenti tra aree ricche e aree povere. Senza
questa analisi si può cadere - come propongono gli assertori
del Nuovo modello di difesa (NMD) - nella tentazione di
affrontare la sfera militare come un qualcosa a se stante dal
resto delle dinamiche mondiali. Questa impostazione, dominante
nelle posizioni espresse in materia dal Governo, porta
inevitabilmente a soluzioni di "contenimento" militare della
instabilità planetaria, dando - in questo crescente disordine
mondiale - per scontati ed immutabili gli scenari di
ingiustizia e di impoverimento progressivi di settori sempre
più vasti dell'umanità.
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La prima questione essenziale è dare priorità alla
politica: la sfera militare deve essere subordinata ad essa,
non può esserne una variante indipendente.
Nel processo di globalizzazione capitalista gli Stati
nazionali sono messi fortemente in discussione alla radice
dalla libertà di mercato senza regole e confini. Si tratta di
un esproprio dei poteri e di una loro concentrazione verso il
vertice della piramide (sempre più ristretto se è vero che 358
persone detengono nelle loro mani private ricchezze pari a
quelle di 2 miliardi e mezzo di persone) che esautorando gli
Stati nazionali dalle loro tradizionali politiche di
protezione (lo Stato sociale, la politica ridistributiva,
eccetera) rischia di delegare loro solo l'uso della forza (di
polizia e militare).
Questo scenario è pericolosissimo sotto il profilo
democratico e foriero di una involuzione autoritaria di
dimensioni inimmaginabili.
Se si accetta questo quadro, con la conseguente
parcellizzazione del tema militare, allora il NMD come ci è
stato prospettato ne è una obbligatoria conseguenza. Se invece
si opera per modificare questo quadro allora ne discende un
sistema di difesa altro, più compatibile con le politiche di
pace che, in questa fase storica, significano in primo luogo
rimozione delle violentissime ingiustizie prodotte dal sistema
economico dominante.
Da questa scelta politica discende la nostra proposta di
organizzazione della difesa che per le sue caratteristiche
dovrà essere doppiamente innovativa sia rispetto al vecchio
sistema basato sull'esercito di massa sia nei confronti di chi
vorrebbe delegare a degli specialisti della guerra (esercito
professionale) il sacro dovere della difesa della Patria
stabilito dall'articolo 52 della Costituzione.
Interessi nazionali ed interessi della collettività
umana.
In questi decenni è andato modificandosi lo stesso
concetto di difesa. Un tempo esso era organizzato intorno alla
tutela dell'integrità territoriale del Paese (i confini della
Patria), oggi, vuoi per il processo di costruzione europea e
per la globalizzazione dei mercati, vuoi per l'improbabilità
di una aggressione diretta ed armata nei confronti della
Nazione, la difesa necessariamente deve tutelare interessi
collettivi del Paese e dell'insieme dell'umanità.
Gli assertori del NMD hanno tentato in questi anni
(riuscendoci con atti concreti mai discussi ed approvati dal
Parlamento) di spostare il concetto di difesa da quello dei
confini a quello degli interessi nazionali, addirittura
definendo le aree di intervento strategico a tutela degli
stessi (area balcanica e mediterranea, corno d'Africa, le
rotte del petrolio).
Nelle missioni in Somalia ed in Albania si è assistito al
riproporsi di un nazionalismo vecchia maniera (l'idea dei
protettorati, anche se chiamati in altro modo) dove
l'interesse nazionale all'intervento militare sovrastava lo
stesso interesse di appartenenza al mondo occidentale (ed al
suo modo di produrre e di consumare). Nella guerra del Golfo
del 1991, invece, gli interessi nazionali venivano fatti
coincidere con quelli più generali dei Paesi industrializzati
in una crociata per il possesso della vena giugulare del
petrolio.
Gli interessi nazionali non dovrebbero essere tali quando
non coincidono (anzi ledono) gli interessi collettivi della
comunità umana. Poiché non crediamo all'esistenza di due
categorie tra il genere umano (una degli eletti, quella dei
Paesi ricchi che devono detenere l'80 per cento della
ricchezza mondiale; l'altra quella dei derelitti, condannati a
contendersi le briciole o addirittura cancellati da ogni
futuro dalle politiche degli "aggiustamenti strutturali" della
Banca mondiale) è bene che la definizione degli "interessi
nazionali" ritorni a tenere conto di questo presupposto.
