Banche dati professionali (ex 3270)
Testi integrali degli Atti Parlamentari della XIII Legislatura

Documento


71261
DDL6098-0002
Progetto di legge Camera n. 6098 - testo presentato - (DDL13-6098)
(suddiviso in 7 Unità Documento)
Unità Documento n.2 (che inizia a pag.1 dello stampato)
...C6098. TESTIPDL
...C6098.
RELAZIONE
ZZDDL ZZDDLC ZZNONAV ZZDDLC6098 ZZ13 ZZRL ZZPR
     Onorevoli Deputati! - Con l'articolo 1 della proposta
  di legge  (Disposizioni in materia di trattamento ai
  superstiti)  si propone l'abrogazione di quella parte del
  comma 41 dell'articolo 1 della legge 8 agosto 1995, n. 335,
  che ha introdotto, secondo l'allegata tabella F, il cumulo
  della pensione di reversibilità con i redditi del coniuge
  superstite.  La norma in vigore, di cui si chiede
  l'abrogazione, è invero viziata di incostituzionalità, lede
  diritti acquisiti e aspettative, rappresenta un incentivo
  all'evasione o elusione fiscale, è contraria ai princìpi del
  sistema pensionistico e, infine, non porta alcun beneficio al
  bilancio previdenziale.
       Violazione di norme costituzionali.  La normativa
  vigente sulla pensione ai superstiti è mirata esclusivamente a
  fronteggiare le passività del bilancio previdenziale, nel
  quale peraltro è ampiamente provato che non sono le "vere"
  pensioni, ma i trattamenti assistenziali ad alimentare il
  deficit.  Gli articoli 3 e 53 della Costituzione,
  unitariamente considerati, affermano il principio che vieta di
  far gravare oneri generali su categorie ristrette di soggetti.
  Lo Stato è pertanto tenuto a coprire le passività indotte
  dall'assistenza, pur sempre doverosa, con i consueti strumenti
  a cui deve ricorrere per fronteggiare qualsiasi onere
  pubblico, gravandone la generalità dei cittadini, essendogli
  costituzionalmente impedito di penalizzare un numero limitato
  di persone e, in special modo, eredi di soggetti
  particolarmente benemeriti per aver versato per tanti anni i
  contributi ai fondi pubblici di pensione.  La disposizione in
  esame viola gli articoli 3 e 53 della Costituzione, anche
  perché contrasta le due regole costituzionali fondamentali di
 
                               Pag. 2
 
  proporzionare le imposte alla capacità contributiva dei
  soggetti gravati e di informare tutto il sistema tributario a
  criteri di progressività.  E' infatti pacifico che l'articolo
  53 si riferisca a tutte le prestazioni finanziarie, comunque
  denominate, imposte ad un soggetto senza il concorso della sua
  volontà e che il taglio della reversibilità costituisca
  un'imposizione tributaria (anche se il legislatore l'ha
  mascherata parlando di limitazioni della cumulabilità della
  pensione con altri redditi del beneficiario).  Infine, la
  decurtazione della pensione ai superstiti contraddice gran
  parte dello spirito della Carta costituzionale e, in
  particolare, oltre che le norme prima citate, le disposizioni
  degli articoli 29 e 31 (difesa della famiglia) e degli
  articoli 45, 46 e 47 (elevazione economica dei lavoratori e,
  soprattutto, difesa del risparmio).
       Lesione di diritti e aspettative.  La norma in vigore
  lede diritti acquisiti e legittime aspettative nei confronti
  di tutti quei lavoratori per i quali lo Stato a suo tempo
  prese impegni di legge per la loro pensione e per di più senza
  che gli stessi potessero prevedere che, nel futuro, sarebbero
  stati ingiustificatamente penalizzati nel loro patrimonio
  familiare, mirato a garantire una serena vecchiaia anche per
  il coniuge.  La norma in questione lede anche la legittima
  aspettativa del beneficiario a conservare il tenore di vita
  assicuratogli dal coniuge pensionato durante la sua vita ed al
  quale vuole rimanere fedele (la reversibilità si perde se il
  sopravvissuto passa a nuove nozze).
     I princìpi della necessaria ragionevolezza e non
  arbitrarietà della legge, dell'esigenza di certezza del
  diritto, della salvaguardia della buona fede e del rispetto
  dei concessi affidamenti sono stati ribaditi, proprio in
  materia di pensioni, dalla Corte costituzionale con la
  sentenza n. 340 del 17 dicembre 1985, ove si afferma che: "La
  Costituzione non vieta di emanare disposizioni che modifichino
  sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata (...)
  anche se tali disposizioni non possono trasmodare (...) ed
  incidere arbitrariamente in situazioni sostanziali poste in
  essere da leggi precedenti, frustrando così l'affidamento del
  cittadino sulla sicurezza giuridica, come accadrebbe nel caso
  di una legge che, intervenendo in una fase avanzata del
  rapporto di lavoro, ovvero addirittura  nello stato di
  quiescenza,  peggiorasse, senza una inderogabile esigenza,
  in misura notevole e definitiva, un trattamento pensionistico
  in precedenza spettante".  Si tratta di una sentenza
  particolarmente significativa in quanto conclude con una
  implicita denuncia di incostituzionalità della maggior parte
  delle norme lesive di diritti quesiti.  I diritti dei
  pensionati discendono in larga parte da contributi corrisposti
  e ciò comporta una peculiare qualificazione al loro diritto;
  ma qualifica anche il mancato rispetto del diritto stesso, che
  potrebbe intendersi addirittura un'appropriazione indebita da
  parte dell'ente pubblico o, comunque, un atto di insolvenza.
  Simile peculiare qualificazione include la norma in questione
  tra i casi particolari di intoccabilità dei diritti acquisiti
  esistenti nell'ordinamento italiano.
       Incentivo all'evasione o elusione.  La disposizione
  che falcidia la pensione ai superstiti è contraria tanto alle
  regole di una buona politica legislativa, quanto alle stesse
  finalità che il legislatore dichiara di perseguire.  Tale
  disposizione infatti viene a gravare su un numero limitato di
  persone, degne invece di protezione, e impedisce ogni aiuto
  economico non clandestino in favore di molti dei colpiti dalla
  riduzione monetaria.  Ciò spinge all'evasione o elusione,
  legali o illegali, in quanto il coniuge del pensionato, allo
  scopo di evitare il taglio della rendita attesa, potrebbe
  predisporre una specie di autotutela patrimoniale liberandosi,
  ma solo apparentemente, di quei beni il cui reddito non è per
  legge cumulabile con la pensione ereditata.
       Contrarietà al sistema pensionistico.  Le previste
  decurtazioni della reversibilità sono gravemente criticabili
  anche per il solo fatto di essere commisurate al possesso da
  parte dei beneficiari di certi altri redditi extrapensione.
  Simile commisurazione sarebbe giustificabile se operasse nei
  confronti di prestazioni assistenziali (come in effetti
 
