| Onorevoli Deputati! - Con l'articolo 1 della proposta
di legge (Disposizioni in materia di trattamento ai
superstiti) si propone l'abrogazione di quella parte del
comma 41 dell'articolo 1 della legge 8 agosto 1995, n. 335,
che ha introdotto, secondo l'allegata tabella F, il cumulo
della pensione di reversibilità con i redditi del coniuge
superstite. La norma in vigore, di cui si chiede
l'abrogazione, è invero viziata di incostituzionalità, lede
diritti acquisiti e aspettative, rappresenta un incentivo
all'evasione o elusione fiscale, è contraria ai princìpi del
sistema pensionistico e, infine, non porta alcun beneficio al
bilancio previdenziale.
Violazione di norme costituzionali. La normativa
vigente sulla pensione ai superstiti è mirata esclusivamente a
fronteggiare le passività del bilancio previdenziale, nel
quale peraltro è ampiamente provato che non sono le "vere"
pensioni, ma i trattamenti assistenziali ad alimentare il
deficit. Gli articoli 3 e 53 della Costituzione,
unitariamente considerati, affermano il principio che vieta di
far gravare oneri generali su categorie ristrette di soggetti.
Lo Stato è pertanto tenuto a coprire le passività indotte
dall'assistenza, pur sempre doverosa, con i consueti strumenti
a cui deve ricorrere per fronteggiare qualsiasi onere
pubblico, gravandone la generalità dei cittadini, essendogli
costituzionalmente impedito di penalizzare un numero limitato
di persone e, in special modo, eredi di soggetti
particolarmente benemeriti per aver versato per tanti anni i
contributi ai fondi pubblici di pensione. La disposizione in
esame viola gli articoli 3 e 53 della Costituzione, anche
perché contrasta le due regole costituzionali fondamentali di
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proporzionare le imposte alla capacità contributiva dei
soggetti gravati e di informare tutto il sistema tributario a
criteri di progressività. E' infatti pacifico che l'articolo
53 si riferisca a tutte le prestazioni finanziarie, comunque
denominate, imposte ad un soggetto senza il concorso della sua
volontà e che il taglio della reversibilità costituisca
un'imposizione tributaria (anche se il legislatore l'ha
mascherata parlando di limitazioni della cumulabilità della
pensione con altri redditi del beneficiario). Infine, la
decurtazione della pensione ai superstiti contraddice gran
parte dello spirito della Carta costituzionale e, in
particolare, oltre che le norme prima citate, le disposizioni
degli articoli 29 e 31 (difesa della famiglia) e degli
articoli 45, 46 e 47 (elevazione economica dei lavoratori e,
soprattutto, difesa del risparmio).
Lesione di diritti e aspettative. La norma in vigore
lede diritti acquisiti e legittime aspettative nei confronti
di tutti quei lavoratori per i quali lo Stato a suo tempo
prese impegni di legge per la loro pensione e per di più senza
che gli stessi potessero prevedere che, nel futuro, sarebbero
stati ingiustificatamente penalizzati nel loro patrimonio
familiare, mirato a garantire una serena vecchiaia anche per
il coniuge. La norma in questione lede anche la legittima
aspettativa del beneficiario a conservare il tenore di vita
assicuratogli dal coniuge pensionato durante la sua vita ed al
quale vuole rimanere fedele (la reversibilità si perde se il
sopravvissuto passa a nuove nozze).
I princìpi della necessaria ragionevolezza e non
arbitrarietà della legge, dell'esigenza di certezza del
diritto, della salvaguardia della buona fede e del rispetto
dei concessi affidamenti sono stati ribaditi, proprio in
materia di pensioni, dalla Corte costituzionale con la
sentenza n. 340 del 17 dicembre 1985, ove si afferma che: "La
Costituzione non vieta di emanare disposizioni che modifichino
sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata (...)
anche se tali disposizioni non possono trasmodare (...) ed
incidere arbitrariamente in situazioni sostanziali poste in
essere da leggi precedenti, frustrando così l'affidamento del
cittadino sulla sicurezza giuridica, come accadrebbe nel caso
di una legge che, intervenendo in una fase avanzata del
rapporto di lavoro, ovvero addirittura nello stato di
quiescenza, peggiorasse, senza una inderogabile esigenza,
in misura notevole e definitiva, un trattamento pensionistico
in precedenza spettante". Si tratta di una sentenza
particolarmente significativa in quanto conclude con una
implicita denuncia di incostituzionalità della maggior parte
delle norme lesive di diritti quesiti. I diritti dei
pensionati discendono in larga parte da contributi corrisposti
e ciò comporta una peculiare qualificazione al loro diritto;
ma qualifica anche il mancato rispetto del diritto stesso, che
potrebbe intendersi addirittura un'appropriazione indebita da
parte dell'ente pubblico o, comunque, un atto di insolvenza.
Simile peculiare qualificazione include la norma in questione
tra i casi particolari di intoccabilità dei diritti acquisiti
esistenti nell'ordinamento italiano.
Incentivo all'evasione o elusione. La disposizione
che falcidia la pensione ai superstiti è contraria tanto alle
regole di una buona politica legislativa, quanto alle stesse
finalità che il legislatore dichiara di perseguire. Tale
disposizione infatti viene a gravare su un numero limitato di
persone, degne invece di protezione, e impedisce ogni aiuto
economico non clandestino in favore di molti dei colpiti dalla
riduzione monetaria. Ciò spinge all'evasione o elusione,
legali o illegali, in quanto il coniuge del pensionato, allo
scopo di evitare il taglio della rendita attesa, potrebbe
predisporre una specie di autotutela patrimoniale liberandosi,
ma solo apparentemente, di quei beni il cui reddito non è per
legge cumulabile con la pensione ereditata.
Contrarietà al sistema pensionistico. Le previste
decurtazioni della reversibilità sono gravemente criticabili
anche per il solo fatto di essere commisurate al possesso da
parte dei beneficiari di certi altri redditi extrapensione.
Simile commisurazione sarebbe giustificabile se operasse nei
confronti di prestazioni assistenziali (come in effetti
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risulta in tali ipotesi), ma non è affatto accettabile nei
confronti di prestazioni previdenziali di ordine assicurativo.