Il fondamentalismo del mercato sta producendo
fondamentalismi di risposta che stanno portando indietro
l'umanità. Si può fingere di arginare il fondamentalismo
islamico per esempio con le forze d'intervento rapido, il
sostegno al massacratore Zerual, tenere in vita la comoda
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figura di Saddam Hussein, consentire alla Turchia ogni
impunità e ad Israele di stracciare gli accordi siglati (ma è
appunto una finzione perché in questa impostazione si ha
"l'effetto colabrodo": tappi un buco da una parte e ne
riesplodono due da un'altra). O si può, come si dovrebbe,
rimettere in discussione il fondamentalismo generatore di
altri, quello che innesta l'effetto "vortice". Di nuovo si
tratta d'intervenire sulle cause e non sulle conseguenze. Di
nuovo spetta alla politica indicare altre strade che
ridistribuiscano ricchezza verso il basso disarmando alla
radice gli argomenti dei terroristi, rilanciando la
cooperazione allo sviluppo, sviluppando un concetto di
sicurezza includente e rinunciando a quello escludente.
Meno Forze armate e più civili nel nuovo concetto di
difesa allargata.
In questa concezione nuova della "difesa allargata"
occorre comprendere che l'elemento militare - pur rimanendo
importante - non può più essere concepito come esclusivo. Non
solo la Corte costituzionale ha precisato che si può servire
l'articolo 52 della Costituzione anche senza le armi, ma la
stessa nuova legge sull'obiezione di coscienza (legge 8 luglio
1998, n. 230) ha reso parte integrante della nostra
giurisprudenza il concetto che la difesa appartiene
all'insieme della collettività. Per questo la salvaguardia e
la modernizzazione del carattere popolare della difesa non
sono una questione - come asseriscono i fautori dell'esercito
esclusivamente professionale - di nostalgici della rivoluzione
francese. Esse acquisiscono una moderna centralità democratica
nel momento in cui i poteri vengono sempre di più concentrati
verso l'alto e alla crisi degli Stati nazionali non fa seguito
- al contrario delle leggi di mercato libere di invadere ogni
spazio della vita umana - un riposizionamento in una sede
democratica sovranazionale della volontà e della
partecipazione popolari. Per decenni l'impostazione
sostanzialmente sabauda della coscrizione obbligatoria si è
approcciata nei confronti del cittadino maschio come se il
servizio di leva fosse una sorta di servitù, una sottrazione
della libertà dell'individuo da parte dello Stato. I fenomeni
di spersonalizzazione dei militari di leva derivano anche e
soprattutto da questa concezione punitiva della leva
obbligatoria e della sua incapacità di farla vivere secondo i
valori fondanti della nostra Costituzione. L'ostinata
separazione tra mondo militare e mondo civile non è solo
dovuta ad una supposta e sbagliata indipendenza del primo dal
secondo ma anche dall'incapacità di adeguare i valori delle
Forze armate al comune sentire della società nel suo
complesso.
Di fronte a questa innegabile difficoltà la scappatoia di
occultare il problema passando a Forze armate di
professionisti, pronti ad "uccidere e morire" come ebbe a dire
alcuni anni fa il generale Canino, è al contempo pericolosa e
sbagliata. Si vuole impedire alla società di rompere la
separatezza tra mondo militare e civile attraverso il perverso
strumento della delega a poche persone di una funzione
delicatissima espropriando i cittadini non solo di un dovere,
ma anche di un diritto democratico.
Sempre più sovente l'invasione di campo avviene
all'opposto: è il mondo militare, proprio perché separato dal
resto della società, a cercare d'invadere spazi propri del
mondo civile. Si pensi all'impiego delle Forze armate in
funzione di ordine pubblico (proprio quando si tagliano gli
ausiliari di leva nei Carabinieri e nella Polizia di Stato),
alla distribuzione di aiuti umanitari, alla costruzione di
scuole ed ospedali nei Paesi bisognosi.
Con la presente proposta di legge pensiamo che non siano
percorribili scorciatoie di Forze armate mercenarie ma che sia
necessaria l'assunzione da parte della collettività del
problema difesa. Per questo vediamo nel sistema difesa del
futuro una riduzione del peso numerico delle Forze armate
(anche se con una riqualificazione delle funzioni) ed una
maggiore presenza della componente civile.