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  risulta in tali ipotesi), ma non è affatto accettabile nei
  confronti di prestazioni previdenziali di ordine assicurativo.
  E' indiscutibile che il sistema pensionistico non è di ordine
  assistenziale.  Se si introduce una norma riduttiva, di
  provenienza assistenziale, questa o rivoluziona il sistema
  pensionistico facendolo passare dal campo assicurativo a
  quello assistenziale, o è inficiata da un evidente errore
  tecnico-giuridico.  Siccome però il legislatore ritiene che
  tale norma non operi alcuna rivoluzione del sistema
  pensionistico, per chiederne l'abrogazione è sufficiente
  rilevare la mancata previsione, nel calcolo
  assicurativo-pensionistico, della commisurazione del
  trattamento ai redditi del beneficiario e, da ciò, la
  illegittimità della sua successiva introduzione.  Inoltre,
  trattandosi di una pensione legata ad un rapporto di lavoro
  svolto, è stata commessa una gravissima infrazione
  dell'articolo 36 della Costituzione, il quale dispone che: "Il
  lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla
  quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente
  ad assicurare a sé e alla sua famiglia un'esistenza libera e
  dignitosa".  L'ammontare delle pensioni derivanti da un
  rapporto di lavoro e da contributi versati in misura
  proporzionale alla retribuzione non può fondarsi su criteri
  opposti a quelli del citato articolo 36, essendo fuor di
  dubbio che i diritti assicurativo-pensionistici costituiscono
  una integrazione della retribuzione e che la stessa pensione è
  da considerare "retribuzione differita".  Infine, si osserva
  che la riduzione del trattamento non al lavoratore-pensionato,
  ma ai suoi superstiti, viola l'originario regolamento
  pensionistico ai soli danni dei superstiti, creando in tale
  modo una disparità di trattamento tra il lavoratore e i suoi
  eredi aventi diritto, nettamente contraria al principio di
  eguaglianza tra gli assicurati che informa il sistema
  pensionistico in ossequio alla Carta costituzionale.
       Inefficacia per il bilancio previdenziale.  La
  riduzione della pensione ai superstiti non giova né gioverà
  nemmeno ai bilanci degli enti erogatori, perché: si tratta di
  decurtazioni operate su trattamenti di per sé abbastanza
  contenuti; il numero dei titolari di reversibilità con redditi
  cumulabili non è significativo; la maggior parte dei
  superstiti può a motivo dell'età avanzata godere per pochi
  anni della pensione ereditata.  Infatti, i dati forniti
  dall'osservatorio delle pensioni INPS e relativi ai
  trattamenti in essere al 1^ gennaio 1998 documentano che
  l'importo medio delle pensioni ai superstiti - operante il
  divieto di cumulo previsto dalla legge n. 335 del 1995 -
  ammonta appena a lire 716.016 (in pratica, equivalente al
  trattamento minimo) per una massa di pensioni pari a
  3.711.940.  Considerando la consistenza di tali pensioni
  all'interno dei singoli fondi previdenziali e l'importo medio
  riferito a ciascuna categoria, si osserva che appena il 2,38
  per cento (pari a n. 88.615 pensioni) supera il milione di
  lire mensili, e riguarda per l'appunto le sole categorie i cui
  soggetti possano presentare le maggiori probabilità di cadere
  sotto il divieto previsto dalla legge.  Tale divieto, così
  stando le cose, manterrebbe soltanto il carattere di un
  giustizialismo sociale del tutto opposto a quello naturale
  insito nel rapporto assicurativo previdenziale.
  Importi medi delle pensioni ai superstiti al 1^ gennaio
  1998
  Fondo pensione lavoratori dipendenti: lire 773.133 (2.757.128
  pensioni);
  Coltivatori diretti: lire 395.364 (423.699);
  Artigiani: lire 544.448 (241.070);
  Commercianti: lire 488.898 (201.428);
  Minatori: lire 1.072.472 (3.239);
  Trasporti: lire 1.373.395 (39.275);
  Telefonici: lire 1.485.984 (7.486);
  Esattoriali: lire 1.581.084 (4.717);
  Dazieri: lire 1.228.409 (4.634);
  Gasisti: lire 1.378.973 (2.786);
  Elettrici: lire 1.627.799 (25.874);
  Clero: lire 590.751 (189);
  Volo: lire 2.825.770 (415).
 