E' indiscutibile che il sistema pensionistico non è di ordine
assistenziale. Se si introduce una norma riduttiva, di
provenienza assistenziale, questa o rivoluziona il sistema
pensionistico facendolo passare dal campo assicurativo a
quello assistenziale, o è inficiata da un evidente errore
tecnico-giuridico. Siccome però il legislatore ritiene che
tale norma non operi alcuna rivoluzione del sistema
pensionistico, per chiederne l'abrogazione è sufficiente
rilevare la mancata previsione, nel calcolo
assicurativo-pensionistico, della commisurazione del
trattamento ai redditi del beneficiario e, da ciò, la
illegittimità della sua successiva introduzione. Inoltre,
trattandosi di una pensione legata ad un rapporto di lavoro
svolto, è stata commessa una gravissima infrazione
dell'articolo 36 della Costituzione, il quale dispone che: "Il
lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla
quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente
ad assicurare a sé e alla sua famiglia un'esistenza libera e
dignitosa". L'ammontare delle pensioni derivanti da un
rapporto di lavoro e da contributi versati in misura
proporzionale alla retribuzione non può fondarsi su criteri
opposti a quelli del citato articolo 36, essendo fuor di
dubbio che i diritti assicurativo-pensionistici costituiscono
una integrazione della retribuzione e che la stessa pensione è
da considerare "retribuzione differita". Infine, si osserva
che la riduzione del trattamento non al lavoratore-pensionato,
ma ai suoi superstiti, viola l'originario regolamento
pensionistico ai soli danni dei superstiti, creando in tale
modo una disparità di trattamento tra il lavoratore e i suoi
eredi aventi diritto, nettamente contraria al principio di
eguaglianza tra gli assicurati che informa il sistema
pensionistico in ossequio alla Carta costituzionale.
Inefficacia per il bilancio previdenziale. La
riduzione della pensione ai superstiti non giova né gioverà
nemmeno ai bilanci degli enti erogatori, perché: si tratta di
decurtazioni operate su trattamenti di per sé abbastanza
contenuti; il numero dei titolari di reversibilità con redditi
cumulabili non è significativo; la maggior parte dei
superstiti può a motivo dell'età avanzata godere per pochi
anni della pensione ereditata. Infatti, i dati forniti
dall'osservatorio delle pensioni INPS e relativi ai
trattamenti in essere al 1^ gennaio 1998 documentano che
l'importo medio delle pensioni ai superstiti - operante il
divieto di cumulo previsto dalla legge n. 335 del 1995 -
ammonta appena a lire 716.016 (in pratica, equivalente al
trattamento minimo) per una massa di pensioni pari a
3.711.940. Considerando la consistenza di tali pensioni
all'interno dei singoli fondi previdenziali e l'importo medio
riferito a ciascuna categoria, si osserva che appena il 2,38
per cento (pari a n. 88.615 pensioni) supera il milione di
lire mensili, e riguarda per l'appunto le sole categorie i cui
soggetti possano presentare le maggiori probabilità di cadere
sotto il divieto previsto dalla legge. Tale divieto, così
stando le cose, manterrebbe soltanto il carattere di un
giustizialismo sociale del tutto opposto a quello naturale
insito nel rapporto assicurativo previdenziale.
Importi medi delle pensioni ai superstiti al 1^ gennaio
1998
Fondo pensione lavoratori dipendenti: lire 773.133 (2.757.128
pensioni);
Coltivatori diretti: lire 395.364 (423.699);
Artigiani: lire 544.448 (241.070);
Commercianti: lire 488.898 (201.428);
Minatori: lire 1.072.472 (3.239);
Trasporti: lire 1.373.395 (39.275);
Telefonici: lire 1.485.984 (7.486);
Esattoriali: lire 1.581.084 (4.717);
Dazieri: lire 1.228.409 (4.634);
Gasisti: lire 1.378.973 (2.786);
Elettrici: lire 1.627.799 (25.874);
Clero: lire 590.751 (189);
Volo: lire 2.825.770 (415).
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Se la falcidia sulle pensioni di reversibilità dovesse
rimanere legge, si finirebbe per gravare pesantemente sulle
condizioni economiche di pochi soggetti, spesso meritevoli di
aiuto, senza giovare alle dissestate (ma non per colpa delle
"vere" pensioni, come detto) finanze del bilancio
previdenziale.
Articolo 2. (Disposizioni in materia di perequazione
automatica). - Introduzione. I redditi di pensione
subiscono, nel tempo e con l'inflazione, due tipi di erosione
in termini reali. Quella cui sono soggetti tutti i
contribuenti, causata dal mancato o inadeguato
ridimensionamento dei parametri dell'imposta sul reddito delle
persone fisiche (IRPEF) e nota come fiscal drag; e
quella che colpisce solamente i pensionati al di sopra di un
certo reddito, generata dal cosiddetto "meccanismo di
perequazione automatica", che per analogia possiamo chiamare
pension drag. La prima fa sì che dalle tasche del
pensionato venga tolto sempre di più, la seconda che nelle sue
tasche affluisca sempre di meno: la distinzione è pleonastica,
dato che il risultato è comunque la riduzione progressiva del
reddito netto.
Il drenaggio fiscale e quello previdenziale costituiscono
pertanto delle vere e proprie imposte occulte sull'inflazione,
in quanto riducono automaticamente il potere di acquisto,
l'una tassando sempre di più il reddito lordo, l'altra
tosandolo a monte e determinando quindi un prelievo virtuale.
Virtuale, ma con effetti ben tangibili. E ciò anche se
rimangono invariati i relativi parametri nominali: in termini
di aliquote, scaglioni e detrazioni per l'IRPEF, e di
percentuali di copertura del tasso d'inflazione per il
suddetto meccanismo, che da qui in avanti per brevità
chiameremo Mpa. A quest'erosione automatica si aggiungono gli
interventi del legislatore, che incidono sui parametri
nominali, quasi sempre inasprendoli, specie a danno delle
fasce di reddito medio e medio-alto. Vedi la riforma Dini
delle pensioni, la riforma Visco dell'IRPEF e le varie leggi
finanziarie degli anni recenti. In particolare, i tre
provvedimenti sul Mpa citati nel testo dell'articolo 2 della
proposta di legge hanno introdotto elementi di sperequazione
fra i pensionati e gli altri contribuenti, nonché fra
pensionati e pensionati, con ciò violando norme
costituzionali.
