| Signore Colleghe, Signori Colleghi! - Il tipo di
organizzazione statale tracciato dal Costituente è quello di
uno Stato sociale di diritto che, per garantire eguali libertà
e dignità a tutti i cittadini, si fa carico di intervenire
attivamente in prima persona nella società e nell'economia per
rimuovere gli ostacoli alla piena realizzazione della persona
umana e alla sua partecipazione attiva e consapevole alla vita
politica, economica e sociale. Tra i princìpi fondamentali
della Costituzione c'è quello affermato dall'articolo 3, dove
è ripreso il principio propugnato dalla rivoluzione francese
secondo il quale, la "legge è uguale per tutti". Questa
solenne affermazione del principio di eguaglianza formale
vieta al legislatore di introdurre norme discriminatorie.
L'uguaglianza formale trova, inoltre, riscontro anche in altre
disposizioni costituzionali: nell'articolo 29, quando
attribuisce ai coniugi, all'interno della famiglia, pari
dignità morale e giuridica; nell'articolo 37, quando riconosce
alla donna lavoratrice gli stessi diritti dell'uomo.
Con la "rimozione" degli ostacoli previsti dal secondo
comma dell'articolo 3, la Costituzione auspica una forma di
Stato sociale interventista che, puntando sulla liberazione
dei cittadini dal bisogno e dall'ignoranza, tenda a creare le
condizioni opportune per consentire ai soggetti più deboli,
anche bambini ed anziani, di esercitare concretamente i propri
diritti ed essere effettivamente liberi ed uguali.
Dalla lettura e dall'attenta analisi delle categorie
elencate al primo comma dell'articolo 3 della Costituzione si
evince la mancanza di un riferimento all'età. Si ritiene che
non si tratti di una mancanza superflua visto che l'articolo 3
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rappresenta il cuore della Costituzione. Inoltre, l'articolo
3, come si diceva prima, vieta, o meglio condiziona l'intero
ordinamento, impedendo che: "(...) la legge ponga in essere
una disciplina che, direttamente o indirettamente, dia vita ad
una non giustificata disparità di trattamento delle situazioni
giuridiche, indipendentemente dalla natura e dalla
qualificazione dei soggetti ai quali queste vengono imputate"
(Corte costituzionale, sentenza n. 25 del 1966).
Non mancano disposizioni normative nazionali ed
internazionali a tutela dei minori e dell'infanzia. Occorre
ricordare anzitutto la Convenzione internazionale sui diritti
del fanciullo, approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni
Unite il 20 novembre 1989 a New York: questa data coincideva
con un duplice anniversario, la Dichiarazione universale dei
diritti dell'uomo (1789) e la Dichiarazione dei diritti del
bambino (1959). Essa rappresenta il più importante tra gli
strumenti per la tutela dei diritti dei bambini.
La citata Convenzione non si limita infatti ad una
dichiarazione di princìpi generali ma, se ratificata,
rappresenta un vero e proprio vincolo giuridico per gli Stati
contraenti che devono uniformare le norme di diritto interno a
quelle della Convenzione per far sì che i diritti e le libertà
in essa proclamati siano resi effettivi. La Convenzione è
stata, finora, ratificata da 191 Paesi, tra i quali l'Italia,
con legge 27 maggio 1991, n. 176.
La Convenzione pone un forte accento sui diritti materiali
e sulla necessità di interventi a sostegno delle politiche per
l'infanzia. Inoltre, sancisce il diritto al benessere per
tutti i bambini e alla loro valorizzazione come persone,
attraverso il diritto al gioco, all'informazione,
all'espressione della propria opinione, ad associarsi
liberamente.
Per verificare l'applicazione della Convenzione è stato
istituito un Comitato sui diritti dell'infanzia con il compito
di monitorare il processo di cambiamento. Il Governo,
pertanto, è obbligato a presentare un rapporto al Comitato
ogni cinque anni specificando i provvedimenti presi per
modificare le leggi nazionali, per formulare politiche
adeguate e per attuarle. Su oltre 40 Paesi i cui rapporti sono
stati esaminati, 14 avevano incluso nella loro Costituzione i
princìpi della Convenzione e 35 avevano approvato nuove leggi,
o emendato quelle esistenti, per conformarsi ad essa.