                               Pag. 4
 
     Se la falcidia sulle pensioni di reversibilità dovesse
  rimanere legge, si finirebbe per gravare pesantemente sulle
  condizioni economiche di pochi soggetti, spesso meritevoli di
  aiuto, senza giovare alle dissestate (ma non per colpa delle
  "vere" pensioni, come detto) finanze del bilancio
  previdenziale.
     Articolo 2.  (Disposizioni in materia di perequazione
  automatica). -  Introduzione.  I redditi di pensione
  subiscono, nel tempo e con l'inflazione, due tipi di erosione
  in termini reali.  Quella cui sono soggetti tutti i
  contribuenti, causata dal mancato o inadeguato
  ridimensionamento dei parametri dell'imposta sul reddito delle
  persone fisiche (IRPEF) e nota come  fiscal drag;  e
  quella che colpisce solamente i pensionati al di sopra di un
  certo reddito, generata dal cosiddetto "meccanismo di
  perequazione automatica", che per analogia possiamo chiamare
  pension drag.  La prima fa sì che dalle tasche del
  pensionato venga tolto sempre di più, la seconda che nelle sue
  tasche affluisca sempre di meno: la distinzione è pleonastica,
  dato che il risultato è comunque la riduzione progressiva del
  reddito netto.
     Il drenaggio fiscale e quello previdenziale costituiscono
  pertanto delle vere e proprie imposte occulte sull'inflazione,
  in quanto riducono automaticamente il potere di acquisto,
  l'una tassando sempre di più il reddito lordo, l'altra
  tosandolo a monte e determinando quindi un prelievo virtuale.
  Virtuale, ma con effetti ben tangibili.  E ciò anche se
  rimangono invariati i relativi parametri nominali: in termini
  di aliquote, scaglioni e detrazioni per l'IRPEF, e di
  percentuali di copertura del tasso d'inflazione per il
  suddetto meccanismo, che da qui in avanti per brevità
  chiameremo Mpa.  A quest'erosione automatica si aggiungono gli
  interventi del legislatore, che incidono sui parametri
  nominali, quasi sempre inasprendoli, specie a danno delle
  fasce di reddito medio e medio-alto.  Vedi la riforma Dini
  delle pensioni, la riforma Visco dell'IRPEF e le varie leggi
  finanziarie degli anni recenti.  In particolare, i tre
  provvedimenti sul Mpa citati nel testo dell'articolo 2 della
  proposta di legge hanno introdotto elementi di sperequazione
  fra i pensionati e gli altri contribuenti, nonché fra
  pensionati e pensionati, con ciò violando norme
  costituzionali.
     L'entità della sperequazione emerge dall'analisi che
  segue, in cui si quantifica il danno subìto e quello subendo
  dai lavoratori in quiescenza.  Viene preso in considerazione
  non solo il reddito lordo, ma anche il netto, che è quello che
  conta.  Vengono pertanto valutati gli effetti di entrambi i
  meccanismi erosivi -  pension drag  e  fiscal drag  -
  cumulando la loro componente automatica, derivante
  dall'inflazione, con quella generata dal legislatore.  Non da
  un punto di vista macroeconomico, ma da quello dei singoli
  individui, sia pur raggruppati per fasce di reddito.  Al
  pensionato, o al contribuente in generale, interessa infatti
  poco apprendere - e gli riesce difficile credere - che la
  pressione fiscale è rimasta invariata, o che il tasso di
  inflazione è diminuito di qualche decimo di punto: ciò che
  egli direttamente constata rispetto al passato, e teme per il
  futuro, è la riduzione progressiva del suo personale potere di
  acquisto.  In altri termini, ciò che gli importa è la sua
  personale sfera microeconomica.  Quella che egli si configura
  leggendo gli statini della pensione o dello stipendio,
  compilando le dichiarazioni dei redditi e osservando come
  cambia il suo tenore di vita.  L'analisi è limitata al caso più
  semplice di un pensionato senza carichi di famiglia e senza
  altri redditi: una casistica più ampia nuocerebbe alla
  chiarezza e sarebbe comunque non esaustiva.  Vengono anche
  stabiliti dei confronti con un lavoratore dipendente ancora in
  attività, sempre però rimanendo nell'ambito dei redditi
  fissi.
       Inquadramento del problema.  Distingueremo i redditi,
  lordi o netti, in effettivi e teorici.  Effettivi quelli di
  fatto percepiti.  Teorici quelli che idealmente terrebbero il
  passo con il costo della vita, mantenendo nel tempo il loro
  potere di acquisto, se venissero rivalutati al 100 per cento
  del tasso d'inflazione (a decorrere dall'inizio del periodo di
  osservazione, che qui è il 1991, in cui valori effettivi e
  teorici naturalmente coincidono).  I redditi verranno espressi
  a volte in lire correnti, a volte anche in lire costanti (qui
 
                               Pag. 5
 
  useremo sempre lire del 1997): potranno quindi essere nominali
  o reali.
     Analogamente in tema di aliquote fiscali, che qui saranno
  sempre quelle medie: nominali quelle ufficiali correnti
  nell'anno considerato, effettive quelle derivanti dal relativo
  drenaggio.  Verranno, inoltre e in seguito, introdotti i
  concetti di deriva e quello di aliquota equivalente al
  drenaggio previdenziale.
     Come anticipato, Mpa è l'abbreviazione di meccanismo di
  perequazione automatica.
     Viene presa in considerazione la fascia di redditi da 25 a
  200 milioni di lire (annue lorde, 1997), corrispondenti a
  circa 1,6 e 9,5 netti mensili.  E' la fascia, configurata a
  piramide, in cui si colloca la maggioranza dei pensionati di
  vecchiaia che hanno lavorato per quarant'anni o giù di lì,
  versando - assieme alle loro aziende - adeguati contributi, e
  che comprende livelli dagli esecutivi ai dirigenziali.
  All'interno della fascia vengono considerati altri due livelli
  di reddito, di 50 e 100 milioni di lire.  Il dettaglio in
  tabella A.
                      ...  (omissis) ...
     Il periodo esaminato va dal 1991 al 2011, ed è suddiviso
  in quattro archi temporali, segnati dal 1997, 2001 e 2008.  La
  scelta è arbitraria, ma non immotivata.
     Il 1991 è stato individuato quale inizio del periodo di
  osservazione in quanto ultimo anno di recupero integrale del
  Fiscal drag  (introdotto solo da pochi anni, era stata la
  grande vittoria dei sindacati, che adesso tacciono, preferendo
  difendere le pensioni di anzianità).  Questo punto di partenza
  consente di avere un minimo di storia alle spalle, per poter
  confrontare passato acquisito e probabile futuro.
     Il 1997, che è l'anno di riferimento per i redditi e per
  il relativo potere di acquisto, è l'ultimo del vecchio regime
  fiscale e della rivalutazione (sia pur intaccata dalla
  scalettatura introdotta nel 1984) di tutte le fasce di reddito
  di pensione.
     Il 2001 chiude il periodo di cura dimagrante delle
  pensioni ricche, stabilito dalla legge finanziaria per il
  1998, dopo di che si dovrebbe, a legislazione vigente,
  ritornare alla normalità (ma è ragionevole temere altri
  tagli).  Ritornarvi sì, ma solo fino al 2008, dopo di che la
  perequazione automatica - grazie alla riforma Dini - sparirà
  del tutto, tranne che per i redditi molto bassi: per
  intravederne le conseguenze si è pensato di guardare in avanti
  per un paio di anni, arrotondando al ventennio e chiudendo
  quindi al 2011.
     L'aver preso in considerazione questo ventennio consente a
  chi sia stato collocato in pensione in anni recenti (anche se
  non esattamente all'inizio del 1991) un confronto
  approssimativo, ma abbastanza attendibile fra l'erosione di
  reddito fin qui subita, e quella cui andrà presumibilmente
 