L'entità della sperequazione emerge dall'analisi che
segue, in cui si quantifica il danno subìto e quello subendo
dai lavoratori in quiescenza. Viene preso in considerazione
non solo il reddito lordo, ma anche il netto, che è quello che
conta. Vengono pertanto valutati gli effetti di entrambi i
meccanismi erosivi - pension drag e fiscal drag -
cumulando la loro componente automatica, derivante
dall'inflazione, con quella generata dal legislatore. Non da
un punto di vista macroeconomico, ma da quello dei singoli
individui, sia pur raggruppati per fasce di reddito. Al
pensionato, o al contribuente in generale, interessa infatti
poco apprendere - e gli riesce difficile credere - che la
pressione fiscale è rimasta invariata, o che il tasso di
inflazione è diminuito di qualche decimo di punto: ciò che
egli direttamente constata rispetto al passato, e teme per il
futuro, è la riduzione progressiva del suo personale potere di
acquisto. In altri termini, ciò che gli importa è la sua
personale sfera microeconomica. Quella che egli si configura
leggendo gli statini della pensione o dello stipendio,
compilando le dichiarazioni dei redditi e osservando come
cambia il suo tenore di vita. L'analisi è limitata al caso più
semplice di un pensionato senza carichi di famiglia e senza
altri redditi: una casistica più ampia nuocerebbe alla
chiarezza e sarebbe comunque non esaustiva. Vengono anche
stabiliti dei confronti con un lavoratore dipendente ancora in
attività, sempre però rimanendo nell'ambito dei redditi
fissi.
Inquadramento del problema. Distingueremo i redditi,
lordi o netti, in effettivi e teorici. Effettivi quelli di
fatto percepiti. Teorici quelli che idealmente terrebbero il
passo con il costo della vita, mantenendo nel tempo il loro
potere di acquisto, se venissero rivalutati al 100 per cento
del tasso d'inflazione (a decorrere dall'inizio del periodo di
osservazione, che qui è il 1991, in cui valori effettivi e
teorici naturalmente coincidono). I redditi verranno espressi
a volte in lire correnti, a volte anche in lire costanti (qui
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useremo sempre lire del 1997): potranno quindi essere nominali
o reali.
Analogamente in tema di aliquote fiscali, che qui saranno
sempre quelle medie: nominali quelle ufficiali correnti
nell'anno considerato, effettive quelle derivanti dal relativo
drenaggio. Verranno, inoltre e in seguito, introdotti i
concetti di deriva e quello di aliquota equivalente al
drenaggio previdenziale.
Come anticipato, Mpa è l'abbreviazione di meccanismo di
perequazione automatica.
Viene presa in considerazione la fascia di redditi da 25 a
200 milioni di lire (annue lorde, 1997), corrispondenti a
circa 1,6 e 9,5 netti mensili. E' la fascia, configurata a
piramide, in cui si colloca la maggioranza dei pensionati di
vecchiaia che hanno lavorato per quarant'anni o giù di lì,
versando - assieme alle loro aziende - adeguati contributi, e
che comprende livelli dagli esecutivi ai dirigenziali.
All'interno della fascia vengono considerati altri due livelli
di reddito, di 50 e 100 milioni di lire. Il dettaglio in
tabella A.
... (omissis) ...
Il periodo esaminato va dal 1991 al 2011, ed è suddiviso
in quattro archi temporali, segnati dal 1997, 2001 e 2008. La
scelta è arbitraria, ma non immotivata.
Il 1991 è stato individuato quale inizio del periodo di
osservazione in quanto ultimo anno di recupero integrale del
Fiscal drag (introdotto solo da pochi anni, era stata la
grande vittoria dei sindacati, che adesso tacciono, preferendo
difendere le pensioni di anzianità). Questo punto di partenza
consente di avere un minimo di storia alle spalle, per poter
confrontare passato acquisito e probabile futuro.
Il 1997, che è l'anno di riferimento per i redditi e per
il relativo potere di acquisto, è l'ultimo del vecchio regime
fiscale e della rivalutazione (sia pur intaccata dalla
scalettatura introdotta nel 1984) di tutte le fasce di reddito
di pensione.
Il 2001 chiude il periodo di cura dimagrante delle
pensioni ricche, stabilito dalla legge finanziaria per il
1998, dopo di che si dovrebbe, a legislazione vigente,
ritornare alla normalità (ma è ragionevole temere altri
tagli). Ritornarvi sì, ma solo fino al 2008, dopo di che la
perequazione automatica - grazie alla riforma Dini - sparirà
del tutto, tranne che per i redditi molto bassi: per
intravederne le conseguenze si è pensato di guardare in avanti
per un paio di anni, arrotondando al ventennio e chiudendo
quindi al 2011.
L'aver preso in considerazione questo ventennio consente a
chi sia stato collocato in pensione in anni recenti (anche se
non esattamente all'inizio del 1991) un confronto
approssimativo, ma abbastanza attendibile fra l'erosione di
reddito fin qui subita, e quella cui andrà presumibilmente
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incontro negli anni a venire, se avrà la fortuna di campare
oltre gli ottanta anni o quasi.
Nei calcoli sono stati assunti i parametri fiscali -
aliquote, scaglioni, detrazioni e tassa salute (Cssn) -
vigenti negli anni considerati: quelli noti del 1991, del 1997
e del 1998, e questi ultimi anche per il futuro. Viene
ipotizzata, ottimisticamente, la futura "restituzione" del
Fiscal drag sulle sole detrazioni. Ancor più
ottimisticamente non vengono previsti, da parte delle regioni,
inasprimenti dell'aliquota dello 0,5 per cento sostitutiva del
Cssn, che nel 1998 e nel 1999 è ritagliata all'interno
dell'IRPEF. Nemmeno sono messe in conto analoghe lievitazioni
delle addizionali comunali e provinciali in corso di
introduzione.
Non sono prese in considerazione né l'imposta per l'Europa
né altre imposte straordinarie.
