| Onorevoli Colleghi! - L'esito del referendum del
18 aprile 1999 ha reso evidente la gravissima distorsione
della logica democratica che il quorum di partecipazione
alla votazione comporta, soprattutto in relazione alla
progressiva crescita dell'astensionismo "strutturale" o
"fisiologico" che si è registrata negli ultimi venti anni.
Una minoranza, anche modesta, che inviti più o meno
apertamente ad astenersi è in grado di imporsi
matematicamente, sol che disponga di un 20 per cento circa di
consensi, perché può sommarsi, nello stesso tempo che la
fomenta, alla crescente "disaffezione" di molti cittadini alla
res pubblica. Essa può inoltre sommarsi alla quota di
cittadini residenti all'estero, i quali non sono ancora messi
in grado di esercitare il loro diritto al voto, per non
parlare del cattivo mantenimento delle liste di tali elettori,
fattori che mutano addirittura la base stessa sulla quale si
computa il quorum.
I conti sono presto fatti: gli oltre 21 milioni di sì
ottenuti dal referendum del 18 aprile rappresenterebbero
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oltre il 70 per cento dei voti validi con un'affluenza alle
urne del 60 per cento e oltre il 60 per cento dei voti validi
con una partecipazione al voto del 70 per cento degli aventi
diritto. Questo, si noti bene, ammesso (e non concesso) che
tutti i non votanti avrebbero espresso, una volta alle urne,
una volontà negativa. Si tratterebbe comunque di nettissime
affermazioni dei promotori del referendum.
Nelle democrazie liberali i cittadini che non votano pur
avendone la facoltà e la possibilità, non contano niente. In
Italia è vero il contrario: i cittadini che non votano contano
di più di quelli che votano. Considerando le percentuali che,
elezione dopo elezione, non si recano alle urne, è sufficiente
convincere il 20-25 per cento di elettori per rendere inutile
la partecipazione del restante 49,9 per cento dell'elettorato!
Perché mai i sostenitori di una tesi largamente minoritaria
nel Paese dovrebbero accettare a viso aperto un confronto tra
il sì e il no quando possono molto più agevolmente invalidare
il referendum convincendo a non votare solo una ridotta
quota di elettori?
In nessuna democrazia liberale esiste una norma
corrispondente al quarto comma dell'articolo 75 della
Costituzione, che stabilisce che l'esito del referendum
è valido solo se partecipa alla votazione almeno il 50 per
cento più uno degli aventi diritto. Non si tratta certamente
di una norma liberale, ma piuttosto giacobina. Non solo. E'
stato rilevato come in determinati contesti di forte controllo
politico e sociale della comunità da parte di alcune forze
politiche e sociali, quella clausola costituisce un'oggettiva
minaccia per la libertà e la segretezza del voto del cittadino
(chi va a votare viola le consegne di non voto date dal
partito, dal sindacato, eccetera). Occorre inoltre ricordare
che il quorum di partecipazione alla votazione non è
previsto, ovviamente, neppure dal referendum in materia
costituzionale di cui all'articolo 138 della Costituzione.
In Svizzera e negli Stati Uniti, dove la pratica
referendaria è molto diffusa, non esiste alcun quorum di
votanti come requisito per la validità del referendum.
Così è anche in tutte le altre democrazie liberali, ad
eccezione della sola Danimarca, dove è previsto un
quorum del 40 per cento dei votanti per i
referendum obbligatori su emendamenti di revisione della
Costituzione (articolo 88) e un quorum del 30 per cento
dei votanti per il referendum su leggi ordinarie
richiesto da un terzo dei membri del Parlamento (articolo
42).
Alle luce di queste considerazioni appare assolutamente
necessario e urgente abolire il quorum di partecipazione
al referendum previsto dal quarto comma dell'articolo 75
della Costituzione al fine di impedire la sostanziale
cancellazione dell'istituto del referendum abrogativo
dall'ordinamento e di far compiere un significativo passo
avanti al nostro Paese sulla strada della democrazia
liberale.
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