                               Pag. 6
 
  incontro negli anni a venire, se avrà la fortuna di campare
  oltre gli ottanta anni o quasi.
     Nei calcoli sono stati assunti i parametri fiscali -
  aliquote, scaglioni, detrazioni e tassa salute (Cssn) -
  vigenti negli anni considerati: quelli noti del 1991, del 1997
  e del 1998, e questi ultimi anche per il futuro.  Viene
  ipotizzata, ottimisticamente, la futura "restituzione" del
  Fiscal drag  sulle sole detrazioni.  Ancor più
  ottimisticamente non vengono previsti, da parte delle regioni,
  inasprimenti dell'aliquota dello 0,5 per cento sostitutiva del
  Cssn, che nel 1998 e nel 1999 è ritagliata all'interno
  dell'IRPEF.  Nemmeno sono messe in conto analoghe lievitazioni
  delle addizionali comunali e provinciali in corso di
  introduzione.
     Non sono prese in considerazione né l'imposta per l'Europa
  né altre imposte straordinarie.
     Per il potere di acquisto si è prefigurato un andamento
  corrispondente ad un tasso d'inflazione medio annuo del 2,0
  per cento dal 1999 in poi.  E' un tasso che può apparire
  elevato considerando il favorevole andamento degli ultimi due
  anni, ma che in una proiezione a lungo termine certamente non
  eccede in pessimismo.  Specie considerando il non brillante
  avvio dell'euro nei confronti del dollaro, nonché la
  probabilità che i venti di guerra che hanno ripreso a soffiare
  nella primavera 1999 lascino dei segni: poiché da sempre
  svalutazioni e conflitti sono stati motori dell'inflazione.  Se
  si verificheranno sensibili scostamenti dal 2,0 per cento, la
  connessa erosione sarà più o meno marcata, ma non perderà la
  sua natura perversa: gli eventi temuti si verificheranno con
  qualche anno di anticipo o di ritardo, ma si
  verificheranno.
     Un altro motivo per cui si è preferito non scendere sotto
  il 2,0 per cento è che al di sotto di questo valore non
  dovrebbe nemmeno scattare quel poco di restituzione del
  Fiscal drag  che è ancora concesso, e di cui qui si è pur
  voluto tener conto.
     Al capitolo 6 si espongono comunque gli effetti che
  avrebbero l'aumento o la diminuzione di un punto del tasso di
  inflazione rispetto all'ipotesi base, limitatamente a quella
  che è la conclusione più importante, e cioè l'erosione della
  pensione netta.
     Sempre in tema di inflazione, si fa un atto di fede nelle
  modalità con cui essa è ufficialmente valutata, e cioè negli
  indici forniti dell'Istituto nazionale di statistica (ISTAT),
  anche se l'esperienza quotidiana spesso induce a non
  credervi.
     La tabella B riassume i valori assunti nei calcoli: in
  carattere normale quelli acquisiti fino al 1998, in corsivo
  quelli ipotizzati per il futuro.
 
                               Pag. 7
 
                      ...  (omissis) ...
     Ai dati sul potere di acquisto (ISTAT fino al 1998,
  ipotesi descritte dal 1999 in poi) e relativi tassi di
  inflazione, sono stati affiancati i valori dei minimi INPS,
  necessari per valutare gli effetti del Mpa.  Le due serie di
  dati dovrebbero in teoria collimare se fatte scorrere di un
  anno, poiché l'INPS stabilisce il proprio coefficiente per
  l'anno corrente sulla base di quello definito dall'ISTAT per
  l'anno precedente, riconoscendo l'eventuale differenza l'anno
  successivo.  Gli scostamenti del passato sono da attribuire
  all'aggancio alla dinamica salariale, introdotto nel 1976 e
  soppresso a decorrere dal 1994, e ad altri provvedimenti
  legislativi di carattere restrittivo volti a fronteggiare la
  crisi di quegli anni Gli scorrimenti sono ovviamente nulli se
  il tasso di inflazione si assume costante.
       Effetti del Mpa: il  Pension drag.  Per valutare
  l'impatto del Mpa sui redditi di pensione è necessario tener
  presente in quale misura differenziata esso copra le relative
  fasce, che vengono espresse in multipli del minimo.  La tabella
  C descrive i criteri, la tabella D riporta i valori cui i
  criteri si applicano (sia i lordi sia - per una più concreta
  evidenza - i netti).
 
                               Pag. 8
 
                      ...  (omissis) ...
     Possiamo ora valutare gli andamenti dei redditi lordi
  nominali effettivi, di fatto percepiti, confrontarli con
  quelli dei redditi lordi nominali teorici, al passo con
  l'inflazione, calcolarne le differenze.  I risultati in tabella
  E.
 
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                      ...  (omissis) ...
     E' importante tener sempre presente, nel discorso che
  segue, che per livelli di riferimento assumiamo le pensioni
  lorde del 1997, mentre il confronto con un ipotetico andamento
  al passo con l'inflazione incomincia dal 1991.  I valori del
  1991 sono pertanto quelli, più bassi, che grazie al meccanismo
  del Mpa conducono ai 25, 50, 100 e 200 milioni di lire del
  1997.  Questi livelli di riferimento vanno quindi considerati
  come delle etichette delle serie di dati esposte nelle tabelle
  e nei grafici (nel senso che avremmo anche potuto chiamarli
  "a", "b", eccetera).
     Il grafico A è una versione della tabella E, ma espressa
  in lire costanti, aventi il potere di acquisto del 1997.  I
  redditi teorici, a potere d'acquisto costante, sono
  rappresentati da una retta orizzontale per ciascuno dei
  quattro livelli considerati.
     Il grafico indica che, ad esempio, se l'indicizzazione
  fosse stata piena, un pensionato dal 1991 pervenuto ad una
  pensione lorda effettiva di 100 milioni di lire nel 1997,
  avrebbe dovuto intascare - sempre nel 1997 - 4,345 milioni in
  più.  Dice anche che il medesimo, oppure un pensionato del
  1997, se campa fino al 2011, vivrà in quell'anno come sarebbe
  vissuto nel 1997 con 12,505 milioni in meno (100,000 -
  87.495). Sono cifre che evidentemente vanno lette con larga
  approsimazione, dato che tutto è legato - dal 1999 in poi -
  alla nostra previsione, dei cui limiti si è detto, nonché alla
  ipotesi di non peggioramento della normativa previdenziale.  Se
  qui si arriva con i decimali alle migliaia di lire non è
  quindi per un pretesa di precisione, ma solamente per meglio
  guidare alla lettura del grafico.
     Il pensionato del livello 25, quello in basso, sembra
  uscire indenne dall'erosione da Mpa, a causa della scala che
  appiattisce.  Ma anch'egli percepirà, nell'ultimo anno del
  ventennio, meno di quanto aveva percepito nel primo:
  precisamente 1,685 milioni di lire di meno, sempre in lire
  1997.
     Oltre a considerare le perdite assolute sul reddito lordo,
  nominale o reale che sia, è interessante e forse più efficace
  valutare la corrispondente perdita percentuale del potere di
  acquisto.  Ovvero, in gergo e con una parola sola, la deriva
 