Per il potere di acquisto si è prefigurato un andamento
corrispondente ad un tasso d'inflazione medio annuo del 2,0
per cento dal 1999 in poi. E' un tasso che può apparire
elevato considerando il favorevole andamento degli ultimi due
anni, ma che in una proiezione a lungo termine certamente non
eccede in pessimismo. Specie considerando il non brillante
avvio dell'euro nei confronti del dollaro, nonché la
probabilità che i venti di guerra che hanno ripreso a soffiare
nella primavera 1999 lascino dei segni: poiché da sempre
svalutazioni e conflitti sono stati motori dell'inflazione. Se
si verificheranno sensibili scostamenti dal 2,0 per cento, la
connessa erosione sarà più o meno marcata, ma non perderà la
sua natura perversa: gli eventi temuti si verificheranno con
qualche anno di anticipo o di ritardo, ma si
verificheranno.
Un altro motivo per cui si è preferito non scendere sotto
il 2,0 per cento è che al di sotto di questo valore non
dovrebbe nemmeno scattare quel poco di restituzione del
Fiscal drag che è ancora concesso, e di cui qui si è pur
voluto tener conto.
Al capitolo 6 si espongono comunque gli effetti che
avrebbero l'aumento o la diminuzione di un punto del tasso di
inflazione rispetto all'ipotesi base, limitatamente a quella
che è la conclusione più importante, e cioè l'erosione della
pensione netta.
Sempre in tema di inflazione, si fa un atto di fede nelle
modalità con cui essa è ufficialmente valutata, e cioè negli
indici forniti dell'Istituto nazionale di statistica (ISTAT),
anche se l'esperienza quotidiana spesso induce a non
credervi.
La tabella B riassume i valori assunti nei calcoli: in
carattere normale quelli acquisiti fino al 1998, in corsivo
quelli ipotizzati per il futuro.
Pag. 7
... (omissis) ...
Ai dati sul potere di acquisto (ISTAT fino al 1998,
ipotesi descritte dal 1999 in poi) e relativi tassi di
inflazione, sono stati affiancati i valori dei minimi INPS,
necessari per valutare gli effetti del Mpa. Le due serie di
dati dovrebbero in teoria collimare se fatte scorrere di un
anno, poiché l'INPS stabilisce il proprio coefficiente per
l'anno corrente sulla base di quello definito dall'ISTAT per
l'anno precedente, riconoscendo l'eventuale differenza l'anno
successivo. Gli scostamenti del passato sono da attribuire
all'aggancio alla dinamica salariale, introdotto nel 1976 e
soppresso a decorrere dal 1994, e ad altri provvedimenti
legislativi di carattere restrittivo volti a fronteggiare la
crisi di quegli anni Gli scorrimenti sono ovviamente nulli se
il tasso di inflazione si assume costante.
Effetti del Mpa: il Pension drag. Per valutare
l'impatto del Mpa sui redditi di pensione è necessario tener
presente in quale misura differenziata esso copra le relative
fasce, che vengono espresse in multipli del minimo. La tabella
C descrive i criteri, la tabella D riporta i valori cui i
criteri si applicano (sia i lordi sia - per una più concreta
evidenza - i netti).
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... (omissis) ...
Possiamo ora valutare gli andamenti dei redditi lordi
nominali effettivi, di fatto percepiti, confrontarli con
quelli dei redditi lordi nominali teorici, al passo con
l'inflazione, calcolarne le differenze. I risultati in tabella
E.
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... (omissis) ...
E' importante tener sempre presente, nel discorso che
segue, che per livelli di riferimento assumiamo le pensioni
lorde del 1997, mentre il confronto con un ipotetico andamento
al passo con l'inflazione incomincia dal 1991. I valori del
1991 sono pertanto quelli, più bassi, che grazie al meccanismo
del Mpa conducono ai 25, 50, 100 e 200 milioni di lire del
1997. Questi livelli di riferimento vanno quindi considerati
come delle etichette delle serie di dati esposte nelle tabelle
e nei grafici (nel senso che avremmo anche potuto chiamarli
"a", "b", eccetera).
Il grafico A è una versione della tabella E, ma espressa
in lire costanti, aventi il potere di acquisto del 1997. I
redditi teorici, a potere d'acquisto costante, sono
rappresentati da una retta orizzontale per ciascuno dei
quattro livelli considerati.
Il grafico indica che, ad esempio, se l'indicizzazione
fosse stata piena, un pensionato dal 1991 pervenuto ad una
pensione lorda effettiva di 100 milioni di lire nel 1997,
avrebbe dovuto intascare - sempre nel 1997 - 4,345 milioni in
più. Dice anche che il medesimo, oppure un pensionato del
1997, se campa fino al 2011, vivrà in quell'anno come sarebbe
vissuto nel 1997 con 12,505 milioni in meno (100,000 -
87.495). Sono cifre che evidentemente vanno lette con larga
approsimazione, dato che tutto è legato - dal 1999 in poi -
alla nostra previsione, dei cui limiti si è detto, nonché alla
ipotesi di non peggioramento della normativa previdenziale. Se
qui si arriva con i decimali alle migliaia di lire non è
quindi per un pretesa di precisione, ma solamente per meglio
guidare alla lettura del grafico.
Il pensionato del livello 25, quello in basso, sembra
uscire indenne dall'erosione da Mpa, a causa della scala che
appiattisce. Ma anch'egli percepirà, nell'ultimo anno del
ventennio, meno di quanto aveva percepito nel primo:
precisamente 1,685 milioni di lire di meno, sempre in lire
1997.
Oltre a considerare le perdite assolute sul reddito lordo,
nominale o reale che sia, è interessante e forse più efficace
valutare la corrispondente perdita percentuale del potere di
acquisto. Ovvero, in gergo e con una parola sola, la deriva
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del reddito nominale percepito rispetto ad un reddito nominale
teorico che tenga il passo con l'inflazione.
Se con p indichiamo l'incremento del reddito
nominale, con f il tasso di inflazione, la deriva
d è data dall'espressione d=(p-f)/(1+f).
La deriva è la misura dell'incremento del reddito reale;
se è negativa, si ha un decremento; se è nulla, il reddito è
costante. La formula è largamente usata per valutare
l'andamento reale dei prezzi, compreso quello del denaro: se
p è il tasso d'interesse nominale, d è il tasso
reale. Applicando la formula ai nostri casi, si ha:
... (omissis) ...
Tornando all'ultimo esempio, una pensione lorda di 25
milioni di lire nel 1997 risultava erosa dello 0,3 per cento
rispetto a quella iniziale. Pochissimo, ma con la prospettiva
di sfiorare il 7 per cento nel 2011. Peggio, molto peggio
naturalmente, per i redditi più alti.