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Per questo proponiamo di passare dai 296.269 militari
attuali tra Aeronautica, Marina ed Esercito, a 180 mila unità
delle Forze armate di cui per metà professionisti (ufficiali,
sottufficiali e volontari in servizio permanente) e per metà
militari di leva. La componente di leva (che attualmente è
circa il 60 per cento delle tre armi) passerebbe dagli attuali
170 mila soldati a 90 mila, includendo i militari a ferma
prolungata. Questa riduzione del contingente di leva
consentirà la riduzione del periodo di ferma nei prossimi anni
fino ad otto mesi, mentre il personale professionistico
eccedente dovrebbe essere dislocato sia nel costituendo Corpo
della protezione civile (smilitarizzato) sia nelle altre
amministrazioni dello Stato, sia messo a riposo con una
politica oculata di prepensionamenti. Tutte le mansioni non
militari che oggi vedono invece impiegato personale militare
(cucine, pulizie, gestione spacci, amministrazione, eccetera)
dovrebbero passare ai civili.
Il cittadino davanti alla leva obbligatoria troverebbe a
dover scegliere tra quattro possibilità:
a) fare il servizio militare di leva normale o a
ferma prolungata;
b) richiedere di fare parte del contingente di
leva impegnato nella protezione civile;
c) fare l'ausiliare nei Corpi di polizia e nella
Guardia di finanza;
d) dichiararsi obiettore di coscienza ed entrare a
fare parte della difesa popolare nonviolenta (DPN).
L'articolo 9 della presente proposta di legge istituisce
il Dipartimento della difesa popolare nonviolenta con il
compito di coordinare, pianificare ed organizzare le forme non
militari di difesa dell'unità della Repubblica, della
sovranità, dell'indipendenza e dell'integrità dello Stato, del
libero esercizio dei poteri costituzionali, della protezione
della vita e dell'incolumità dei cittadini. La DPN è la
concretizzazione dei valori che fondano l'obiezione di
coscienza, la consapevolezza che si può agire nei luoghi del
conflitto (anche in forma preventiva) senza ricorrere alla
violenza delle armi. La sua istituzione darebbe valore alla
scelta di obiezione in piena sintonia con la sentenza della
Corte costituzionale già citata, evitando che gli obiettori si
trasformino - come tristemente sta avvenendo - in massa di
mano d'opera sostitutiva a basso costo della forza lavoro. La
DPN è una risposta anche ai tanti obiettori che si sono recati
all'estero in luoghi di guerra per ricostruire ponti di
dialogo e di pace. Con l'istituzione del Dipartimento e della
Scuola di formazione alla DPN lo Stato assume questa forma di
difesa come legittima e propria ed inserisce i quadri
dirigenti della stessa nel dispositivo difensivo della
Nazione.
Di grande rilievo sono inoltre le disposizioni inerenti a
superare, nella forma possibile, la concezione di esercito "da
caserma" con l'obbligo fatto ai comandi di mettere in permesso
e/o in licenza il personale non impegnato in servizio,
l'istituzione di un telefono verde e di un difensore civico
per i militari di leva.
Si prevede, inoltre, l'accesso delle donne nei Corpi di
polizia militare (Carabinieri, Guardia di finanza e
Capitaneria di porto) oltre che nella protezione civile e nel
corpo della DPN. Una scelta, questa, per rispondere
all'ipocrisia portata avanti da chi propone le donne soldato.
Del tutto strumentale è infatti il discorso sulla democrazia e
sulla parità sviluppato riguardo all'introduzione del servizio
militare per le donne. Esso è funzionale al tentativo di
accreditare una immagine dell'esercito più moderna e
all'altezza dei tempi, più accattivante sia rispetto
all'opinione pubblica, senza il cui consenso risultano
impraticabili le missioni militari all'estero, sia rispetto ai
potenziali volontari. La presenza delle donne nelle Forze
armate può contribuire ad occultare le reali finalità del NMD
e ad avallare propagandisticamente presso l'opinione pubblica
la pretesa delle Forze armate di porsi come tutrici della pace
e dei diritti umani violati. Destinatari della campagna
pubblicitaria a cui il servizio volontario femminile è
funzionale sono probabilmente anche giovani che le Forze
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armate aspirano ad arruolare come professionisti nelle loro
fila. Forse è il tentativo di rassicurare questi ultimi
proponendo loro un esercito che per composizione è meno
difforme dall'ambiente sociale esterno. Forse è il tentativo
di suscitare nei giovani maschi una sorta di orgoglio di
genere che li sproni a porsi in competizione con le donne
nell'esercizio di quel ruolo che tradizionalmente solletica in
misura maggiore certi istinti virilisti, la professione
bellica. Ed è questa probabilmente la funzione principale
dell'accesso delle donne all'esercito: il tentativo di
presentare quella del soldato come una professione qualsiasi.