                              Pag. 10
 
  del reddito nominale percepito rispetto ad un reddito nominale
  teorico che tenga il passo con l'inflazione.
     Se con  p  indichiamo l'incremento del reddito
  nominale, con  f  il tasso di inflazione, la deriva
  d  è data dall'espressione  d=(p-f)/(1+f).
     La deriva è la misura dell'incremento del reddito reale;
  se è negativa, si ha un decremento; se è nulla, il reddito è
  costante.  La formula è largamente usata per valutare
  l'andamento reale dei prezzi, compreso quello del denaro: se
  p  è il tasso d'interesse nominale,  d  è il tasso
  reale.  Applicando la formula ai nostri casi, si ha:
                      ...  (omissis) ...
     Tornando all'ultimo esempio, una pensione lorda di 25
  milioni di lire nel 1997 risultava erosa dello 0,3 per cento
  rispetto a quella iniziale.  Pochissimo, ma con la prospettiva
  di sfiorare il 7 per cento nel 2011.  Peggio, molto peggio
  naturalmente, per i redditi più alti.
     Costituendo la tabella E, la tabella F ed il grafico A tre
  modi diversi di rappresentare lo stesso fenomeno, essi devono
  essere intrinsecamente congruenti.  Si può, ad esempio,
  facilmente constatare che se si moltiplica il valore della
  deriva per il valore del reddito nominale teorico, si ottiene
  la perdita nominale, espressa in lire dell'anno considerato.
  Attingendo invece dal grafico A il valore relativo ad un certo
  anno, dividendolo per quello relativo ad un anno precedente e
  sottraendo l'unità si ottengono i valori di deriva della
  tabella F.
     Ogni applicazione del Mpa erode la base di calcolo per
  quella dell'anno successivo.  E' una sua brutta caratteristica,
  che conviene illustrare con un esempio.
     Immaginiamo - nulla importando a questo fine che i dati
  siano assai poco realistici - un anno con una forte botta di
  inflazione, seguito da nove anni di inflazione nulla.
  Confrontiamo questa serie con una che presenti gli stessi
  valori, ma invertiti nel tempo.  Al decimo anno (a parametri
  del Mpa stabili) la pensione reale sarà la stessa, ma nel
  primo caso la perdita complessiva nel decennio sarà decupla.
  In altri termini, ciò che è perso è perso per sempre.
       Effetti congiunti del  pension drag  e del
  Fiscal drag.  Agli effetti erosivi del Mpa, cioè al drenaggio
  previdenziale, si aggiunge quello fiscale.  Il loro "combinato
  disposto" provoca una perdita di potere di acquisto del
  reddito netto, quello che conta, significativamente maggiore
  di quella fin qui emersa.  Ricordiamo che con il termine
  drenaggio intendiamo qui sia quello in senso stretto,
  determinato dall'inflazione a parametri nominali fermi, sia
  quello derivante dagli interventi del legislatore sui
  parametri stessi.
     Delle tre modalità di rappresentazione del fenomeno
  erosivo introdotte per illustrare il  pension drag,
  scegliamo - questa volta in forma grafica - la terza, che ci
  dà le derive.  Con l'avvertenza che i valori non sono più
  calcolati anno per anno - come avevamo dovuto fare per
  calcolare gli effetti del Mpa sul lordo - ma solo per gli anni
  di riferimento e interpolati per gli altri, perché i calcoli
 
                              Pag. 11
 
  completi dell'IRPEF sarebbero risultati eccessivamente
  ponderosi, specie dopo la "semplificazione" introdotta dalla
  riforma Visco.
     Confrontando il grafico B con la tabella F, si nota come
  la deriva dovuta al solo Mpa peggiori sensibilmente passando
  alla deriva complessiva, determinata congiuntamente dal Mpa e
  dall'IRPEF.  Considerando ad esempio il 2011, c'è un incremento
  della perdita del potere di acquisto di 2,7 punti percentuali
  al livello più basso, e di 5,8 a quello più alto.
     Fin qui si è calcolata la deriva del reddito lordo,
  confrontando quello effettivamente percepito e generato dal
  Mpa con un reddito lordo teorico sempre al passo con
  l'inflazione, cioè allineato al costo della vita e quindi con
  potere di acquisto costante.  Si è poi calcolata la deriva
  complessiva, confrontando quello netto effettivo con un netto
  anch'esso teorico e al passo con l'inflazione.  La differenza
  fra le due derive non è però esattamente la deriva generata
  dall'IRPEF.  Quest'ultima si ottiene infatti confrontando
  l'imposta effettivamente pagata nei vari anni con quella
  teorica e più lieve che si sarebbe pagata sul medesimo reddito
  lordo se i parametri impositivi del 1991 fossero stati
  automaticamente riallineati al costo della vita - cioè se a
  decorrere dal 1992 non fosse stata soppressa la restituzione
  piena del  fiscal drag  - e se il legislatore non fosse
  successivamente mai intervenuto, per lo più inasprendo i
  parametri stessi anche in termini nominali.  In altri termini,
  se le aliquote nominali medie fossero rimaste invariate.
     Il grafico C riporta, limitatamente al livello di 100
  milioni di pensione lorda nel 1997 (considerare tutti i
  livelli lo renderebbe poco comprensibile), le due derive,
  previdenziale e fiscale, e la loro risultante, che è data
  dalla loro somma più il loro prodotto.
     Si noti come fino al 1997 il contributo delle due
  componenti sia pressoché paritetico, mentre in seguito
  prevalga la componente erosiva del Mpa.  Si noti anche come
  nell'ultimo periodo, dal 2008 al 2011, la componente erosiva
  dell'IRPEF si attenui leggermente.  Ciò scaturisce dal fatto
  che, rimanendo ormai il reddito lordo nominale invariato, si
  fa apprezzare quel minimo di recupero dato dalla restituzione
  parziale del  fiscal drag.  Infatti, abbiamo sì valutato
  gli andamenti futuri a legislazione ferma, ma ferma nel senso
  che si continui a rivalutare almeno quel poco costituito dalle
  detrazioni (indicizzando sia gli importi che gli scaglioni
  delle stesse).
     Un'altra rappresentazione, forse la più efficace perché
  basata sul più familiare concetto di aliquota - data nel
  grafico D - consiste nel tradurre le derive in aliquote:
  aliquote vere e proprie per la parte di reddito che va al
  fisco, aliquote virtuali ma non per ciò meno devastanti per la
  parte di reddito non percepita in virtù (si fa per dire) del
  Mpa.
     Manteniamo l'esempio del livello 100 per meglio
  comprendere la corrispondenza biunivoca fra i due concetti.
  Dire che nel 2011 il reddito lordo sarà - vedi ancora la
  tabella E - di 115,222 milioni di lire anziché dei 137,412 che
  ci sarebbero stati se la copertura del Mpa fosse del 100 per
  cento, significa che alla fine c'è un "non percepito" e quindi
  un prelievo virtuale che equivale ad un'aliquota impositiva.
  Che vale il 16,1 per cento (la differenza fra i due valori
  divisa per il maggiore di essi).  Naturalmente all'inizio del
  nostro periodo di osservazione quest'aliquota è nulla, in
  quanto la lima del Mpa comincia a sgrossare dall'anno
  successivo al pensionamento.  Si noti come il valore
  dell'aliquota corrisponda esattamente, cambiato di segno, a
  quello della relativa deriva di cui al grafico precedente.  C'è
  infatti una relazione matematica che lega le due, che
  omettiamo per economia del discorso.
     Qui, a riprova della congruenza, basti notare che quando
  le curve del grafico C volgono all'ingiù, le corrispondenti
  curve del grafico D volgono all'insù, e viceversa.  Forse non è
  inutile ricordare che si tratta di aliquote medie effettive, e
  che le stesse tengono conto dei parametri impositivi dei vari
  anni, Cssn compreso ove ricorrente.
     L'aver potuto esprimere anche il drenaggio previdenziale
  in termini di aliquote - incisive ancorché non codificate in
 