Costituendo la tabella E, la tabella F ed il grafico A tre
modi diversi di rappresentare lo stesso fenomeno, essi devono
essere intrinsecamente congruenti. Si può, ad esempio,
facilmente constatare che se si moltiplica il valore della
deriva per il valore del reddito nominale teorico, si ottiene
la perdita nominale, espressa in lire dell'anno considerato.
Attingendo invece dal grafico A il valore relativo ad un certo
anno, dividendolo per quello relativo ad un anno precedente e
sottraendo l'unità si ottengono i valori di deriva della
tabella F.
Ogni applicazione del Mpa erode la base di calcolo per
quella dell'anno successivo. E' una sua brutta caratteristica,
che conviene illustrare con un esempio.
Immaginiamo - nulla importando a questo fine che i dati
siano assai poco realistici - un anno con una forte botta di
inflazione, seguito da nove anni di inflazione nulla.
Confrontiamo questa serie con una che presenti gli stessi
valori, ma invertiti nel tempo. Al decimo anno (a parametri
del Mpa stabili) la pensione reale sarà la stessa, ma nel
primo caso la perdita complessiva nel decennio sarà decupla.
In altri termini, ciò che è perso è perso per sempre.
Effetti congiunti del pension drag e del
Fiscal drag. Agli effetti erosivi del Mpa, cioè al drenaggio
previdenziale, si aggiunge quello fiscale. Il loro "combinato
disposto" provoca una perdita di potere di acquisto del
reddito netto, quello che conta, significativamente maggiore
di quella fin qui emersa. Ricordiamo che con il termine
drenaggio intendiamo qui sia quello in senso stretto,
determinato dall'inflazione a parametri nominali fermi, sia
quello derivante dagli interventi del legislatore sui
parametri stessi.
Delle tre modalità di rappresentazione del fenomeno
erosivo introdotte per illustrare il pension drag,
scegliamo - questa volta in forma grafica - la terza, che ci
dà le derive. Con l'avvertenza che i valori non sono più
calcolati anno per anno - come avevamo dovuto fare per
calcolare gli effetti del Mpa sul lordo - ma solo per gli anni
di riferimento e interpolati per gli altri, perché i calcoli
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completi dell'IRPEF sarebbero risultati eccessivamente
ponderosi, specie dopo la "semplificazione" introdotta dalla
riforma Visco.
Confrontando il grafico B con la tabella F, si nota come
la deriva dovuta al solo Mpa peggiori sensibilmente passando
alla deriva complessiva, determinata congiuntamente dal Mpa e
dall'IRPEF. Considerando ad esempio il 2011, c'è un incremento
della perdita del potere di acquisto di 2,7 punti percentuali
al livello più basso, e di 5,8 a quello più alto.
Fin qui si è calcolata la deriva del reddito lordo,
confrontando quello effettivamente percepito e generato dal
Mpa con un reddito lordo teorico sempre al passo con
l'inflazione, cioè allineato al costo della vita e quindi con
potere di acquisto costante. Si è poi calcolata la deriva
complessiva, confrontando quello netto effettivo con un netto
anch'esso teorico e al passo con l'inflazione. La differenza
fra le due derive non è però esattamente la deriva generata
dall'IRPEF. Quest'ultima si ottiene infatti confrontando
l'imposta effettivamente pagata nei vari anni con quella
teorica e più lieve che si sarebbe pagata sul medesimo reddito
lordo se i parametri impositivi del 1991 fossero stati
automaticamente riallineati al costo della vita - cioè se a
decorrere dal 1992 non fosse stata soppressa la restituzione
piena del fiscal drag - e se il legislatore non fosse
successivamente mai intervenuto, per lo più inasprendo i
parametri stessi anche in termini nominali. In altri termini,
se le aliquote nominali medie fossero rimaste invariate.
Il grafico C riporta, limitatamente al livello di 100
milioni di pensione lorda nel 1997 (considerare tutti i
livelli lo renderebbe poco comprensibile), le due derive,
previdenziale e fiscale, e la loro risultante, che è data
dalla loro somma più il loro prodotto.
Si noti come fino al 1997 il contributo delle due
componenti sia pressoché paritetico, mentre in seguito
prevalga la componente erosiva del Mpa. Si noti anche come
nell'ultimo periodo, dal 2008 al 2011, la componente erosiva
dell'IRPEF si attenui leggermente. Ciò scaturisce dal fatto
che, rimanendo ormai il reddito lordo nominale invariato, si
fa apprezzare quel minimo di recupero dato dalla restituzione
parziale del fiscal drag. Infatti, abbiamo sì valutato
gli andamenti futuri a legislazione ferma, ma ferma nel senso
che si continui a rivalutare almeno quel poco costituito dalle
detrazioni (indicizzando sia gli importi che gli scaglioni
delle stesse).
Un'altra rappresentazione, forse la più efficace perché
basata sul più familiare concetto di aliquota - data nel
grafico D - consiste nel tradurre le derive in aliquote:
aliquote vere e proprie per la parte di reddito che va al
fisco, aliquote virtuali ma non per ciò meno devastanti per la
parte di reddito non percepita in virtù (si fa per dire) del
Mpa.
Manteniamo l'esempio del livello 100 per meglio
comprendere la corrispondenza biunivoca fra i due concetti.
Dire che nel 2011 il reddito lordo sarà - vedi ancora la
tabella E - di 115,222 milioni di lire anziché dei 137,412 che
ci sarebbero stati se la copertura del Mpa fosse del 100 per
cento, significa che alla fine c'è un "non percepito" e quindi
un prelievo virtuale che equivale ad un'aliquota impositiva.
Che vale il 16,1 per cento (la differenza fra i due valori
divisa per il maggiore di essi). Naturalmente all'inizio del
nostro periodo di osservazione quest'aliquota è nulla, in
quanto la lima del Mpa comincia a sgrossare dall'anno
successivo al pensionamento. Si noti come il valore
dell'aliquota corrisponda esattamente, cambiato di segno, a
quello della relativa deriva di cui al grafico precedente. C'è
infatti una relazione matematica che lega le due, che
omettiamo per economia del discorso.
Qui, a riprova della congruenza, basti notare che quando
le curve del grafico C volgono all'ingiù, le corrispondenti
curve del grafico D volgono all'insù, e viceversa. Forse non è
inutile ricordare che si tratta di aliquote medie effettive, e
che le stesse tengono conto dei parametri impositivi dei vari
anni, Cssn compreso ove ricorrente.