E tutto allora si concatena logicamente: infatti se il
militare è solo un lavoro ne consegue che, per pari
opportunità, anche le donne debbano averne diritto; ovvero
viene loro concesso questo diritto per dimostrare che il
militare è solo un lavoro. Ancora una volta, la parità che
viene riconosciuta alle donne è quella di fare come gli
uomini. Noi pensiamo che si debba cominciare invece da quei
Corpi che per loro natura - compiti di polizia - agiscono tra
la società civile contribuendone a demilitarizzare gli
stessi.
In sintesi dunque la presente proposta di legge:
1) riduce il numero degli appartenenti alle Forze armate
(Aeronautica, Marina ed Esercito) dalle attuali 300 mila unità
a 180 mila militari, dei quali per metà professionisti
(ufficiali, sottufficiali, volontari in servizio permanente) e
per l'altra metà di leva. Si ottiene:
a) il rispetto dell'articolo 52 della
Costituzione, relativo al carattere popolare della difesa (al
contrario di quanto asserito dai fautori dell'esercito
professionale, la cancellazione della leva non può avvenire
per legge ordinaria ma deve essere modificata la
Costituzione);
b) la riduzione ad otto mesi della ferma
(arrivando a sei mesi entro tre anni);
c) Forze armate snelle ed efficienti, con un
forte risparmio sulle strutture e sugli uomini, limitando il
ricorso agli incentivi (posti riservati nella pubblica
amministrazione per i volontari) che avrebbero fatto lievitare
tantissimo i costi e militarizzato il pubblico impiego;
d) di rendere più umana la leva, prevedendo un
orario massimo di servizio (40 ore settimanali), la libertà
nelle giornate di sabato e domenica (limitabili solo per
ragioni di servizio), un innalzamento proporzionale alla
distanza da casa della paga per i militari di leva verso i
quali non è possibile soddisfare l'esigenza di effettuare la
ferma in caserme distanti al massimo 100 chilometri dalla
residenza; un accesso facilitato alle licenze (non più
concessione ma diritto); l'istituzione di un difensore civico
e di un numero verde per combattere il nonnismo ed eventuali
soprusi dei superiori nei confronti della truppa;
e) di affidare a personale civile gli incarichi
burocratici, amministrativi e logistici non di specifico
interesse militare (non più militari di leva usati come
sguatteri nei circoli ufficiali);
2) istituisce una leva della protezione civile, con un
proprio Ministero e strutture territoriali (in rapporto con le
regioni e gli enti locali e potenziando i vigili del fuoco) in
grado di impegnare i giovani nella prevenzione dei cataclismi
naturali o derivanti da responsabilità umana, lottando contro
gli incendi boschivi, le alluvioni, i terremoti e valorizzando
il volontariato civile.
Si riconvertono risorse umane e finanziarie dal settore
militare al settore civile, impiegando nella nuova struttura
della protezione civile il personale militare (smilitarizzato)
proveniente dalla riduzione degli organici delle Forze armate
nonché le risorse liberate dalla contrazione delle spese
militari;
3) istituisce la difesa popolare nonviolenta, con una
propria scuola di formazione ed un Dipartimento che si avvale
di personale permanente e dei giovani che hanno scelto
l'obiezione di coscienza. Si valorizzano, concretizzandoli, i
valori dell'obiezione di coscienza (ripudio della guerra e
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della violenza delle armi) con un servizio che abbia pari
dignità con quello militare e serva alla difesa della Nazione
e degli interessi di pace del nostro Paese, evitando l'uso
improprio degli obiettori come manodopera sostitutiva a scarso
costo da parte di enti pubblici e privati;
4) istituisce regole certe e democratiche per l'impiego
dei militari e degli obiettori di coscienza all'estero,
evitando che importanti missioni possano attuarsi senza il
voto ed il controllo del Parlamento. Si istituisce un Comitato
parlamentare di controllo e di indirizzo che vigilerà per
tutta la durata delle missioni;
5) mette a disposizione del Segretariato generale
dell'ONU un contingente permanente di militari (caschi blu) ed
uno equivalente di obiettori di coscienza (caschi bianchi) per
missione di interposizione, di ristabilimento della pace, di
aiuto alle popolazioni colpite dalla guerra o da
cataclismi.
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