                              Pag. 12
 
  tabelle ufficiali - conferma che esso costituisce una vera e
  propria imposta occulta, generando grazie al motore
  dell'inflazione un gravame addizionale sui pensionati.
       Due pesi e due misure.  Fin qui, raffrontando il
  reddito netto reale con quello teorico, che si avrebbe se il
  netto stesso tenesse il passo con l'inflazione, abbiamo
  valutato - con diverse chiavi di lettura - l'effettiva perdita
  di potere di acquisto di una pensione nel ventennio
  considerato.  Vi siamo pervenuti valutando prima la deriva
  previdenziale generata dal Mpa e - correttamente a valle di
  questa - la deriva fiscale.  Questo tuttavia non ci dice ancora
  quale sarebbe il danno se il Mpa fosse quello che il suo nome
  lascerebbe intendere, cioè se invece di erodere il reddito
  lordo lo mantenesse per davvero nel tempo in termini reali.
  Infatti, se il reddito lordo non venisse eroso, dovrebbero
  essere pagate maggiori imposte, e contestualmente lo Stato
  spenderebbe di più in termini di pensioni, ma nel contempo
  incasserebbe di meno in termini di IRPEF.  In altri termini, se
  vogliamo determinare non il danno assoluto subìto dal
  contribuente pensionato (come fin qui fatto), ma quello
  relativo, rispetto agli altri contribuenti, dobbiamo mettere a
  confronto i relativi redditi netti partendo dal medesimo
  valore iniziale.  Date le numerose tipologie di redditi e dei
  relativi criteri impositivi, la scelta del termine di paragone
  non è del tutto ovvia.  Fortunatamente è quasi obbligata, in
  quanto implicita nella definizione stessa di  fiscal
  drag.  Paragoneremo perciò il contribuente pensionato ad un
  contribuente tipo, che produca un reddito imponibile costante
  nel tempo in termini reali: quello che qui abbiamo chiamato
  reddito lordo teorico, la cui deriva è per definizione nulla.
  Sarà questi, per usare una parola di moda oramai entrata anche
  nel gergo dei piccoli risparmiatori, il nostro
  benchmark.  Il contribuente  benchmark,  è
  un'astrazione, poiché dobbiamo attribuirgli gli stessi
  scaglioni, aliquote e detrazioni fiscali del pensionato, il
  che a rigore lo rende una figura inesistente nel parco dei
  contribuenti persone fisiche, ma ci dobbiamo - e possiamo -
  accontentare.  Possiamo perché egli può essere identificato, in
  pratica, con un lavoratore dipendente che, pur non facendo
  carriera, benefìci di rinnovi contrattuali tali da mantenere
  costante il potere di acquisto del suo reddito lordo: in tale
  caso le differenze di reddito netto si riducono a quelle
  generate dalle diverse aliquote del Cssn.  Esse sono ai nostri
  fini del tutto trascurabili (qualche centesimo di punto
  percentuale nel 1991, un paio di decimi nel 1997, nulle in
  seguito).  Naturalmente se prescindiamo da considerazioni più
  vaste, cui accenneremo in seguito.
     E' il caso di notare che parliamo di redditi imponibili e
  quindi il reddito lordo del  benchmark,  quello che figura
  sulla busta paga, sarà superiore perché comprende la parte
  destinata al risparmio e cioè i contributi previdenziali a
  carico del lavoratore, non tassati (di essi si è tuttavia
  tenuto conto per calcolare il Cssn, assumendo dei contributi
  Ago mediamente pari al 8 per cento nel 1991 e al 10 nel 1997).
  I risultati dei calcoli sono riassunti nella tabella G.
 
                              Pag. 13
 
                      ...  (omissis) ...
  Come si vede, i redditi di entrambi i contribuenti messi a
  confronto divaricano nel tempo da un reddito che tenesse il
  passo con l'inflazione, e quelli del pensionato molto di più,
  configurando nel tempo un andamento a forbice.
     Una rappresentazione della forbice, forse più incisiva,
  può essere data in termini di aliquote medie equivalenti ai
  due drenaggi, dal grafico E. Per ciascuno degli anni
  significativi del ventennio sono rappresentate - raggruppate
  per livelli - le aliquote IRPEF effettive del contribuente
  benchmark,  generate dal  fiscal drag.  Sovrapposte
 
                              Pag. 14
 
  ad esse, le aliquote addizionali virtuali gravanti sul
  pensionato, generate dalla combinazione di  pension drag
  e di  Fiscal drag.
     Come si vede, il pensionato è di fatto più tassato del
  benchmark  (suo ipotetico ex collega ancora in
  servizio, supposto a reddito reale costante nel tempo).
  Nell'ultimo anno del ventennio il pensionato, a parità di
  imponibile del 1991, sarà soggetto ad un prelievo virtuale
  superiore mediamente di un quarto.
     Benché nel grafico, per non dilatarlo fuor di misura, non
  si sia potuta mantenere la scala dei tempi, non dovrebbe
  sfuggire l'impennata nella fascia più bassa di reddito
  nell'ultimo triennio, dovuta alla prevista abolizione di ogni
  forma di indicizzazione a decorrere dal 2009.
       Sensibilità all'inflazione.  L'ipotesi assunta, di un
  tasso d'inflazione del 2,0 per cento dal 1999 in poi, è quasi
  certamente ottimistica.  E' comunque interessante andar a
  vedere che cosa accadrebbe sesi verificassero degli
  scostamenti.  Ad esempio - fra le infinite ipotesi possibili -
  se dal suddetto valore si scendesse gradualmente di 1 punto
  fino al 2001 per attestarvi in seguito; ovvero se,
  simmetricamente, si salisse di altrettanto.  Sarebbe
  ingombrante farlo riproponendo l'intera panoramica fin qui
  illustrata, perciò ci limitiamo ad una tabella, che ci mostra
  di quanto diminuirebbe o crescerebbe la perdita di potere di
  acquisto.
                      ...  (omissis) ...
     La variazione di 1 punto del tasso di inflazione rispetto
  all'ipotesi base (riportata nella colonna centrale della
  tabella H), comporterebbe dunque una sensibile differenza
  della deriva complessiva.  Differenza valutabile mediamente in
  4 punti circa, che sono tanti e che rendono l'idea della
  potenza della leva costituita dal drenaggio previdenziale e
  fiscale.  Potenza che avremmo anche potuto esprimere, tenendo
  fermi i valori dell'ipotesi base, quantificati in tutti i
  grafici precedenti, in termini di anni di ritardo o di
  anticipo del presentarsi dei valori stessi, con inflazione in
  discesa o rispettivamente in salita.
     Da notare che effetti analoghi al verificarsi di un
  diverso  trend  inflazionistico avrebbero un miglioramento
  o all'opposto un peggioramento dei parametri del Mpa, nonché
  una diminuzione o un aumento della pressione fiscale.  Ne
  consegue che appare sconvolgente l'ipotesi - purtroppo non
  improbabile - che si presentino assieme i tre fenomeni
  negativi: risveglio dell'inflazione, ulteriore falcidia del
  Mpa, aumento delle imposte.
       Osservazioni.  Oltre ai fenomeni analizzati, vi sono
  altre cause, dirette e indirette, di logoramento silenzioso
  del potere di acquisto e di esasperazione della progressività,
 