L'aver potuto esprimere anche il drenaggio previdenziale
in termini di aliquote - incisive ancorché non codificate in
Pag. 12
tabelle ufficiali - conferma che esso costituisce una vera e
propria imposta occulta, generando grazie al motore
dell'inflazione un gravame addizionale sui pensionati.
Due pesi e due misure. Fin qui, raffrontando il
reddito netto reale con quello teorico, che si avrebbe se il
netto stesso tenesse il passo con l'inflazione, abbiamo
valutato - con diverse chiavi di lettura - l'effettiva perdita
di potere di acquisto di una pensione nel ventennio
considerato. Vi siamo pervenuti valutando prima la deriva
previdenziale generata dal Mpa e - correttamente a valle di
questa - la deriva fiscale. Questo tuttavia non ci dice ancora
quale sarebbe il danno se il Mpa fosse quello che il suo nome
lascerebbe intendere, cioè se invece di erodere il reddito
lordo lo mantenesse per davvero nel tempo in termini reali.
Infatti, se il reddito lordo non venisse eroso, dovrebbero
essere pagate maggiori imposte, e contestualmente lo Stato
spenderebbe di più in termini di pensioni, ma nel contempo
incasserebbe di meno in termini di IRPEF. In altri termini, se
vogliamo determinare non il danno assoluto subìto dal
contribuente pensionato (come fin qui fatto), ma quello
relativo, rispetto agli altri contribuenti, dobbiamo mettere a
confronto i relativi redditi netti partendo dal medesimo
valore iniziale. Date le numerose tipologie di redditi e dei
relativi criteri impositivi, la scelta del termine di paragone
non è del tutto ovvia. Fortunatamente è quasi obbligata, in
quanto implicita nella definizione stessa di fiscal
drag. Paragoneremo perciò il contribuente pensionato ad un
contribuente tipo, che produca un reddito imponibile costante
nel tempo in termini reali: quello che qui abbiamo chiamato
reddito lordo teorico, la cui deriva è per definizione nulla.
Sarà questi, per usare una parola di moda oramai entrata anche
nel gergo dei piccoli risparmiatori, il nostro
benchmark. Il contribuente benchmark, è
un'astrazione, poiché dobbiamo attribuirgli gli stessi
scaglioni, aliquote e detrazioni fiscali del pensionato, il
che a rigore lo rende una figura inesistente nel parco dei
contribuenti persone fisiche, ma ci dobbiamo - e possiamo -
accontentare. Possiamo perché egli può essere identificato, in
pratica, con un lavoratore dipendente che, pur non facendo
carriera, benefìci di rinnovi contrattuali tali da mantenere
costante il potere di acquisto del suo reddito lordo: in tale
caso le differenze di reddito netto si riducono a quelle
generate dalle diverse aliquote del Cssn. Esse sono ai nostri
fini del tutto trascurabili (qualche centesimo di punto
percentuale nel 1991, un paio di decimi nel 1997, nulle in
seguito). Naturalmente se prescindiamo da considerazioni più
vaste, cui accenneremo in seguito.
E' il caso di notare che parliamo di redditi imponibili e
quindi il reddito lordo del benchmark, quello che figura
sulla busta paga, sarà superiore perché comprende la parte
destinata al risparmio e cioè i contributi previdenziali a
carico del lavoratore, non tassati (di essi si è tuttavia
tenuto conto per calcolare il Cssn, assumendo dei contributi
Ago mediamente pari al 8 per cento nel 1991 e al 10 nel 1997).
I risultati dei calcoli sono riassunti nella tabella G.
Pag. 13
... (omissis) ...
Come si vede, i redditi di entrambi i contribuenti messi a
confronto divaricano nel tempo da un reddito che tenesse il
passo con l'inflazione, e quelli del pensionato molto di più,
configurando nel tempo un andamento a forbice.
Una rappresentazione della forbice, forse più incisiva,
può essere data in termini di aliquote medie equivalenti ai
due drenaggi, dal grafico E. Per ciascuno degli anni
significativi del ventennio sono rappresentate - raggruppate
per livelli - le aliquote IRPEF effettive del contribuente
benchmark, generate dal fiscal drag. Sovrapposte
Pag. 14
ad esse, le aliquote addizionali virtuali gravanti sul
pensionato, generate dalla combinazione di pension drag
e di Fiscal drag.
Come si vede, il pensionato è di fatto più tassato del
benchmark (suo ipotetico ex collega ancora in
servizio, supposto a reddito reale costante nel tempo).
Nell'ultimo anno del ventennio il pensionato, a parità di
imponibile del 1991, sarà soggetto ad un prelievo virtuale
superiore mediamente di un quarto.
Benché nel grafico, per non dilatarlo fuor di misura, non
si sia potuta mantenere la scala dei tempi, non dovrebbe
sfuggire l'impennata nella fascia più bassa di reddito
nell'ultimo triennio, dovuta alla prevista abolizione di ogni
forma di indicizzazione a decorrere dal 2009.
Sensibilità all'inflazione. L'ipotesi assunta, di un
tasso d'inflazione del 2,0 per cento dal 1999 in poi, è quasi
certamente ottimistica. E' comunque interessante andar a
vedere che cosa accadrebbe sesi verificassero degli
scostamenti. Ad esempio - fra le infinite ipotesi possibili -
se dal suddetto valore si scendesse gradualmente di 1 punto
fino al 2001 per attestarvi in seguito; ovvero se,
simmetricamente, si salisse di altrettanto. Sarebbe
ingombrante farlo riproponendo l'intera panoramica fin qui
illustrata, perciò ci limitiamo ad una tabella, che ci mostra
di quanto diminuirebbe o crescerebbe la perdita di potere di
acquisto.
... (omissis) ...
La variazione di 1 punto del tasso di inflazione rispetto
all'ipotesi base (riportata nella colonna centrale della
tabella H), comporterebbe dunque una sensibile differenza
della deriva complessiva. Differenza valutabile mediamente in
4 punti circa, che sono tanti e che rendono l'idea della
potenza della leva costituita dal drenaggio previdenziale e
fiscale. Potenza che avremmo anche potuto esprimere, tenendo
fermi i valori dell'ipotesi base, quantificati in tutti i
grafici precedenti, in termini di anni di ritardo o di
anticipo del presentarsi dei valori stessi, con inflazione in
discesa o rispettivamente in salita.