Sarebbe auspicabile che, nel presentare il prossimo
rapporto, il nostro Governo includesse in esso quanto
contenuto nella presente proposta di legge costituzionale.
Oltre al dovere dello Stato di ascoltare i bambini,
sancito dalla Convenzione dell'ONU sui diritti dell'infanzia,
vi sono altri motivi per i quali il coinvolgimento dei
bambini, come soggetti attivi, è indispensabile. In primo
luogo, la loro partecipazione oggi deve essere valutata come
un investimento per il futuro, come fattore essenziale nella
costruzione di una democrazia compiuta.
Già molto è stato fatto in questi ultimi anni, come il
piano di azione nazionale per i diritti all'infanzia, la legge
n. 285 del 1997, l'istituzione della Commissione speciale per
l'infanzia e dell'Osservatorio nazionale sui minori.
Tanto fervore di attività è giustificato dal cambiamento
di rotta del mondo della politica e delle istituzioni nei
confronti dei più giovani. Questo diverso approccio, seppur
ancora settoriale, arriva a riconoscere il principio
essenziale secondo cui il bambino è soggetto di diritti.
La modifica proposta all'articolo 3 della Costituzione
intende essere un'ulteriore stimolo al fermento, legislativo e
non, sui temi dell'infanzia.
Inserire, nei princìpi fondamentali della nostra
Costituzione, l'età come elemento antidiscriminatorio
nell'azione positiva delle attività delle pubbliche
amministrazioni sia a livello centrale che a livello locale,
significherebbe impostare una strategia globale per lo
sviluppo dei soggetti in età evolutiva.
Completare il principio di uguaglianza con un richiamo
esplicito all'età nella Costituzione non è soltanto un riparo
ad una dimenticanza, ma un'attribuzione di valore
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costituzionale, vincolante sia per il legislatore ordinario,
sia per gli organi della Repubblica.
E' superfluo ricordare che una volta introdotto il
principio dell'età, questo varrà, oltre che per i minori,
anche per gli anziani. Se consideriamo quest'ultima categoria,
gli anziani, i recenti dati della relazione generale sulla
situazione economica del Paese, elaborata dal Ministero del
tesoro, del bilancio e della programmazione economica,
l'improcrastinabilità di tale provvedimento risulta ancora più
urgente. Infatti, l'indice di vecchiaia - che misura il
rapporto tra le persone di sessantacinque anni e oltre e i
giovani minori di quindici anni - è ovunque aumentato in
maniera consistente. Il valore nazionale è risultato nel 1998
pari a 119,4, mostrando quindi un sensibile incremento
rispetto al 61,7 del 1981. L'indice è assai più elevato per la
popolazione femminile - 144,2 contro 95,9 dei maschi - e
risulta quasi il doppio al nord (153,7) rispetto alle regioni
del Mezzogiorno (81,2). La distribuzione percentuale della
popolazione per classi di età mostra sempre la minore
consistenza dei giovani: l'incidenza dei ragazzi fino a
quattordici anni sul totale si è infatti ridotta dal 21,5 per
cento del 1981 al 14,6 per cento del 1998, mentre è aumentata
quella degli anziani, passati dal 13,2 per cento al 17,4 per
cento.
Il riferimento all'età varrebbe, comunque, anche per
evitare discriminazioni nel mondo del lavoro, in una
situazione nella quale sempre di più ci si appresta ad entrare
in questa realtà in età avanzata. Se poi consideriamo le
difficoltà che incontra chi ha perso il lavoro a reinserirsi
nel mondo produttivo, allora ci troviamo di fronte ad una vera
e propria emergenza. Valgono, anche qui i dati della relazione
generale sulla situazione economica del Paese, elaborata dal
Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione
economica, che indicano per il 1998 un aumento degli iscritti
nelle liste del collocamento. Il dato medio del 1998 rispetto
a quello del 1997 ha registrato un incremento pari al 6,1 per
cento. L'aumento più vistoso riguarda sia gli iscritti in
cerca di prima occupazione, con una differenza pari a più 9,5
per cento, sia gli iscritti con precedenti lavorativi, con una
differenza pari a più 3,8 per cento.
Si auspica, per le ragioni esposte, la rapida approvazione
della presente proposta di legge costituzionale.
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