                              Pag. 15
 
  che poco o per nulla si prestano ad una trattazione analitica
  o che - pur uscendo dal tema - vanno perlomeno menzionate.
     Ad esempio: i tagli della reversibilità; il divieto
  parziale di cumulo; le varie rivalutazioni delle cosiddette
  "pensioni di annata", governate dalla stessa filosofia cui è
  improntato il Mpa, i riflessi sul trattamento di fine rapporto
  (Tfr) della riforma Visco, nonché la trasformazione degli
  oneri deducibili in oneri che danno luogo a detrazioni di
  imposta, il contributo straordinario per l'Europa, pagato da
  una esigua minoranza di italiani, e via dicendo.
     Dal quadro qui tracciato emerge, o meglio viene
  confermata, una delle linee guida del fisco, che si traduce
  nell'inasprire le aliquote o nel lasciarle lievitare
  automaticamente con l'inflazione, mostrando di compensarne
  l'impatto con maggiori detrazioni.  In effetti le detrazioni
  vengono aggiornate (non sempre!), e così possono dire di aver
  "restituito" il  fiscal drag:  ma le detrazioni
  costituiscono un'apprezzabile frazione dell'imposta lorda solo
  per i redditi bassi, che rimpicciolisce man mano che l'imposta
  cresce con il relativo reddito, rendendo irrilevanti le loro
  variazioni.  La riforma Visco è a questo proposito illuminante:
  nel primo anno di applicazione l'articolazione delle
  detrazioni per lavoro dipendente, i cui scaglioni sono passati
  da 7 a 17 (è la semplificazione), ha inseguito con
  ragionieristico puntiglio la curva delle nuove aliquote,
  ridotte da 7 a 5, in maniera da non appesantire
  apprezzabilmente le aliquote medie dei redditi bassi e medi
  (ma sempre punendo quelli medio-alti) L'aspetto poco
  appariscente di questa manovra è che la maggior enfasi posta
  sulle detrazioni favorisce il drenaggio, appesantendo
  automaticamente nel tempo la mano del fisco, anche sui redditi
  bassi.
     Conseguenza dell'appesantimento del prelievo, sia di
  quello esplicito dell'IRPEF che di quello implicito nel Mpa, è
  l'esasperazione della progressività, e quindi il livellamento
  verso il basso.
     L'esempio del blocco nel 1998 e del contenimento nei tre
  anni successivi della rivalutazione delle pensioni "ricche" è
  ancora una volta illuminante.  A parte il fatto che ne risulta
  minata la credibilità del Governo nella lotta all'inflazione
  (il blocco sarebbe infatti inutile se l'inflazione fosse
  nulla), il provvedimento non tocca le pensioni  baby  in
  atto, che difficilmente raggiungono i 3,5 miliardi e che meno
  hanno subìto nel passato i drenaggi fiscale e previdenziale.
  Non ha toccato nemmeno, nel 1998, i titolari di più pensioni
  singolarmente inferiori a questo tetto (ma poi vi si è posto
  rimedio, ripartendo con giustizia l'ingiustizia).  Tocca invece
  pesantemente coloro - appunto i "ricchi" - che più hanno
  sgobbato per far carriera, versando contributi per una
  quarantina d'anni.  Poiché per le casse pubbliche il risparmio
  sarà modesto, è difficile non ravvisarvi una politica che -
  forse inconsapevolmente e comunque non dichiaratamente -
  sembra avere per obiettivo principe l'uguaglianza: non delle
  condizioni di partenza, bensì di quelle di arrivo.
     Per contro si scalfisce appena, con delicatezza,
  l'istituto delle pensioni di anzianità, la più pesante anche
  se non unica palla al piede della previdenza, che sforna
  pensionati aitanti e vigorosi, con prospettiva di lunga vita
  avanti a sè, ma con breve storia contributiva alle spalle.  La
  Repubblica, più che sul lavoro, appare fondata sul riposo.
  Concorre a sostenere questa politica l'affievolimento, nella
  cultura previdenziale e giuridica, del concetto di diritti
  acquisiti, in una con una mal digerita ma sempre più
  rassegnata tolleranza verso le inadempienze dello Stato.
  Nessuno, avendo stipulato una polizza vita indicizzata,
  tollererebbe che la compagnia ne riducesse unilateralmente e
  all'improvviso le prestazioni.  Ma se la controparte è lo
  Stato, resta solo l'arma spuntata del mugugno.  Non si vuole
  certo sostenere che le regole non possano essere cambiate,
  altrimenti nemmeno l'età pensionabile potrebbe venir
  innalzata, ma il preavviso dovrebbe essere congruo all'entità
  del danno subendo e alla possibilità di rimediarvi.
       Conclusione.  Il quadro tracciato non induce certo
  all'ottimismo, anche perché potrebbe venir aggravato da una
  non positiva evoluzione - e purtroppo dei segnali ci sono -
 