Da notare che effetti analoghi al verificarsi di un
diverso trend inflazionistico avrebbero un miglioramento
o all'opposto un peggioramento dei parametri del Mpa, nonché
una diminuzione o un aumento della pressione fiscale. Ne
consegue che appare sconvolgente l'ipotesi - purtroppo non
improbabile - che si presentino assieme i tre fenomeni
negativi: risveglio dell'inflazione, ulteriore falcidia del
Mpa, aumento delle imposte.
Osservazioni. Oltre ai fenomeni analizzati, vi sono
altre cause, dirette e indirette, di logoramento silenzioso
del potere di acquisto e di esasperazione della progressività,
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che poco o per nulla si prestano ad una trattazione analitica
o che - pur uscendo dal tema - vanno perlomeno menzionate.
Ad esempio: i tagli della reversibilità; il divieto
parziale di cumulo; le varie rivalutazioni delle cosiddette
"pensioni di annata", governate dalla stessa filosofia cui è
improntato il Mpa, i riflessi sul trattamento di fine rapporto
(Tfr) della riforma Visco, nonché la trasformazione degli
oneri deducibili in oneri che danno luogo a detrazioni di
imposta, il contributo straordinario per l'Europa, pagato da
una esigua minoranza di italiani, e via dicendo.
Dal quadro qui tracciato emerge, o meglio viene
confermata, una delle linee guida del fisco, che si traduce
nell'inasprire le aliquote o nel lasciarle lievitare
automaticamente con l'inflazione, mostrando di compensarne
l'impatto con maggiori detrazioni. In effetti le detrazioni
vengono aggiornate (non sempre!), e così possono dire di aver
"restituito" il fiscal drag: ma le detrazioni
costituiscono un'apprezzabile frazione dell'imposta lorda solo
per i redditi bassi, che rimpicciolisce man mano che l'imposta
cresce con il relativo reddito, rendendo irrilevanti le loro
variazioni. La riforma Visco è a questo proposito illuminante:
nel primo anno di applicazione l'articolazione delle
detrazioni per lavoro dipendente, i cui scaglioni sono passati
da 7 a 17 (è la semplificazione), ha inseguito con
ragionieristico puntiglio la curva delle nuove aliquote,
ridotte da 7 a 5, in maniera da non appesantire
apprezzabilmente le aliquote medie dei redditi bassi e medi
(ma sempre punendo quelli medio-alti) L'aspetto poco
appariscente di questa manovra è che la maggior enfasi posta
sulle detrazioni favorisce il drenaggio, appesantendo
automaticamente nel tempo la mano del fisco, anche sui redditi
bassi.
Conseguenza dell'appesantimento del prelievo, sia di
quello esplicito dell'IRPEF che di quello implicito nel Mpa, è
l'esasperazione della progressività, e quindi il livellamento
verso il basso.
L'esempio del blocco nel 1998 e del contenimento nei tre
anni successivi della rivalutazione delle pensioni "ricche" è
ancora una volta illuminante. A parte il fatto che ne risulta
minata la credibilità del Governo nella lotta all'inflazione
(il blocco sarebbe infatti inutile se l'inflazione fosse
nulla), il provvedimento non tocca le pensioni baby in
atto, che difficilmente raggiungono i 3,5 miliardi e che meno
hanno subìto nel passato i drenaggi fiscale e previdenziale.
Non ha toccato nemmeno, nel 1998, i titolari di più pensioni
singolarmente inferiori a questo tetto (ma poi vi si è posto
rimedio, ripartendo con giustizia l'ingiustizia). Tocca invece
pesantemente coloro - appunto i "ricchi" - che più hanno
sgobbato per far carriera, versando contributi per una
quarantina d'anni. Poiché per le casse pubbliche il risparmio
sarà modesto, è difficile non ravvisarvi una politica che -
forse inconsapevolmente e comunque non dichiaratamente -
sembra avere per obiettivo principe l'uguaglianza: non delle
condizioni di partenza, bensì di quelle di arrivo.
Per contro si scalfisce appena, con delicatezza,
l'istituto delle pensioni di anzianità, la più pesante anche
se non unica palla al piede della previdenza, che sforna
pensionati aitanti e vigorosi, con prospettiva di lunga vita
avanti a sè, ma con breve storia contributiva alle spalle. La
Repubblica, più che sul lavoro, appare fondata sul riposo.
Concorre a sostenere questa politica l'affievolimento, nella
cultura previdenziale e giuridica, del concetto di diritti
acquisiti, in una con una mal digerita ma sempre più
rassegnata tolleranza verso le inadempienze dello Stato.
Nessuno, avendo stipulato una polizza vita indicizzata,
tollererebbe che la compagnia ne riducesse unilateralmente e
all'improvviso le prestazioni. Ma se la controparte è lo
Stato, resta solo l'arma spuntata del mugugno. Non si vuole
certo sostenere che le regole non possano essere cambiate,
altrimenti nemmeno l'età pensionabile potrebbe venir
innalzata, ma il preavviso dovrebbe essere congruo all'entità
del danno subendo e alla possibilità di rimediarvi.
Conclusione. Il quadro tracciato non induce certo
all'ottimismo, anche perché potrebbe venir aggravato da una
non positiva evoluzione - e purtroppo dei segnali ci sono -
Pag. 16
del contesto economico e politico, nazionale ed
internazionale.
L'analisi condotta conferma l'equivalenza del drenaggio
previdenziale e di quello fiscale a delle imposte virtuali,
virtuali ma concretamente incidenti sul reddito dei
contribuenti e in special modo su una categoria di essi, i
pensionati.
I pensionati: un esercito la cui forza nel senso di
organico è poderosa, mentre è pressoché nulla in termini di
potere contrattuale, al quale pertanto si può, senza eccessiva
difficoltà, imporre una cura dimagrante. La ricetta? Se
l'inflazione cala, si aumenta la tassa sull'inflazione.
Ottenendo nel contempo di livellare tutti, verso il basso.
Anzi, più in basso: poiché, se i redditi alti ne escono con le
ossa rotte, a quelli bassi non vengono risparmiati - come ben
si è visto - gli ematomi.
Articolo 3. (Cumulo tra pensione e redditi da lavoro
autonomo). - La normativa vigente in materia di cumulo tra
pensione e reddito da lavoro (dipendente o autonomo) presenta
difformità di trattamento tali da giustificare ogni
riferimento alla violazione dei princìpi costituzionali
vigenti. E' innanzitutto violato il dispositivo costituzionale
sull'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge
(articolo 3, primo comma) e il secondo comma dello stesso
articolo 3 laddove imperiosamente si afferma che: "E' compito
della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e
sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza
dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona
umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del
Paese".
E' di chiara evidenza che le modifiche apportate negli
ultimi anni al sistema pensionistico sono state dirette non a
rimuovere tali ostacoli bensì a porne sempre di più e di più
consistente gravità, relegando i cittadini pensionati in una
condizione di effettiva inferiorità nella scelta e nel
concreto svolgimento di attività lavorative che -
indipendentemente dalla loro natura - rappresentano comunque
l'adempimento di un "dovere" costituzionalmente prescritto dal
secondo comma dell'articolo 4 della Costituzione: "Ogni
cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie
possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione
che concorra al progresso materiale o spirituale della
società".
Il cittadino che decide di svolgere attività lavorativa,
dopo aver acquisito un trattamento pensionistico, ha invece la
netta e concreta sensazione di non essere considerato alla
pari di tutti gli altri, ma che da lui si pretenda un
sacrificio maggiore di quanto in effetti si chiede alla
generalità dei cittadini, impedendogli di partecipare alle
difficoltà dello Stato sociale con una rinuncia a qualcosa di
già suo a fronte di un vantaggio pressoché inesistente. A
titolo di esempio, si tenga presente il fatto che se un
pensionato con una rendita lorda di 3 milioni di lire al mese
ha anche un reddito di collaborazione autonoma di lire 20
milioni annue, con la vigente normativa consegue un vantaggio
di poco più di 3 milioni di lire. A fronte dei 20 milioni di
lire derivantigli dal lavoro autonomo costui subirà infatti
una decurtazione di oltre 16 milioni di lire dovuta: ai
contributi previdenziali (800.000), alle maggiori imposte
(1.829.100) e, naturalmente, alla perdita del 50 per cento
della quota di pensione eccedente il trattamento minimo
(13.740.000).
Si tenga poi presente la disuguaglianza esistente fra gli
stessi pensionati, giacché l'entità della trattenuta sulla
pensione e lo stesso divieto di cumulo dipendono da fattori i
più disparati, quali, principalmente: il tipo di reddito
prodotto dal lavoro del pensionato (dipendente o autonomo), la
categoria della pensione (vecchiaia, invalidità, anzianità);
la data di decorrenza della pensione; l'anzianità
contributiva; la data entro la quale, indipendentemente dal
momento del pensionamento, sono stati perfezionati i requisiti
della pensione.
E' ben vero che la crisi del sistema sociale obbliga la
comunità a sacrifici economici non indifferenti; ma se le
spese del medesimo sistema vanno ricomprese tra le spese
pubbliche, alle quali tutti sono tenuti a concorrere "in
ragione della loro capacità contributiva" (primo comma,
dell'articolo 53 della Costituzione), ecco dunque che al
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cittadino lavoratore pensionato si chiede molto di più, e cioè
di rinunciare "anche" a parte della rendita conseguita in
forza di una assicurazione obbligatoria. In altre parole, il
cittadino pensionato che vuole lavorare è costretto a pagare
una "penale" più o meno elevata che vanifica di fatto sia il
suo diritto di rendersi utile alla comunità attraverso
l'esperienza acquisita (unico strumento indiscutibilmente
valido per trasmettere conoscenza alle nuove generazioni di
lavoratori), sia il tentativo di ricercare risorse aggiuntive
quando nell'ambito familiare affiorano prepotentemente
situazioni di gravi difficoltà economiche, non altrimenti
affrontabili se non con il lavoro: come, ad esempio (ma è una
realtà sotto gli occhi di tutti), il mantenimento dei figli
disoccupati, anche laureati, fin oltre trenta anni di età, in
ciò sostituendosi allo Stato nella congenita incapacità di
promuovere le condizioni che rendano effettivo il diritto al
lavoro (primo comma dell'articolo 4 della Costituzione).
Se, inoltre, può ancora essere ritenuto in qualche modo
moralmente e temporaneamente accettabile il divieto di cumulo
tra pensione e retribuzione, rinvenendosi in un rapporto di
lavoro dipendente una qualche forma di "ostacolo" alla lotta
contro la disoccupazione giovanile, assurdo è invece
continuare a punire lo svolgimento di una attività autonoma,
legata alla specifica capacità di collaborazione del singolo,
collaborazione che costituisce il più valido strumento di
trasmissione di professionalità, soprattutto in tempi, come
gli attuali, in cui la formazione è posta al centro del
problema lavoro e per la quale si stenta anche a reperire le
risorse economiche adeguate alla bisogna. Ecco dunque un altro
motivo a fondamento della presente proposta di legge.
Il cumulo tra reddito e pensione rappresenta inoltre un
buon affare per l'economia pubblica, giacché contribuirebbe ad
eliminare il fenomeno del "lavoro nero" e ad incamerare
maggiori entrate fiscali. Nell'esempio avanti proposto, il
pensionato non avrà infatti alcuna convenienza a lavorare; ma
se al lavoro lo costringono impellenti necessità economiche,
ecco che si troverà costretto a scegliere la strada proibita,
facendo mancare alla comunità la maggiore imposta che invece
sarebbe garantita se lo Stato gli consentisse di lavorare alla
luce del sole, cumulando ciò che comunque gli appartiene
perché frutto non dell'altrui bensì del proprio sacrificio. Il
pericolo che la scelta possa ricadere sul lavoro nero non
sembri infatti peregrino. Basta usare il buon senso del padre
di famiglia per comprendere i fenomeni che ci circondano e
come purtroppo i cittadini cercano di sbarcare il lunario. A
fronte di uno Stato che sempre di più si dimostra incapace di
combattere l'evasione fiscale e contributiva, sarebbe persino
delittuoso continuare a privare cittadini di buona volontà,
come lo sono certamente i pensionati lavoratori, di buona
parte delle risorse cui hanno fatto e fanno affidamento per
affrontare le difficoltà della vita.
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