                              Pag. 16
 
  del contesto economico e politico, nazionale ed
  internazionale.
     L'analisi condotta conferma l'equivalenza del drenaggio
  previdenziale e di quello fiscale a delle imposte virtuali,
  virtuali ma concretamente incidenti sul reddito dei
  contribuenti e in special modo su una categoria di essi, i
  pensionati.
     I pensionati: un esercito la cui forza nel senso di
  organico è poderosa, mentre è pressoché nulla in termini di
  potere contrattuale, al quale pertanto si può, senza eccessiva
  difficoltà, imporre una cura dimagrante.  La ricetta?  Se
  l'inflazione cala, si aumenta la tassa sull'inflazione.
  Ottenendo nel contempo di livellare tutti, verso il basso.
  Anzi, più in basso: poiché, se i redditi alti ne escono con le
  ossa rotte, a quelli bassi non vengono risparmiati - come ben
  si è visto - gli ematomi.
     Articolo 3.  (Cumulo tra pensione e redditi da lavoro
  autonomo). - La normativa vigente in materia di cumulo tra
  pensione e reddito da lavoro (dipendente o autonomo) presenta
  difformità di trattamento tali da giustificare ogni
  riferimento alla violazione dei princìpi costituzionali
  vigenti.  E' innanzitutto violato il dispositivo costituzionale
  sull'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge
  (articolo 3, primo comma) e il secondo comma dello stesso
  articolo 3 laddove imperiosamente si afferma che: "E' compito
  della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e
  sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza
  dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona
  umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
  all'organizzazione politica, economica e sociale del
  Paese".
     E' di chiara evidenza che le modifiche apportate negli
  ultimi anni al sistema pensionistico sono state dirette non a
  rimuovere tali ostacoli bensì a porne sempre di più e di più
  consistente gravità, relegando i cittadini pensionati in una
  condizione di effettiva inferiorità nella scelta e nel
  concreto svolgimento di attività lavorative che -
  indipendentemente dalla loro natura - rappresentano comunque
  l'adempimento di un "dovere" costituzionalmente prescritto dal
  secondo comma dell'articolo 4 della Costituzione: "Ogni
  cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie
  possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione
  che concorra al progresso materiale o spirituale della
  società".
     Il cittadino che decide di svolgere attività lavorativa,
  dopo aver acquisito un trattamento pensionistico, ha invece la
  netta e concreta sensazione di non essere considerato alla
  pari di tutti gli altri, ma che da lui si pretenda un
  sacrificio maggiore di quanto in effetti si chiede alla
  generalità dei cittadini, impedendogli di partecipare alle
  difficoltà dello Stato sociale con una rinuncia a qualcosa di
  già suo a fronte di un vantaggio pressoché inesistente.  A
  titolo di esempio, si tenga presente il fatto che se un
  pensionato con una rendita lorda di 3 milioni di lire al mese
  ha anche un reddito di collaborazione autonoma di lire 20
  milioni annue, con la vigente normativa consegue un vantaggio
  di poco più di 3 milioni di lire.  A fronte dei 20 milioni di
  lire derivantigli dal lavoro autonomo costui subirà infatti
  una decurtazione di oltre 16 milioni di lire dovuta: ai
  contributi previdenziali (800.000), alle maggiori imposte
  (1.829.100) e, naturalmente, alla perdita del 50 per cento
  della quota di pensione eccedente il trattamento minimo
  (13.740.000).
     Si tenga poi presente la disuguaglianza esistente fra gli
  stessi pensionati, giacché l'entità della trattenuta sulla
  pensione e lo stesso divieto di cumulo dipendono da fattori i
  più disparati, quali, principalmente: il tipo di reddito
  prodotto dal lavoro del pensionato (dipendente o autonomo), la
  categoria della pensione (vecchiaia, invalidità, anzianità);
  la data di decorrenza della pensione; l'anzianità
  contributiva; la data entro la quale, indipendentemente dal
  momento del pensionamento, sono stati perfezionati i requisiti
  della pensione.
     E' ben vero che la crisi del sistema sociale obbliga la
  comunità a sacrifici economici non indifferenti; ma se le
  spese del medesimo sistema vanno ricomprese tra le spese
  pubbliche, alle quali tutti sono tenuti a concorrere "in
  ragione della loro capacità contributiva" (primo comma,
  dell'articolo 53 della Costituzione), ecco dunque che al
 
                              Pag. 17
 
  cittadino lavoratore pensionato si chiede molto di più, e cioè
  di rinunciare "anche" a parte della rendita conseguita in
  forza di una assicurazione obbligatoria.  In altre parole, il
  cittadino pensionato che vuole lavorare è costretto a pagare
  una "penale" più o meno elevata che vanifica di fatto sia il
  suo diritto di rendersi utile alla comunità attraverso
  l'esperienza acquisita (unico strumento indiscutibilmente
  valido per trasmettere conoscenza alle nuove generazioni di
  lavoratori), sia il tentativo di ricercare risorse aggiuntive
  quando nell'ambito familiare affiorano prepotentemente
  situazioni di gravi difficoltà economiche, non altrimenti
  affrontabili se non con il lavoro: come, ad esempio (ma è una
  realtà sotto gli occhi di tutti), il mantenimento dei figli
  disoccupati, anche laureati, fin oltre trenta anni di età, in
  ciò sostituendosi allo Stato nella congenita incapacità di
  promuovere le condizioni che rendano effettivo il diritto al
  lavoro (primo comma dell'articolo 4 della Costituzione).
     Se, inoltre, può ancora essere ritenuto in qualche modo
  moralmente e temporaneamente accettabile il divieto di cumulo
  tra pensione e retribuzione, rinvenendosi in un rapporto di
  lavoro dipendente una qualche forma di "ostacolo" alla lotta
  contro la disoccupazione giovanile, assurdo è invece
  continuare a punire lo svolgimento di una attività autonoma,
  legata alla specifica capacità di collaborazione del singolo,
  collaborazione che costituisce il più valido strumento di
  trasmissione di professionalità, soprattutto in tempi, come
  gli attuali, in cui la formazione è posta al centro del
  problema lavoro e per la quale si stenta anche a reperire le
  risorse economiche adeguate alla bisogna.  Ecco dunque un altro
  motivo a fondamento della presente proposta di legge.
     Il cumulo tra reddito e pensione rappresenta inoltre un
  buon affare per l'economia pubblica, giacché contribuirebbe ad
  eliminare il fenomeno del "lavoro nero" e ad incamerare
  maggiori entrate fiscali.  Nell'esempio avanti proposto, il
  pensionato non avrà infatti alcuna convenienza a lavorare; ma
  se al lavoro lo costringono impellenti necessità economiche,
  ecco che si troverà costretto a scegliere la strada proibita,
  facendo mancare alla comunità la maggiore imposta che invece
  sarebbe garantita se lo Stato gli consentisse di lavorare alla
  luce del sole, cumulando ciò che comunque gli appartiene
  perché frutto non dell'altrui bensì del proprio sacrificio.  Il
  pericolo che la scelta possa ricadere sul lavoro nero non
  sembri infatti peregrino.  Basta usare il buon senso del padre
  di famiglia per comprendere i fenomeni che ci circondano e
  come purtroppo i cittadini cercano di sbarcare il lunario.  A
  fronte di uno Stato che sempre di più si dimostra incapace di
  combattere l'evasione fiscale e contributiva, sarebbe persino
  delittuoso continuare a privare cittadini di buona volontà,
  come lo sono certamente i pensionati lavoratori, di buona
  parte delle risorse cui hanno fatto e fanno affidamento per
  affrontare le difficoltà della vita.
 
                              Pag. 18
 
                      ...  (omissis) ...
 
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                      ...  (omissis) ...
 
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                      ...  (omissis) ...
 
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                      ...  (omissis) ...
 
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